lunedì 26 novembre 2018

Quando raccolsi la luna di Giovanni Pistoia


INFORMAZIONI EDITORIALI

Titolo: Quando raccolsi la luna
Autore: Giovanni Pistoia
Data di uscita: 2018
Pagine: 130
Copertina: morbida
Editore: Youcanprint
ISBN: 9788827858189

In copertina:

Emozioni d’ottobre (particolare), 2015
Olio su tavola -Tecnica mista
Autore: Rocco REGINA
Foto: Francesco ARONNE



«Ogni uomo è il suo racconto, fosse anche solo quello che fa a sé stesso, un granello di polvere della storia.»

Non è un caso che si cita il neurobiologo Lamberto Maffei nel libro “Quando raccolsi la luna”; non è un caso perché il testo è soprattutto la confessione dell’autore a se stesso, un parlare ad alta voce al proprio cuore e alla propria coscienza. Un raccontarsi che trae origine dallo sguardo dei comportamenti umani, dal confrontarsi con i pensieri che, robusti o effimeri, incrociano il viatico quotidiano dell’autore. La raccolta è divisa in due sezioni, versi e prosa, ma siano versi o prosa è la parola che occupa un posto decisivo nel lavoro e sembra che l’autore faccia proprio il pensiero di Flaiano: la parola ferisce, convince, placa. La raccolta ha come sottotitolo “parole naufraghe”; parole che sembravano disperse nella memoria e che vengono recuperate restituendo profumi e ambienti che parevano persi. Ma soprattutto “parole naufraghe” sono quelle tante parole che si stanno perdendo rendendo l’uomo sempre più povero di pensiero e ragionamento; un uomo sempre più depauperato di sentimenti e emozioni.




venerdì 2 novembre 2018

[Giovanni Pistoia, Giornali Uomini Tempi, Youcanprint 2018


[Giovanni Pistoia, Giornali Uomini Tempi, Youcanprint 2018]

Il testo ricostruisce le vicende di un giornale calabrese, Il Popolano, e, in particolare, della sua chiusura, a seguito delle leggi sul controllo della stampa durante il regime. Il periodico ebbe una lunga vita, dal 1882 e fino al 1930, anno della sua soppressione. Ma non fu mai un giornale d’opposizione: fu sempre amico del fascismo e il suo direttore, Francesco Dragosei, si vantò continuamente di essersi iscritto al partito sin dalle prime ore.
Il suo comportamento, a un certo punto, non fu più considerato ortodosso dal potere, e la sua “creatura” cessò le pubblicazioni.

Invocò, anche umiliandosi oltre ogni misura, la riapertura del suo giornale senza rendersi conto che i giornalisti dovevano godere della piena fiducia del prefetto e delle autorità locali. Era inspiegabile per lui che un periodico, da sempre ligio al fascismo, e con un direttore tra i primi aderenti, potesse essere trattato come una qualunque testata antifascista, o comunque tale da poter danneggiare, in qualche modo, il regime. Non si rendeva conto che una legge restrittiva della libertà di stampa può sempre essere invocata e applicata da chi detiene il potere a salvaguardia del potere stesso. Perché non vi sono mai ragioni serie per chiudere la bocca a un giornale, qualunque sia il regime o il sistema politico imperante. Quando la privazione della libertà tocca gli altri non sembra cosa che possa interessarci; quando ne siamo noi i protagonisti passivi è troppo tardi per reagire.

Nel volume si accenna anche all’esperienza di altro organo di stampa, sempre di Corigliano Calabro, Il Monitore, diretto da Costabile Guidi, anch’egli fascista. Ma anche questo periodico, nel settembre del 1924, a seguito di vari sequestri, fu costretto a chiudere nel febbraio del 1926, e sempre in virtù delle leggi sulla stampa in vigore all’epoca.

