domenica 21 ottobre 2007

Racconti brevi/Il passero solitario

Il passero solitario
di Giovanni Pistoia


Sulla vetta di una torre antica un passero panciuto e solitario gorgheggia al tiepido sole di primavera. Canta osservando i tetti delle case, la campagna, in lontananza, distesa e profumata, il via vai di tanta gente tra strade, cubi di cemento, vicoli e piazze.

Noi siamo la città bella. Noi siamo la città pulita. Noi siamo la città sana. Noi siamo la città delle bambine e dei bambini. Noi siamo il nostro futuro. Noi siamo il mare azzurro, il cielo trasparente, le colline verdi, la montagna innevata. Noi siamo l’oggi e il futuro. Siamo la speranza, la vita. Noi siamo la bandiera della pace, della non violenza. Noi siamo il vento fresco che pulisce l’aria e i monti, i mari e le pianure, le campagne e i vicoli. Noi siamo quelli della libertà, della giustizia e della fratellanza, dei diritti e dei doveri.
Noi parliamo, parliamo ad alta voce. Noi vediamo, osserviamo e denunciamo. Noi siamo liberi, liberi di vedere, ascoltare, parlare… parlare. Noi siamo la città bella, siamo la città sana, la città pulita, la città serena, la città solidale.
Giù le mani dalla nostra bella città. Giù le mani dal futuro dei nostri figli, giù le mani dalle donne, dagli anziani, dai malati. Giù le mani dalle nostre coste, dal nostro paesaggio ridente, dalle nostre anime belle. Giù le mani dalle nostre istituzioni, dai pilastri della nostra democrazia. Giù le mani dalle nostre vite.
Noi siamo quelli che combattono il clientelismo, i favoritismi, i familismi e i parassitismi. Noi siamo quelli del rispetto del diritto, delle leggi e dei regolamenti. Noi siamo quelli della cultura della legalità. Sì, la città della legalità e della trasparenza. Sempre e comunque.
Giù le mani, corrotti e corruttori, dalla nostra città. Giù le mani, mafiosi e teppisti e prepotenti e usurai e schiavisti. Giù le mani, delinquenti di ogni tipo e stazza. Giù le mani, prezzolati, dalla nostra città bella, pulita, sana, solidale, legale, trasparente come il mare quando il mare è trasparente. Mafiosi e corrotti, non cederemo, non indietreggeremo, non ci arrenderemo. Sarà lotta dura, lotta vera, lotta senza se e senza ma: perché noi siamo quelli della città giusta.

Il corteo si fa sempre più lungo, le strade sempre più affollate. Da vicoli e piazze, da case e palazzi, da uffici e negozi è un correre di gente. Tutti a ingrossare il corteo colorato e vociante, tutti verso la grande piazza. È stanca la città di lutti mafiosi, di delitti impuniti, di appalti e subappalti, di droga e di usura. È stanca la città dall’economia malata. È stanca la città oppressa dai violenti. È stanca la città della cultura, quella industriale e quella delle banche, della burocrazia e della sanità, della giustizia e dei giovani, dei non più giovani e delle donne, degli uomini e delle bambine. È stanca la città, stanca, stanca.
I negozi chiudono e i commercianti sfilano. Si aprono i cancelli delle scuole e studenti, docenti, non docenti, tutti a partecipare alla protesta. Si svuotano gli appartamenti, le aule universitarie, gli uffici della pubblica amministrazione. Chiudono, listate a lutto, per i troppi taglieggiamenti, i cantieri e le fabbriche: tutti con striscioni ampi e slogans efficaci a frantumare i silenzi. Chiudono le banche, gli uffici postali, le società finanziarie, e perfino dagli ospedali, camici bianchi e verdi e ammalati, come coriandoli, si mescolano nel lungo serpentone della riscossa e della ribellione.
Alla testa della straordinaria manifestazione, con vessilli e bandiere e stemmi e gagliardetti e tante divise e fasce, le autorità istituzionali. I massimi e i minimi esponenti dei partiti e del sindacato e delle associazioni e degli ordini professionali e di categoria. Tute blu, bianche e gialle, signori in abiti ingessati o trasandati, mantelli e divise, spolverini e grembiulini per ogni uso e costume, t-shirt con i colori dell’arcobaleno e jeans stropicciati. Pantofole e tacchi a spillo. E slogan e canti ed emozioni. E volti: volti sorridenti e spensierati, seri e preoccupati, caldi e freddi. Volti fiduciosi e volti sospettosi.

