martedì 7 giugno 2011

Emozioni di pagine in dono



Emozioni di pagine in dono
di Giovanni Pistoia



Dal terrazzino una distesa vastissima di agrumeti; gli alberi si distribuiscono in filari perfetti. Corrono tutti verso il mare, una linea d’orizzonte che si confonde con il cielo. Uno spazio verde, ora più intenso ora meno, qualche venatura di rosa in un azzurro limpido. È il tramonto di una sera di maggio. L’incavo di una mano che racchiude monti, colline, pianura, mare. E colori. Un’isola che non c’è? No. Un’isola che c’è.

Seduto, il mio sguardo si posa su una pianta, che intravedo tra alberi di limoni e un vigneto. È l’agave. Ben robusta tra tanti cespugli. Elegante, particolarmente quando espone il suo fiore. Mi fa tenerezza. Una volta la consideravo una pianta un po’ ruvida, egoista, chiusa tra apici pungenti e foglie spinose. Tutta protesa a difendersi. A volte appare, tra erbe e polvere, un po’ tozza, quasi a non meritare interesse. Poi, ho saputo. E da quel momento mi è particolarmente cara. E ogni volta che si presenta alla mia vista, la guardo con attenzione, con rispetto.

L’agave è una pianta materna, affettuosa fino al sacrificio estremo. Mette al mondo il suo gioiello, un fiore che è una scultura, e che mostra con orgoglio. Lo protegge con le sue foglie acuminate. Sa che con la nascita del fiore, lei muore. Non lo sapevo, ma da quando mi hanno spiegato ciò, questa pianta mi emoziona. E vorrei vederla sempre bene accudita, mai abbandonata a se stessa, come spesso avviene. Ma se la pianta madre muore regalandoci un fiore, non ci abbandona del tutto prima di sparire nel nulla. Lascia cadere, nel tempo, con delicatezza, dei semi, che danno vita a nuove piante. Il ciclo ricomincia.
Lo sguardo distratto non si accorge di niente, eppure tutto ciò avviene. Quando vedo svettare il fiore giallo-verde dell’agave, penso alla vita, e alla morte di chi lo genera, e, ancora, alla nuova vita già concepita. Un po’ come questo sole che è crepuscolo sulle nostre teste, alba, invece, su quelle di altri, in altre parti del mondo. Tutto passa e tutto ricomincia. Tutto è e tutto non è.

Sono a casa di un amico, ne aspettiamo altri. Arrivano. Saluti e abbracci. Mi fa molto piacere conoscere le persone che mi sono presentate. I loro nomi non mi sono estranei, sono tutte personalità del mondo del giornalismo, della letteratura. Sono particolarmente emozionato di conoscere di persona Dante Maffia. Credo di conoscerlo, e non poco, attraverso i suoi libri, le poesie, i saggi critici sulla letteratura. A volte, metto per iscritto alcune riflessioni che i suoi lavori mi trasmettono. Chiacchieriamo da subito; insomma, siamo vecchi conoscenti!


Dante è di fronte a me, alle sue spalle l’agave, che non si stanca di osservarmi. Tra una parola e l’altra, tira fuori un opuscoletto grazioso, e me lo porge, è l’ultima sua raccolta di versi dal titolo “Poesie torinesi”. È fresco di stampa. Il dono di un libro mi è sempre particolarmente gradito, se, poi, questo è un volumetto di poesie di Maffia, e a regalarlo è l’autore in persona, è tutta un’altra musica.

Sfioro il libro, la copertina sa di altra epoca, sulla quarta la riproduzione di un biglietto autografo di Primo Levi del 1981 destinato a Maffia. C’è l’indirizzo, il numero di telefono di Levi per il quale il canto, la pietà e l’intelligenza caratterizzano i versi di Maffia. Lo so, può sembrare tutto assurdo ma quel foglio mi emoziona, il nome di Levi richiama altre suggestioni, altre vibrazioni. Nel testo è riportata anche una pagina scritta a macchina, caratteri piccoli, firmata “Dario Bellezza 1978”. E il nome di Bellezza conserva, per me, un fascino immutato, leggo velocemente lo scritto: è attualissimo.

Ma Dante non sa, non può sapere, quali altri scompigli mi invadono. Torino, città lontana, è stata per me pane quotidiano. Torino era l’argomento che a ogni occasione buona tirava fuori mio padre. Per lui Torino era la Tragedia di Superga, era il Grande Torino. Ero nato qualche settimana prima dello schianto che cancellò una squadra e un sogno. Mio padre volle informarmi, negli anni, su quel dramma e che cosa significò il Grande Torino per un paese a pezzi quale era l’Italia. Conosceva i nomi dei calciatori e dello staff a memoria; non li dimenticò mai. Col tempo seguii, doverosamente, il Torino e, poi, l’Inter, perché in quella squadra c’era il figlio di Valentino Mazzola, l’idolo di mio padre.

Dante mi parla della genesi del libro, un rapporto crudo e d’affetto per quella città, per come ha avuto modo di conoscerla e amarla; una città che racconta storie, tante storie di emigrati meridionali e calabresi. Nelle pagine, sento il rullo della rotativa; avverto il profumo della carta pronta per essere tagliata; scorrono davanti ai miei occhi immagini di mio padre che sul far della sera con un pallone tra i piedi tira in una porta improvvisata, dove ci sono io a fare da portiere (non Bacigalupo!). Atmosfere perse e recuperate, involontariamente, da un libro di poesie, che mi accorgo sto accarezzando. Ma Dante non può sapere tutto ciò. I suoi occhi si fanno piccoli, mentre riprende in mano il volume, chiede una penna, vuole farmi una dedica. Sono confuso, continuo a vedermi adolescente, le pagine torinesi firmate da mio padre diventano più numerose, più fitte, più nitide, varie anche nelle tematiche. Sono davvero commosso.

Dante mi riconsegna il libro, sorride mentre guarda la grande distesa di verde, leggo la dedica: “A Giovanni, emozionato d’incontrarlo …”. No, non può essere vero!

Dante è gentilissimo, pensavo non avesse intuito il mio stato, invece da poeta che guarda oltre i veli, che offre la luna per dessert, ha capito tutto e, allora, non mi chiede che cosa mi turba, scrive che è lui emozionato. Dante, poeta sensibilissimo, fino in fondo. Grazie!


Emozioni di pagine in dono
di Giovanni Pistoia
in “L’albero delle mele doro”
7 giugno 2011

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