Il testo nasce come prefazione con il titolo «Il racconto delle carte» al libro curato da F. Perri, Francesco Dragosei – Amore, primavera, ecc. Divagazioni a zig-zag, GLF, Castrovillari 2016. Qui si ripropone rivisto e ampliato pur mantenendo la struttura originaria. Nel volume è inserita una raccolta di scritti di vari autori che si sono occupati degli argomenti trattati (Aldo Amato, Enzo Viteritti, Francesco A. Arena, Giovanni Romio, Giuseppe Fino, Italo Dragosei, Mimmo Longo).

INFORMAZIONI EDITORIALI:

Titolo: Giornali Uomini Tempi
Autore: Giovanni Pistoia
Data di uscita:2018
Pagine: 178
Copertina morbida
Editore: Youcanprint
ISBN: 9788827843130
Foto di copertina: Giovanni Ursino


Il volume è distribuito da varie Librerie on line. Qui se ne segnalano alcune:





https://www.mondadoristore.it/Giornali-uomini-tempi-Giovanni-Pistoia/eai978882784313/



venerdì 28 settembre 2018

[Angelo Petrosino, Il libro Cuore di Valentina, Piemme, 2018] - Nota di Giovanni Pistoia




Valentina, la prof
di Giovanni Pistoia

Il debito dei grandi non si ripaga 
abusando dei bambini.


Con l’inizio dell’anno scolastico, sono andato in una prima media. Sono stato accolto cordialmente da una giovane insegnante. L’ho guardata con curiosità, perché il viso non mi era del tutto sconosciuto. Anche lei è rimasta un po’ perplessa. Dopo qualche parola di cortesia, ho riferito del perché di quella mia visita: l’impegno preso con una studentessa che sarei andata a trovarla tra i suoi banchi nei primi giorni di scuola, in questa nuova esperienza, non più da scolaretta ma da studentessa. Ho chiesto alla docente cosa insegnasse, mi ha risposto con un ampio e compiaciuto sorriso: «Sono l’insegnante di italiano. Il mio nome è Valentina…»
L’ho immediatamente interrotta: «Ecco, adesso mi è tutto chiaro! Lei è Valentina, la scolaretta, e poi la studentessa di Angelo Petrosino, la ragazza curiosa, spigliata, intelligente, amica di una vita del maestro e scrittore Angelo…»
E a quel punto è lei a non farmi proseguire: «Allora lei è proprio l’amico di Angelo, è lei che si è portato dietro in tutti questi anni sulla sua scrivania i libri dedicati a me, libri certamente per adolescenti ma letti anche da tanti adulti. È così, sono proprio quella ragazzina, ormai non più tale da molti anni; sono rimasta tra i banchi di scuola ma come insegnante.»
«Angelo sarà allora contento di questa sua scelta, così potrà far tesoro dei suoi insegnamenti, come educatore oltre che come scrittore di tanti libri di formazione.»
«Con Angelo ci sentiamo spesso, se sono diventata professoressa è anche grazie a lui. Continuo a chiedergli mille suggerimenti, anche se dice che io devo essere soprattutto me stessa, di essere sincera con i ragazzi e così riuscirò a tirare il meglio da ciascuno. Ho deciso di tenere un diario di questa mia esperienza, un po’ richiamandomi al vecchio libro Cuore. Annoterò le mie riflessioni e vi riporterò dei racconti che ogni mese leggerò ai miei alunni. Come può vedere, qui in questa aula dalle ampie vetrate, c’è il mondo a portata di mano, etnie e culture diverse, storie particolari che vengono da lontano. Ogni studente è un mondo a sé che io voglio osservare e conoscere a fondo prima di pronunciarmi e intervenire come meglio posso per contribuire alla crescita educativa didattica e psicologica di ognuno di loro. Voglio ascoltare, in una parola, prima ancora di essere ascoltata.»

