venerdì 29 dicembre 2017

[GERARDO TRISOLINO, Odio Mèniére, San Cesario di Lecce, Manni, 2017, pp. 78. Prefazione di Antonio Lucio Giannone, postfazione di Daniele Giancane] di Dante MAFFIA

[GERARDO TRISOLINO, Odio Mèniére, San Cesario di Lecce, Manni, 2017, pp. 78. Prefazione di Antonio Lucio Giannone, postfazione di Daniele Giancane]
di Dante MAFFIA

Raramente le prefazioni e le postfazioni ai libri di poesia riescono a entrare nel vivo dei testi e infatti molti lettori ormai vanno direttamente sui versi in modo da non farsi fuorviare. Io sono testardo e mi piace confrontarmi con la critica e verificare se le letture sono frutto di lavoro oppure appena un clemente dono d’amicizia.
Giannone e Giancane mi hanno sbalordito, hanno saputo leggere questo bellissimo libro (e bellissimo non suoni come un complimento generico) con competenza e con adesione, con intelligenza e con quella giusta dose, obiettiva, di scientificità che serve a illuminare il percorso di un testo prezioso e raro di questi tempi in cui trionfa ancora lo spirito del disfattismo a favore di un approssimativo significante che non ha portato e non porta da nessuna parte.
Ma la svolta è in atto e non solo in Italia…
La poesia di Gerardo Trisolino convince  e fa scrivere le pagine di Giannone e di Giancane perché è consustanziata da un potente lirismo ovviamente saputo dosare e calibrare, oscillante tra un leggero dato realistico e una punta lieve di metafisica.
Ciò permette al poeta di poter maneggiare anche argomenti civili, sociali e politici senza cadere nel vizio comiziale e retorico che ha inficiato perfino molti testi di Neruda o di Hikmet. Trisolino ha la misura, quella che occorre per affrontare per esempio il rapporto d’amore che trova un interprete insolito, direi sabiano, capace di “illustrare” la quotidianità con sobrietà e dolcezza e renderla irripetibile senso della gioia.
Il volume è diviso in cinque sezioni che apparentemente sembrano essere materia diversa una dall’altra. Ma se si ascolta il polso teso delle vibrazioni liriche si vedrà facilmente come invece anche i temi più direttamente sociali, quelli, per intenderci riferiti al “Salento flagellato” (che poi diventa Salento adunco) sono anima che cerca di svelare a se stessa e al lettore i segreti che spesso si presentano davanti come a chiedere udienza per non passare inosservati. Si legga, per esempio, “L’anima delle cose” a questo proposito, ma non sfuggano i continui riferimenti alla casalinghitudine, al rapporto con la compagna di vita, ai panni stesi, al detersivo. (“Atti quotidiani”, “Talismani”).

Sono soltanto quarantaquattro composizioni così complesse e così dense di riferimenti umani e letterari (questi ultimi sfarinati con perizia e accortezza da consumato critico) che riempiono il lettore portandolo in una dimensione condivisa. Non è casuale che Daniele Giancane concluda il suo scritto affermando che si tratta di “una silloge da leggere e da rileggere”. 

giovedì 16 novembre 2017

Giovanni Pistoia, Quel bel convoglio della fantasia

Titolo: Quel bel convoglio della fantasia
Autore: Giovanni Pistoia
Data di uscita: 2017
Pagine: 276
Copertina: morbida
Editore: Youcanprint
ISBN: 9788892686328
In copertina: Il tram degli invisibili, tecnica mista, 2017, di Umberto Romano
  
Il volume è distribuito da varie Librerie on line. Se ne segnalano alcune:



Giovanni Pistoia
Quel bel convoglio della fantasia
pagine sparse di letteratura per l’infanzia


