mercoledì 17 luglio 2013

Giovanni Pistoia/ Dove non si posa il nido della luna (a proposito di Memorie di alberi recisi di Francesco M.T. Tarantino)






“Memorie di alberi recisi” di Francesco M.T. Tarantino, EdiLet, Roma, luglio 2012

Dove non si posa il nido della luna
di Giovanni Pistoia

«Fummo presenti come dei profeti
Fuori dai giardini e da ogni galera
Ma sempre ci canteranno i poeti.»

Da lontano le prime immagini che appaiono avvicinandoci a un camposanto sono le alte cime degli alberi, spesso cipressi. Ad accoglierci è un sussurrare di chiome anche quando non c’è del vento, e un coro di voci e suoni, e un chiacchiericcio di passeri a raccontarci storie di cielo e di terra. I morti non amano il silenzio dei morti, temono quello dei vivi. È per questo che il cimitero è una tempesta canora, un pentagramma vibrante di note. Il canto degli uccelli, lo stormire delle foglie, l’agitarsi degli aghi o delle pigne … il modo più naturale perché continui il dialogo tra chi non c’è più e quanti resistono fuori dal recinto; recinto che pretende di delimitare uno spazio muto. I morti non amano la solitudine, temono la solitudine dei vivi nel loro rincorrersi senza incontrarsi. Del loro considerarsi dei vincenti, e già periti. Temono l’aridità di chi pensa d’essere immortale e di erigere steccati sempre più alti con i morti, fino ad arrivare al punto di volere, consapevolmente o no, far tacere la loro voce. Che illusione! Possiamo tapparci le orecchie, chiudere gli occhi, riempire di dinamismo i nostri giorni e notti, ma arriva sempre il momento che la voce di qualcuno amato, o anche semplicemente conosciuto, si farà sentire.



Il giorno che uccideremo i morti, avremo ucciso anche noi, poco importa, poi, se penseremo di essere vivi. Saremo altra cosa. E il tempo in cui decideremo, così come è avvenuto in un cimitero sopra un colle, tra i monti, lì dove il cielo è più vicino, di recidere alberi, che erano l’anima di quel posto, bisognerà, prima o poi, prendere atto che abbiamo ucciso parte di noi, massacrato un po’ della nostra storia e della nostra cultura, privato dell’ultimo respiro i cari e gli amici che in quel posto abbiamo portato per l’ultimo viaggio, tolta linfa alla comunità.

Molti, in quei giorni, quando quegli alberi venivano abbattuti, hanno taciuto. Non è una novità. “Se cade un albero nella foresta, chi lo sente? / Qualcuno sente cadere la foresta?” E se nessuno sente cadere una foresta, come canta Bruce Cockburn, chi potrà ascoltare lo strazio per degli alberi, anche se giganti, caduti nel cuore di un cimitero lontano e solitario, sia pure in un parco addirittura protetto? Molti hanno taciuto. Altri hanno parlato, polemizzato, denunciato. In soccorso, come spesso capita, è venuta la poesia, sempre discreta e pronta a dare impeto e cuore nei momenti più difficili.

E così Francesco M.T. Tarantino, attraverso versi dolcissimi e amari, teneri e rabbiosi, fa di quella cronaca, sia pure assurda di una piccola comunità, un canto universale, un grido di dolore, un’accusa forte, pur nella semplicità disarmante della sua poesia. Versi che danno il senso della ferita amara da non cicatrizzare senza trarne un qualche insegnamento. Non solo: le ceppaie disseminate, come novelli cadaveri abbandonati, diventano il luogo dove allestire una mostra permanente di poesie sulla memoria, che non è solamente quella degli alberi tagliati ma, in assoluto, della Memoria. Ceppi che diventano leggii.

Tarantino raccoglie le sue creature in un volumetto prezioso dal titolo Memorie di alberi recisi e come sottotitolo Per una mostra permanente di poesie sulla memoria nel Camposanto di Mormanno (CS). Il libro è pubblicato da EdiLet (Roma, luglio 2012). La matita di Rocco Regina tratteggia disegni discreti e sereni, che accompagnano, affettuosamente, i testi poetici. Il libro si avvale di una bella e colta introduzione di Francesco Aronne, che fa del dolore di Mormanno, sulla scia della poesia di Tarantino, una sofferenza universale, una riflessione che va ben oltre il singolo episodio verificatosi nella piccola comunità. Molto opportunamente, infatti, Aronne chiude il suo intervento citando dei versi del poeta armeno Paruyr Sevak: “Ho capito, ho capito con dolore; / che solo dopo il taglio / si vede il vero spessore del tronco.”