Il colloquio è solo immaginato, come è evidente, ma è reale il lavoro di Angelo Petrosino, dal titolo Il libro Cuore di Valentina (Piemme, 2018). La sua creatura, Valentina, personaggio di fantasia ma attinta dalla realtà quotidiana, per anni è stata compagna di tanti giovani lettori e lettrici, ma anche di insegnanti, genitori, nonni. Petrosino ha dedicato a lei numerosissimi e fortunati volumi. Ora è professoressa (o, come si dice frequentemente e semplicemente prof, forse per ragione di economia!). Petrosino, nella stesura del libro, e come richiama lo stesso titolo, è stimolato dal ricordo di una lettura classica, Cuore. Nulla a che vedere con quel lavoro, tanto cambiata è la società di oggi, ma ne ricorda un po’ la struttura. È il diario dell’insegnante, vi sono riportati anche i racconti che la prof legge ogni mese ai suoi ragazzi, come faceva il suo maestro Angelo a lei, l’ambiente è Torino, una città tanto diversa da quella deamicisiana di fine Ottocento, ma che sta a cuore anche a Petrosino. In fondo il testo è anche un omaggio non solo a De Amicis (significativa la dedica a Pompeo Vagliani, anima e cuore del Museo della Scuola e del Libro per l’Infanzia di Torino nel ricordo di Edmondo De Amicis) ma anche alla sua Torino, città che abita dall’età di quattordici anni e che ama visceralmente. Un sottile filo rosso lega i due libri, come afferma Raffaella Silipo (La Stampa del 1° aprile 2018), ed è l’amore per le storie «che restano il miglior modo per trasmettere insegnamenti, cultura, passione, da una generazione all’altra.»

Nelle pagine del libro-diario vi è la società dei nostri giorni, complessa, contraddittoria, e vi sono tutte le ansie, le angosce, le gioie e i dolori dell’infanzia delle nostre città. Tutto raccontato attraverso le esperienze di un insegnante, le parole degli alunni, la narrazione di storie per meglio penetrare il quotidiano, per meglio leggerlo e sfuggire alla tentazione di una omologazione del pensiero unico, pericolo costante nella società di oggi.

Nel libro emerge con chiarezza, senza che sia detto con paroloni, il ruolo della scuola e degli insegnanti. Significative alcune pagine dedicate ai presidi (mi pare di non aver mai letto la parola dirigente). Così Petrosino rende omaggio, attraverso la figura della prof Valentina, a tutto il corpo docente, alla sua funzione delicata e, per certi versi, pericolosa. Un omaggio, infine, al valore della parola, della lingua. In un dialogo con il marito, Valentina esprime la paura di essere troppo coinvolta dalle vite dei suoi alunni. «Non ci credo. Probabilmente non chiedevi altro, ti conosco. Non sei fatta per insegnare soltanto la grammatica» le dice Tazio, e lei: «Per decifrare la grammatica del cuore devi conoscere anche quella della lingua che parli. Le doppie e i congiuntivi non sono meno importanti per esprimere le emozioni che si provano.»

La lettura scorre con delicatezza e sobrietà; linguaggio immediato, efficace, essenziale; i disegni di Sara Not, altra illustre conoscenza cresciuta con Valentina e i libri di Petrosino e ben nota, quindi, ai lettori di Angelo, impreziosiscono il volume. Un testo, tra l’altro, che è anche un utile strumento per le scuole: sono molti i temi trattati, che possono essere approfonditi in seri progetti educativi e didattici, cosa che, a quanto mi risulta, sta già avvenendo con successo. È, in sintesi, questo ennesimo lavoro dello scrittore, dell’amore costante e duraturo verso la scuola di Angelo Petrosino, della sua attenzione al mondo dell’infanzia che studia, osserva, e racconta da una vita. A quella infanzia alla quale Petrosino, come maestro, pedagogo, pedagogista e scrittore, ha dedicato ogni sforzo per fornirle un po’ di anticorpi necessari, perché non si lasci travolgere da cattivi esempi elargiti a piene mani da una società sempre più violenta. Petrosino ha tentato e tenta di educare i giovanissimi alla comprensione, all’ascolto, all’empatia, a fornire loro gli strumenti culturali perché possano autonomamente interpretare il mondo, a non accontentarsi delle solite risposte e di non aver paura di porre domande. Un autore che desidera ricordare a tutti, senza distinzione di età, che siamo fatti anche di sentimenti, di emozioni, di Cuore, e non dobbiamo vergognarci di coltivarli, perché sono l’essenza d’essere umano. Una vergogna che bisogna sentirci addosso, invece, quando le colpe degli adulti sacrificano i bambini togliendo loro il diritto di essere tali: «Il debito dei grandi non si ripaga abusando dei bambini».