Omaggio a Carmine De Luca

mercoledì 8 novembre 2017

Quel bel convoglio della fantasia di Giovanni Pistoia



A distanza di venti anni dalla morte (6 dicembre 1997) è parso doveroso un omaggio alla memoria dello studioso Carmine De Luca da parte dell’amico. Questo lavoro, come ne scrive nella prefazione l’autore, non ha altre pretese. Attraverso queste pagine emerge, sia pure in parte, la poliedrica e bella figura di De Luca: giornalista, storico della letteratura e della pedagogia, critico rigoroso della letteratura per l’infanzia che contribuì tanto a valorizzare; saggista, acuto osservatore del mondo dei ragazzi e delle ragazze. In appendice sono riportati alcuni scritti di Carmine De Luca, difficili ormai da reperire; attraverso la loro lettura sarà possibile avvertire la sensibilità, lo spessore, la sottigliezza delle analisi, il suo stile sobrio, elegante, raffinato, il piglio del narratore anche quando è impegnato in un saggio. De Luca ha scritto molto, i suoi testi appaiono in riviste, molte delle quali non più edite. Meriterebbero che fossero raccolti, perché forniscono ancora analisi e proposte operative per i nostri giorni, perché darebbero, di certo, un contributo prezioso alla storia della letteratura e del giornalismo e della cultura italiana. Il suo nome è legato in particolare a Rodari e alla letteratura per l’infanzia ma, in verità, i suoi lavori non sono riconducibili solo a questo pur essenziale aspetto; le tematiche da lui studiate e affrontate sono varie e diverse e impegnano molti campi.

Informazioni editoriali:

Titolo: Quel bel convoglio della fantasia
Autore: Giovanni Pistoia
Data di uscita: 2017
Pagine: 276
Copertina: morbida
Editore: Youcanprint
ISBN: 9788892686328
In copertina: Il tram degli invisibili, tecnica mista, 2017, di Umberto Romano
  
Il volume è distribuito da:




mercoledì 1 novembre 2017

La letteratura del dare voce di Giovanni Pistoia

La letteratura del dare voce
di Giovanni Pistoia


Ingredienti per una vita di formidabili passioni è una raccolta di ricordi, testimonianze di Luis Sepúlveda apparsa in Italia nel 2013, edita da Guanda. Una interessante e significativa esposizione della sua vita, intessuta di forte impegno politico e civile, della passione per il calcio e, in particolare, per la letteratura. In questo volume è possibile leggere, tra l’altro, pagine intense dedicate a Nicanor Parra Sandoval, poeta cileno molto noto oltre che matematico e fisico, Pablo Neruda, Gabriel García Márquez, José Saramago, Tonino Guerra. Sepúlveda ha un senso molto pratico della letteratura, suo compito è quello di dare voce a chi non ha voce, a chi apparentemente non ha una storia degna di essere ricordata. La letteratura vale se riesce a dare vita a chi sembra non averne avuta. E il suo impegno come scrittore è di mantener fede a questo principio. E lo fa con una scrittura semplice ma incisiva, con una capacità narrativa che coinvolge, avvince; consegna, così, al lettore confessioni e memorie dolenti, considerazioni amare, ma l’amore per l’umanità, nonostante la ferocia degli uomini, emerge con trasparenza. Tra i ventisette racconti contenuti nel libro, ve ne è uno dal titolo che è il motivo fondante e fondamentale della sua concezione della letteratura: “Dare voce a chi non ha voce”.

Nel breve testo, così come si può leggere ora anche nell’antologia di scritti di Sepúlveda curata da Ranieri Polese, Storie ribelli (Guanda 2017), lo scrittore ricorda alcuni autori che nelle loro opere dettero inizio, a suo avviso, alla letteratura del dare voce a chi ne è senza. Il primo è Alonso de Ercilla (1533 - 1594) nella sua opera L’Auracana. È un poema epico scritto in lingua spagnola. Il suo autore è un soldato poeta, che nel 1542 accompagnò Garcìa Hurtado de Mendoza nella conquista spagnola del Cile. «In quel poema -scrive Sepúlveda- Ercilla testimonia il valore dell’Altro, dell’indio, di chi era diverso ma al tempo stesso degno e coraggioso.»

