mercoledì 22 marzo 2017

[TECLA PAOLICELLI, Il posto dell’anima, Muro Leccese, Edizioni AGF, 2004, pp. 189] di Dante Maffia

[TECLA PAOLICELLI, Il posto dell’anima, Muro Leccese, Edizioni AGF, 2004, pp. 189]

di Dante Maffia

Soltanto chi non ha radici, chi non ha identità culturale e sociale non potrà entrare nella magia di questo romanzo intitolato Il posto dell’anima e scritto con l’anima.
Da letterato fradicio la prima cosa a cui ho pensato sono stati i modelli ai quali, idealmente, Tecla Paolicelli si è rifatta, ma non ho trovato se non appigli vaghi, non so Conversazione in Sicilia di Vittorini, delle pagine di Marotta, di Alvaro, di Silone, ma si tratta di apparentamenti forzati, perché la scrittrice ha coinvolto soprattutto se stessa, la sua infanzia, mettendosi in gioco e, in prima persona, delegando a un uomo quel “ritorno”! alle radici e al paese dell’infanzia che viene descritto con un calore davvero fuori dal comune.
Cenzino manca dalla sua terra da trent’anni. A Genova è diventato un industriale, addirittura Presidente delle acciaierie, e torna nel Tavoliere, sulle rive del fiume Ofanto, con l’intenzione di impiantare lì una fabbrica, ma subito cozza con le antiche idee del vecchio amico Salvatore, coi suoi rituali familiari, con la radicata visione di un mondo rimasto identico negli anni, e i cui valori umani non sono cambiati. Cenzino è arrivato al paese con una fuoriserie, alloggia all’albergo e cammina per i luoghi che l’hanno visto nascere come a volersene riappropriare, ma con la nuova mentalità dell’imprenditore. Odori, sapori, immagini sbiadite del passato, incontri con dei vecchi che scandiscono visivamente ed emotivamente il quadro della situazione in atto, lo portano a meditare, con alti e bassi, sul senso del suo ritorno.
Il romanzo non è altro che uno scontro tra il vecchio e il nuovo, tra la religione dei padri e l’indolenza e il credo nel progresso dei figli. Ma dinanzi allo spettacolo della natura, al fiume che mostra la sua umanità, alla campagna che sembra avere il cuore meraviglioso del senso profondo del vivere, i progetti di Cenzino, che deve passare attraverso i sospetti e una lite col suo migliore amico per sentire lo spreco delle sue idee, lo sbaglio di quel che vorrebbe fare, naufragano e ritorna in lui l’incanto dell’infanzia, il calore umano di una civiltà con una sua identità mai perduta e ancora capace di essere presenza vitale.
Niente più dunque fabbrica d’acciaio per avvilire, anche se avrebbe dato posti di lavoro, il paradiso del Tavoliere e la poesia silenziosa dell’Ofanto, ma fabbrica di vino, quello che Salvatore sa fare da sempre, genuino, denso del sapore delle viti alimentate dal sole e dall’aria ancora vivibile e pulita.
Una favola, direbbe qualcuno, una favola però che deve fare meditare a lungo sullo sfacelo che si è fatto e si vorrebbe continuare a fare cambiando i connotati a una terra la cui vocazione è lontana da quella del triangolo industriale. Una favola comunque che risulta affascinante grazie al garbo della scrittrice che va dritto al sodo delle situazioni, che non adorna di nostalgia il racconto e mostra, con naturalezza, ogni cosa nel suo alveo quotidiano.
Tecla Paolicelli riesce a dare corpo a una vicenda che si è ripetuta e si ripeterà ogni volta che qualcuno, per scelta o per obbligo, sarà costretto ad emigrare portandosi dietro i lari e i sentimenti ancestrali che hanno popolato i primi anni di vita. C’è un momento in cui sembra che l’uomo abbia bisogno di conoscere da dove viene, e allora ritorna sui suoi passi e cerca di acciuffare il senso delle cose perdute, quella scia sottile di bellezza che è la culla della tenerezza e del candore d’esistere. Tutto ciò Tecla riesce a farcelo sentire nelle descrizioni che accennano e sfumano, nella caratterizzazione dei protagonisti, nel dilemma in cui viene a trovarsi Cenzino, nel fiato caldo della famiglia di Salvatore, di Nunziatina e dei figli.
Eppure, lo si noti bene, Tecla non scrive un romanzo neorealista, anche se la situazione in cui ci immette dal primo istante ci indurrebbe a pensarlo; lei disegna e dipinge luoghi e persone con lo spirito di recuperarle, di farne un album di memorie che possano fare intendere quali siano i valori essenziali. E disegna e dipinge con mano libera, senza sottostare a nessuna regola, senza stare a preoccuparsi di piacere o dispiacere al lettore, in piena autonomia creativa.

Siamo quindi davanti a una narratrice sorgiva, aperta interamente al senso dell’umano, lontana dall’utilizzare effetti che avrebbero potuto dare alle pagine maggiore adesione al fattore letterario. Ma la ragione di tutto ciò è semplice e visibile a chiunque si sappia accostare a Il posto dell’anima. Tecla ha voluto che parlassero i sentimenti profondi e le emozioni genuine della sua terra, che, insomma parlasse la vita. Ha ragione Francesco Bellino, “Questo romanzo traduce in modo efficace e saggio la profonda e generosa filosofia di vita del mondo contadino e del Tavoliere” facendoci riassaporare un pezzo di storia che ancora mostra tanti strascichi, ovviamente mutati dal tempo, ma sempre molto problematici e a volte dilanianti.