Il libro è indicato per i ragazzi dagli otto anni in su; non ha alcuna controindicazione per le altre età.


giovedì 23 agosto 2018

Giovanni Pistoia, Giornali Uomini Tempi, Youcanprint, agosto 2018


Il testo racconta le vicende di un giornale calabrese, Il Popolano, e, in particolare, della sua chiusura, a seguito delle leggi sul controllo della stampa durante il regime. Il periodico ebbe una lunga vita, dal 1882 e fino al 1930, anno della sua soppressione. Ma non fu mai un giornale d’opposizione: fu sempre amico del fascismo e il suo direttore, Francesco Dragosei, si vantò continuamente di essersi iscritto al partito sin dalle prime ore.
Il suo comportamento, a un certo punto, non fu più considerato ortodosso dal potere, e la sua “creatura” cessò le pubblicazioni.

Invocò, anche umiliandosi oltre ogni misura, la riapertura del suo giornale senza rendersi conto che i giornalisti dovevano godere della piena fiducia del prefetto e delle autorità locali. Era inspiegabile per lui che un periodico, da sempre ligio al fascismo, e con un direttore tra i primi aderenti, potesse essere trattato come una qualunque testata antifascista, o comunque tale da poter danneggiare, in qualche modo, il regime. Non si rendeva conto che una legge restrittiva della libertà di stampa può sempre essere invocata e applicata da chi detiene il potere a salvaguardia del potere stesso. Perché non vi sono mai ragioni serie per chiudere la bocca a un giornale, qualunque sia il regime o il sistema politico imperante. Quando la privazione della libertà tocca gli altri non sembra cosa che possa interessarci; quando ne siamo noi i protagonisti passivi è troppo tardi per reagire.

Nel volume si accenna anche all’esperienza di altro organo di stampa, sempre di Corigliano Calabro, Il Monitore, diretto da Costabile Guidi, anch’egli fascista. Ma anche questo periodico, nel settembre del 1924, a seguito di vari sequestri, fu costretto a chiudere nel febbraio del 1926, e sempre in virtù delle leggi sulla stampa in vigore all’epoca.

Il testo nasce come prefazione con il titolo «Il racconto delle carte» al libro curato da F. Perri, Francesco Dragosei – Amore, primavera, ecc. Divagazioni a zig-zag, GLF, Castrovillari 2016. Qui si ripropone rivisto e ampliato pur mantenendo la struttura originaria. Nel volume è inserita una raccolta di scritti di vari autori che si sono occupati degli argomenti trattati (Aldo Amato, Enzo Viteritti, Francesco A. Arena, Giovanni Romio, Giuseppe Fino, Italo Dragosei, Mimmo Longo).

Il volume è distribuito da varie Librerie on line. Qui si segnala, al momento:



INFORMAZIONI EDITORIALI:

Titolo: Giornali Uomini Tempi
Autore: Giovanni Pistoia
Data di uscita:2018
Pagine: 178
Copertina morbida
Editore: Youcanprint
ISBN: 9788827843130
Foto di copertina: Giovanni Ursino


giovedì 5 luglio 2018

Una poesia di Nelo Risi tradotta di Dante Mffia


DANTE MAFFIA mi ha inviato questi versi, scritti circa mezzo secolo fa, da NELO RISI. Ripropongo la poesia. La traduzione è dello stesso Maffia, che ringrazio.