Per lo scrittore cileno la testimonianza più nota di questo genere letterario, di chi non può far sentire per varie ragioni il suo punto di vista, è Èmile Zola (1840 - 1902). Sepúlveda ricorda il titolo dell’editoriale - J’Accuse! - che Zola scrisse in forma di lettera aperta al presidente della Repubblica francese e pubblicato il 13 gennaio 1898 dal giornale L’Aurore. Il giornalista denunciò con forza le irregolarità commesse da chi avrebbe dovuto cercare la verità per il trionfo della giustizia. Ma malgrado l’enorme coraggio dell’articolo di Zola, il capitano Alfred Dreyfus «non ebbe modo di far conoscere il suo punto di vista e la verità non riuscì a imporsi in tutto il suo splendore.» Dreyfus fu, infatti, condannato per alto tradimento alla deportazione a vita sull’Isola del Diavolo nella Guyana francese. Anche Zola fu condannato per quell’articolo, reo di vilipendio alle forze armate. Fu un atto di grande onestà intellettuale quello del giornalista, che scrisse unicamente per amore della verità. E, comunque, il processo a Dreyfus fu, in seguito, riaperto. Come è ampiamente noto “il caso” si risolse nel 1906: la Cassazione annullò la sentenza di condanna per il capitano che fu reintegrato nelle sue funzioni. Zola non poté vedere l’esito della sua battaglia.

Sepúlveda ricorda, poi, lo scrittore Baldomero Lillo (1867 - 1923), voce degli emarginati, dei più miseri del Cile. Colui che racconta non solo le tristi vicende esistenziali ma di quegli infelici ne interpreta le emozioni, i sentimenti, gli stati d’animo, i dolori, le angosce. «Quando il cileno Baldomero Lillo pubblicò gli splendidi e durissimi racconti di Subterra e Subsole, diede voce alla gente più miserabile in modo non meno efficace di Zola con Germinale, soffermandosi però a identificare con assoluta chiarezza i responsabili delle condizioni di vita poverissime, inumane, in cui consumavano le loro esistenze i minatori del carbone nel Sud del Cile e i minatori del salnitro nel deserto di Atacama. Baldomero Lillo diede la sua voce a questi uomini e a queste donne e contribuì a far entrare parole come giustizia e diritto nel loro vocabolario di operai.» Sub Terra è del 1904 ed è incentrato sulle miniere di carbone di Lota, mentre Sub Sole, del 1907, sulla vita dei contadini.

A questo elenco, Sepúlveda aggiunge Ryszard Kapuściński (1932 - 2007). «Nella nostra epoca, credo che lo scrittore più coerentemente impegnato a dar voce a chi non ha voce sia stato il polacco Ryszard Kapuściński. Un libro di racconti come Ebano ritrae l’identità del continente africano nel suo sforzo di mettere fine al colonialismo e a una povertà che per le potenze straniere era non meno naturale del colore della pelle degli africani.» Ebano (Heban) è pubblicato in originale nel 1998 e in Italia da Feltrinelli nel 2000. È quasi un rapporto di una vita vissuta in quarant’anni in varie parti dell’Africa come giornalista. Una testimonianza di prima mano di un cronista che partecipa vivendo insieme agli indigeni la loro stessa vita, soffrendone i disagi, la povertà, le malattie e rischiando più volte la morte.