Giù le mani, corrotti e corruttori, dalla nostra città. Giù le mani, delinquenti di ogni tipo e stazza. Giù le mani, mafiosi e malavitosi e prepotenti e usurai e schiavisti. Giù le mani, prezzolati, dalla nostra città bella, pulita, sana, solidale, legale, trasparente come il mare quando il mare è trasparente. Mafiosi e corrotti non cederemo, non indietreggeremo, non ci arrenderemo. Sarà lotta dura, lotta vera, lotta senza se e senza ma: perché noi siamo quelli della città giusta.
Noi siamo la città bella. Noi siamo la città pulita. Noi siamo la città sana. Noi siamo la città delle bambine e dei bambini. Noi siamo il nostro futuro. Noi siamo il mare azzurro, il cielo trasparente, le colline verdi, la montagna innevata. Noi siamo l’oggi e il futuro. Siamo la speranza, la vita. Noi siamo la bandiera della pace, della non violenza. Noi siamo il vento fresco che pulisce l’aria e i monti, i mari e le pianure, le campagne e i vicoli. Noi siamo quelli della libertà, della giustizia e della fratellanza, dei diritti e dei doveri.

La piazza è una lunga onda di teste e colori. La città è svuotata. È tutta lì, raccolta come in una enorme conchiglia. Il mare è lontano, eppure un vento leggero trasporta il sapore della salsedine. La primavera danza, soave, capricciosa e impertinente. Lentamente scende il silenzio sull’ampio spazio. Tacciono i cori e i canti, le bandiere vengono ripiegate. Le tante teste ora sono rivolte al grande palco da dove i mille oratori senza macchia e senza paura tengono accesi discorsi. Gli sguardi dei presenti s’incrociano. S’interrogano. Ci sono tutti in quella immensa piazza. Tutti sono accorsi al grande appuntamento. Sotto lo sguardo attento di una città silente si avvia a concludere il suo intervento l’ultimo degli oratori. Incita alla battaglia contro il cancro che divora la città bella e la città giusta, la città degli onesti e della trasparenza.

Sulla vetta di una torre antica un passero panciuto e solitario gorgheggia al tiepido sole di primavera. Canta osservando i tetti delle case, la campagna, in lontananza, distesa e profumata, la folla, che come un formicaio si distende ai piedi del campanile aguzzo. Svolazza e cinguetta tra un cornicione e l’altro. Con occhi maliziosi fissa l’ondeggiare delle teste.
E ora gli sguardi della piazza sono tutti per lui. È l’unico, a pensarci bene, a non aver partecipato al grande raduno. È l’unico che, sornione, prende in giro la città, bella e sana, pavoneggiandosi dall’alto del torrione. Il passero non si rende ben conto di quello che sta succedendo. Intuisce, però, che è lui il soggetto dell’attenzione, e può essere in pericolo. Dà un colpo d’ali e si allontana al di là della collina, tra i boschi ancora rigogliosi.
Che non sia davvero il panciuto pennuto il pericolo numero uno della città? L’origine dei suoi malanni? Da quel giorno è nella lista nera. Mafioso, maledetto latitante, rovina e vergogna della città. Da quel giorno si è aperta una dura battaglia contro quel nemico terribile e astuto. Se, a volte, sentite qualche sparo è il rimbombare delle fucilate nel tentativo, solido e costante, di liberare la città dai malavitosi. Così è nata la caccia agli uccelli.


(21 ottobre 2007)

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