DA NELO RISI

Tra cint’ànne , pùre cchiù pìcchie,
nnànt’a chiàzze giàll’e nìure
ca te suppòrtene magamènte
pecchì a ntènes’a semènte gùre,
gùn’annavòte gìred’a chèpe mpaurète
e dìcede: -Te’ guàrde, nu jànche!
E a quìll’u dìtte, ca jè tànte pesànte
sùp’ù devèrse (ciutìje o razzìsme)
giàll’ e nìure cuttùne  te se strìngene ntùrne
furtùne ca na vòce cuscinziùse
se gàuzede sùpr’a ll’àute rerènne – Oh,
stavìtese passànn’a mesùre mo!
Guardàtele! U vedìtese?
Guardàtele bbùne,
tènede vràzze, gùcchie e mène,
tènede na nfànzie  i gùmmene.

( Tra cento anni, anche di meno / nella piazza gialli e neri / che ti
sopportano male / perché non hai il loro seme, / uno all’improvviso
gira la testa impaurito / e dice: -Tiè, guarda, c’è un bianco! / E a quel dire
così pesante / sul diverso (scemenza o razzismo) / gialli e neri insieme ti si stringeranno intorno / fortuna che una voce coscienziosa / si alza sulle altre ridendo – Oh, / adesso state passando la misura! / Guardatelo! Lo vedete? / Guardatelo bene, / ha braccia, occhi e mani / ha qualche somiglianza con un uomo.)






giovedì 14 giugno 2018

JEAN PORTANTE, I quattro tremori del giardino, Milano, La vita Felice, 2016, pp. 152 Letto da Dante MAFFIA


JEAN PORTANTE, I quattro tremori del giardino, Milano, La vita Felice, 2016, pp. 152
 Letto da Dante MAFFIA

Sono sicuro che Jean Portante quando ha scritto di essere “orfano della sua origine” voleva appena rafforzare il suo radicamento all’identità dei padri, mettere in rilievo non di avere perduto qualcosa, ma di avere, adesso, la possibilità di compiere un percorso all’indietro per seguire le tracce di quella ricchezza interiore che ha dato perfino alla sua lingua corrispondenze ed equivalenze e proprio in senso strettamente baudeleriano.
I quattro tremori del giardino se da una parte sono la testimonianza concreta della mano del terremoto nelle sue oscillazioni, dall’altra sono gli interstizi di paure, angoscia e amore misurati che non conoscono il loro agire, che sono affidati all’arbitrarietà  se è vero, com’è vero, che per ben diciassette volte Portante apre con “A volte”, il discorso poetico dando agli incipit, a un tempo, il senso della casualità e della ripetizione.
Si tratta di poesie di uno spessore alto, ricamate da immagini surreali comunque mai astratte, anzi intrise di una realtà tutta meridionale che ha qualcosa che taglia nettamente con la stagione storica surrealista e, nello stesso istante, ci si innesta come a volerla rinverdire con un passo lirico più calibrato, più densamente legato al mondo classico e alle problematiche assillanti che arrivano da una terra martoriata che lui ha vissuto attraverso le esperienze della famiglia senza farne mai una ragione di rigetto e senza farne mitologia. Ecco perché gli è possibile scrivere versi su ciò che è accaduto all’Aquila nel 2009 senza farsi mai sfuggire un grido di angoscia, una rivendicazione, una bestemmia. Portante è stato capace di compiere un’azione poetica che io trovo unica e straordinaria: l’idillio abruzzese che in qualche modo covava dentro di lui si è trasformato in ragione morale e così ne ha tratto il senso recondito per porre in essere un Abruzzo che viene fatto rivivere privo di retorica, senza strascichi neorealistici, senza l’affastellamento del sottofondo delle nenie maliose che purtroppo ancora accompagnano alcuni narratori e poeti.
Le quattro parti del libro sono strettamente legate tra loro, anche se ognuna ha scelto un ritmo proprio, passando dall’addensamento surreale allo sguardo diretto sulle cose e sugli eventi e poi affidandosi a una misura praticata agevolmente in Giappone, con una adesione alla quotidianità che tuttavia non è mai mera descrizione, ma posta in essere di una condizione che deve esplicitarsi attraverso la presenza degli oggetti.
L’ultima parte si adagia nella bellezza e se “Non è ancora tempo / di mangiare la luna” non è nemmeno tempo di stendere i cappotti sulle macerie che il terremoto ha apparecchiato. Ci pensa la natura: “E su ogni cosa la notte stende il suo cappotto”.
Il tremore, cioè il ritmo di ognuna delle sezioni è diverso e complementare, ma è il tremore di Portante che si fa pasto delle suggestioni e si abbandona totalmente per potersi ritrovare diverso e meno sazio di paure e di angosce. L’impatto con la tragedia lo ha reso più consapevole di quel che è accaduto ma soprattutto di quel che è, perché “è la memoria che uccide”, tanto è vero che