L’elenco potrebbe arricchirsi di molti altri nomi; per fortuna sono in tanti che hanno utilizzato e utilizzano la penna per denunciare e dare voce ai silenzi. «Come persone abbiamo il dovere di stabilire un rapporto con la vita e con la società improntato a un’etica rigorosa, che più è rigorosa più ci umanizza. Alla letteratura siamo invece legati da un forte vincolo estetico. L’etica e l’estetica sono però destinate a incrociarsi e quindi la cosa più interessante negli scrittori e nelle scrittrici che apprezzo è che conferiscono alla loro letteratura la stessa carica etica con cui affrontano i fatti sociali, mentre le loro vite si arricchiscono della stessa carica estetica che conferiscono alla letteratura.» La persona e lo scrittore, pur nel loro dualismo, devono incontrarsi. La letteratura non può che essere osservatrice e partecipe della realtà e presente in modo particolare lì dove c’è sofferenza e il silenzio dei sofferenti. E i testi di Sepúlveda sono testi di chi partecipa attivamente e da militante alle vicende umane. Lo sono nei contenuti e nello stile. Lo sono nell’incunearsi tra le vicende degli uomini soprattutto per descriverne le contraddizioni e per stare sempre e comunque da parte di chi è vittima degli abusi, dei soprusi; per denunciare chi schiavizza l’uomo e per invocarne non vendetta ma giustizia. «Non potrei mai affrontare la letteratura, la scrittura, senza la consapevolezza di essere la memoria del mio paese, del mio continente, di tutta l’umanità.» Una dichiarazione d’intenti chiara e perentoria che non ammette equivoci. La memoria, dunque. La memoria come obbligo morale, un imperativo etico per la letteratura dei silenziati.

«Qualche anno fa ho visitato il campo di concentramento di Bergen-Belsen. Di quel posto sapevo che, fra centinaia di migliaia di vittime dei nazisti, era stata assassinata anche una bambina, Anne Frank, e che i suoi resti giacevano in una delle tante fosse comuni, delle tombe collettive, dei monumenti all’orrore. Bergen-Belsen e tutti i campi di concentramento di qualsiasi luogo al mondo sono posti che si visitano in silenzio, perché la voce si rifiuta di descrivere quello che l’occhio vede, quello che vede la memoria, pur sapendo che dovremo compiere lo sforzo di nominare tutto ciò che abbiamo visto con la forza inaugurale che hanno le parole.
In un angolo di Bergen-Belsen, vicino ai forni crematori, qualcuno – non so né chi né quando – ha scritto delle parole che sono le fondamenta del mio essere scrittore, l’origine di tutto ciò che scrivo. Quelle parole dicevano, dicono e continueranno a dire finché esiste gente decisa a sacrificare la memoria: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia.”
Mi sono inginocchiato davanti a quelle parole e ho giurato che, chiunque le avesse scritte, io avrei raccontato la sua storia, gli avrei dato la mia voce perché il suo silenzio smettesse di essere una lapide carica del più infame degli oblii. Per questo scrivo».




mercoledì 12 aprile 2017

[ANTONELLA MAIA, Dieci passi sull’arcobaleno –dieci donne, dieci colori, dieci storie di vita, Montevarchi, Harmakis Edizioni, 2017] di Dante Maffia

[ANTONELLA MAIA, Dieci passi sull’arcobaleno –dieci donne, dieci colori, dieci storie di vita, Montevarchi, Harmakis Edizioni, 2017]
di Dante Maffia