Gli alberi di Tarantino sono animati, giudiziosi, generosi. Tagliati, offesi, umiliati, bruciati, non hanno perso la voce. Tarantino dà voce a quegli alberi; ci raccontano il loro calvario, ora sommessamente, ora con profonda indignazione.

Stavano lì da sempre per dare un nido agli uccelli, ombra alle tombe e a chi sostava in raccoglimento davanti a una lapide. Stavano lì per ascoltare le pulsazioni del cuore di quanti, in quel fazzoletto di terra, avevano lasciato altri pezzi di cuore. Un albero non è una statua immobile nella sua rigidità. L’albero è tutt’uno con la terra, è vero, ma semina e dissemina essenze e vita, è anello di congiunzione tra la terra e il cielo, energia spirituale e materiale tra il defunto e il suo interlocutore.

Il poeta compie un miracolo: riesce a tenere insieme il candore della tenerezza e l’indignazione per il sopruso, la rabbia per la barbarie e la tenacia della speranza “Di un vivere civile e di confronti / Che non vuole subire l’arroganza.” Non troverete punteggiatura, niente virgole, niente punti. Il verso scorre, scandito dalla sonorità del sonetto, nudo, come una tomba trafitta, una lapide di freddo marmo: quel che conta è il calore, la memoria, il messaggio che sta dentro. Troverete solo punti interrogativi, quasi a chiedersi continuamente perché è avvenuto tutto questo, perché il potere è così accecante; tutto il potere, in tutte le latitudini e tempi.

Perché? Perché è anche la domanda che si pone Dante Maffia nella sua incisiva lirica che apre la raccolta: “Perché avete tolto ai morti / La loro anima che sempre si rinnova / Nelle foglie degli alberi?”, “Perché? / Adesso il cimitero è un pianto / D’inerzia, un luogo disabitato!” Il pianto degli alberi assassinati non è per la loro fine, ma per i morti che hanno perso ogni illusione, per i vivi che si sono macchiati di questo delitto. “Quando nei cimiteri svettano i rami / Vuol dire che i morti sognano la vita, / S’illudono di stare con i propri figli.”

La comunità deve riconciliarsi con i propri cari: riempiamo questo cimitero di fiori, piantiamo siepi di colori nella buona terra; riportiamo, tra i viali e lì dove vi è un sito, dei giovani alberi. Ridaremo così voci e occhi ai defunti e, soprattutto, senso e ragione ai vivi, che non possono vivere con quest’orrendo peso sullo stomaco. E assegniamo un nome all’albero che piantiamo, a cominciare da quello di un nostro caro che lì aspetta di rivedere, attraverso le chiome dell’albero, il sole, la luna, le stelle, a risentire la tenerezza di una mano affettuosa con la carezza a un tronco, a un ramo, a una foglia. Il cimitero non è solo il luogo della vita che lascia la vita, ma anche il luogo-simbolo del consolidamento della memoria; la memoria, tanto temuta dalla morte, perché veicola ricordi, affetti, immagini, perfino suoni, e canti, e colori; e, con la sua ostinazione, uccide la morte.

Deve essere mostruoso sapere di aver contribuito a recidere alberi, storici e non, e, addirittura, in un luogo sacro alla memoria: “Sarà la luna sul sonno agitato / Che lo seppellirà tra alte maree.” È bello, invece, andare a letto ricordando, prima di dormire, di avere, un giorno, “piantato un albero storico nel bosco secolare” (Ritsos). Vi sono delitti irreparabili, come l’uccisione di un essere umano, come trafiggere alberi “dagli ampi petti”. Il delitto resta tale, ma impedire nuovi crimini è atto doveroso e necessario. E non è mai troppo tardi per ricominciare un nuovo cammino.

Mi piace ringraziare, come cittadino del mondo, Tarantino per questa battaglia coraggiosa e civile, per questa raccolta poetica dolcissima, come quel suo sorriso che regala agli amici e a conoscenti. E a quanti vogliono offuscare il suo impegno, ricordo una poesia di Ghiannis Ritsos, “Il poeta”. La mano del poeta anche se si bagna nell’oscuro, non si annerisce mai. “La sua mano / è impermeabile alla notte”. Lo so, lo so, cosa pensate: la poesia è inutile. È, forse, per questo che proprio nelle notti più notti, più nere, è folgore temuta; forse, perché riesce a dare voce ai muti, a far cantare (orrore!) perfino desolati alberi ghigliottinati e disseminati lungo viali disabitati, in tante parti del mondo, dove non si posa il nido della luna.


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