Piero Chiara, Giuseppe Pontiggia, Tommaso Landolfi e Dino Buzzati hanno spesso ripetuto che scrivere racconti è estremamente più difficile che scrivere romanzi o poesie. Lo dicevano un po’ per gioco e un po’ seriamente, perché in effetti il racconto deve essere, nell’argomentare, ampio come un romanzo, e sintetico come una poesia. Eppure per lungo tempo le case editrici, piccole e grandi, hanno cancellato dai cataloghi i libri di racconti con le scuse più disparate.
Da un po’ di tempo però sembra che l’interesse stia crescendo e infatti non sono poche le opere recentemente pubblicate.
Ho tra le mani Dieci passi sull’arcobaleno – dieci donne, dieci colori. Dieci storie di vita di Antonella Maia, narratrice piemontese già con alcune positive esperienze che l’hanno fatta conoscere da poco agli addetti ai lavori.
La sua scrittura è ammiccante, fresca e appetitosa e si impone immediatamente.
I dieci racconti si leggono tutto d’un fiato, non è il solito modo di dire, e hanno riferimenti così calzanti che sembrano essere stati attinti a fatti realmente accaduti. Ogni colore ha il suo nome di donna e la città in cui la storia si svolge. Elena a Genova, Margherita a Firenze, Magdalina a Milano, Gemma a Parma, Ginevra a Trisete, Viviana a Reggio Calabria, per fare qualche esempio e bisogna dire che nomi e ambientazioni, paesaggio e carattere di ognuna non sono pura invenzione narrativa, ma qualcosa di più coinvolgente, perché la Maia riesce a compenetrarsi e a rendere viva ogni cosa.
Nel mondo femminile c’è di tutto, ed è proprio questo tutto che circola nei racconti così che non possono mancare sogni e progetti infranti, delusioni e speranze, amori e tradimenti, beffe e inganni. C’è l’intero variegato catalogo delle miserie umane che Antonella Maia racconta quasi con aria innocente, come se stesse semplicemente facendo il resoconto degli eventi a un gruppo di amici nel salotto. Ed è forse proprio questo suo atteggiamento naturale che rende la scrittura fluida e limpida, piacevole e priva di quegli intoppi che a volte appesantiscono anche opere di autori ormai famosi.
Mi pare evidente che soltanto una donna sensibile e agguerrita, umanamente e letterariamente parlando, poteva entrare così direttamente nei segreti di tante donne e raccontarne perfino le reazioni intime.
Va dato atto alla narratrice di possedere qualità davvero convincenti, di essere brava sia sul piano stilistico e sia su quello psicologico. Non era per nulla facile affrontare storie diciamo pure usuali e farne momenti narrativi felici. Sarebbe bastato lasciarsi andare all’effetto per cadere subito nella cronaca. La Maia invece resta in equilibrio e fa di ogni donna un esempio indimenticabile, dieci icone che restano nel nostro immaginario in maniera indelebile.




mercoledì 22 marzo 2017

[TECLA PAOLICELLI, Il posto dell’anima, Muro Leccese, Edizioni AGF, 2004, pp. 189] di Dante Maffia

[TECLA PAOLICELLI, Il posto dell’anima, Muro Leccese, Edizioni AGF, 2004, pp. 189]

di Dante Maffia

Soltanto chi non ha radici, chi non ha identità culturale e sociale non potrà entrare nella magia di questo romanzo intitolato Il posto dell’anima e scritto con l’anima.
Da letterato fradicio la prima cosa a cui ho pensato sono stati i modelli ai quali, idealmente, Tecla Paolicelli si è rifatta, ma non ho trovato se non appigli vaghi, non so Conversazione in Sicilia di Vittorini, delle pagine di Marotta, di Alvaro, di Silone, ma si tratta di apparentamenti forzati, perché la scrittrice ha coinvolto soprattutto se stessa, la sua infanzia, mettendosi in gioco e, in prima persona, delegando a un uomo quel “ritorno”! alle radici e al paese dell’infanzia che viene descritto con un calore davvero fuori dal comune.
Cenzino manca dalla sua terra da trent’anni. A Genova è diventato un industriale, addirittura Presidente delle acciaierie, e torna nel Tavoliere, sulle rive del fiume Ofanto, con l’intenzione di impiantare lì una fabbrica, ma subito cozza con le antiche idee del vecchio amico Salvatore, coi suoi rituali familiari, con la radicata visione di un mondo rimasto identico negli anni, e i cui valori umani non sono cambiati. Cenzino è arrivato al paese con una fuoriserie, alloggia all’albergo e cammina per i luoghi che l’hanno visto nascere come a volersene riappropriare, ma con la nuova mentalità dell’imprenditore. Odori, sapori, immagini sbiadite del passato, incontri con dei vecchi che scandiscono visivamente ed emotivamente il quadro della situazione in atto, lo portano a meditare, con alti e bassi, sul senso del suo ritorno.
Il romanzo non è altro che uno scontro tra il vecchio e il nuovo, tra la religione dei padri e l’indolenza e il credo nel progresso dei figli. Ma dinanzi allo spettacolo della natura, al fiume che mostra la sua umanità, alla campagna che sembra avere il cuore meraviglioso del senso profondo del vivere, i progetti di Cenzino, che deve passare attraverso i sospetti e una lite col suo migliore amico per sentire lo spreco delle sue idee, lo sbaglio di quel che vorrebbe fare, naufragano e ritorna in lui l’incanto dell’infanzia, il calore umano di una civiltà con una sua identità mai perduta e ancora capace di essere presenza vitale.
Niente più dunque fabbrica d’acciaio per avvilire, anche se avrebbe dato posti di lavoro, il paradiso del Tavoliere e la poesia silenziosa dell’Ofanto, ma fabbrica di vino, quello che Salvatore sa fare da sempre, genuino, denso del sapore delle viti alimentate dal sole e dall’aria ancora vivibile e pulita.
Una favola, direbbe qualcuno, una favola però che deve fare meditare a lungo sullo sfacelo che si è fatto e si vorrebbe continuare a fare cambiando i connotati a una terra la cui vocazione è lontana da quella del triangolo industriale. Una favola comunque che risulta affascinante grazie al garbo della scrittrice che va dritto al sodo delle situazioni, che non adorna di nostalgia il racconto e mostra, con naturalezza, ogni cosa nel suo alveo quotidiano.
Tecla Paolicelli riesce a dare corpo a una vicenda che si è ripetuta e si ripeterà ogni volta che qualcuno, per scelta o per obbligo, sarà costretto ad emigrare portandosi dietro i lari e i sentimenti ancestrali che hanno popolato i primi anni di vita. C’è un momento in cui sembra che l’uomo abbia bisogno di conoscere da dove viene, e allora ritorna sui suoi passi e cerca di acciuffare il senso delle cose perdute, quella scia sottile di bellezza che è la culla della tenerezza e del candore d’esistere. Tutto ciò Tecla riesce a farcelo sentire nelle descrizioni che accennano e sfumano, nella caratterizzazione dei protagonisti, nel dilemma in cui viene a trovarsi Cenzino, nel fiato caldo della famiglia di Salvatore, di Nunziatina e dei figli.
Eppure, lo si noti bene, Tecla non scrive un romanzo neorealista, anche se la situazione in cui ci immette dal primo istante ci indurrebbe a pensarlo; lei disegna e dipinge luoghi e persone con lo spirito di recuperarle, di farne un album di memorie che possano fare intendere quali siano i valori essenziali. E disegna e dipinge con mano libera, senza sottostare a nessuna regola, senza stare a preoccuparsi di piacere o dispiacere al lettore, in piena autonomia creativa.

Siamo quindi davanti a una narratrice sorgiva, aperta interamente al senso dell’umano, lontana dall’utilizzare effetti che avrebbero potuto dare alle pagine maggiore adesione al fattore letterario. Ma la ragione di tutto ciò è semplice e visibile a chiunque si sappia accostare a Il posto dell’anima. Tecla ha voluto che parlassero i sentimenti profondi e le emozioni genuine della sua terra, che, insomma parlasse la vita. Ha ragione Francesco Bellino, “Questo romanzo traduce in modo efficace e saggio la profonda e generosa filosofia di vita del mondo contadino e del Tavoliere” facendoci riassaporare un pezzo di storia che ancora mostra tanti strascichi, ovviamente mutati dal tempo, ma sempre molto problematici e a volte dilanianti.