“Perché sognava l’ulivo dopo essere tornato dal mare
e nel suo sogno non era la guerra
a scoppiare ma la solitudine”.

A ogni lettore viene spontaneo cercare affinità con alcuni poeti. Io trovo in Jean Portante quella voce limpida e suasiva che ho sempre trovato in Leonardo Sinisgalli e in Alfonso Gatto. Egli, anche se li ha tradotti, non ha nulla da condividere con i vari Sanguineti privi di vita e di emozioni, tutta letteratura, come direbbe Croce che ormai è quasi pericoloso citare.
Nella sua poesia si avverte il senso pacato e partecipato di una umanità che aleggia in ogni verso e lo rende fibrillante, sì, ricco di tremori autentici, di emozioni colte sul filo di un ricordo, di una parola, una narrazione ricevuta dalla madre: “Ascolta il silenzio dei lombrichi sfaccendati / ascolta il loro lamento impercettibile che fa invecchiare i frutti”.

DANTE MAFFIA




giovedì 7 giugno 2018

Le umane pietre di Dante Maffia - letto da Giovanni Torchiaro


Le umane pietre di Dante Maffia
di Giovanni Torchiaro

L’anepicletico, eppur così pieno di difetti, dio delle Elegie materane (LEPISMA EDIZIONI, 2016) ha accolto le irrituali debordanti richieste dell’innamorato senza morso: avrà riordinato le sue idee sull’amore, avrà deciso, lui che tutto può, di amare il mondo senza nulla chiedere, e, ancora, di essere uomo per sempre, oltre che Dio (n.10). Chiamato a parte di un progetto d’amore per la città, si è fatto convinto, e il poeta ne è ora consapevole. E lì, se la terzina sarebbe stata, canonicamente, la strofa perfetta, pure, nel suo declinarsi, non sarebbe bastata a contenere la iterata robusta determinazione del poeta innamorato e rabbiosamente rivendicativo, la cui voce è, elegiaca quanto si dichiari, ma poematica, ariosa, estesa. Da ottava, appunto. Che è contenitore e mezzo più adatto: e il lungo urlo del poeta - che è di pianto e desiderio inappagato, di amore a un tempo euforico e governato, di visione sociologica e antropologica della città/donna, di riflessione filosofica e di relazione/scontro con dio - non poteva far ricorso che a quella forma.
Ma ora (Matera e una donna, Terra d’ulivi edizioni, 2017) il registro cambia. Dante Maffia ritorna a Matera… cioè, Dante Maffia è rimasto a Matera e vi ha portato il mare della sua Roseto: ne respira l’aria e se ne gode i colori, ne scopre i recessi nascosti e, con curiosità da amante, ne immagina gli anfratti; la respira la vive la ama. Matera è eros. È passione estrema e virtuosa, mai sconveniente. Perché essa è donna. Si direbbe, un anno dopo, che, condotto a miti consigli dio, tocchi ora agli uomini amarla: perché essa è luogo e donna: pietra e aria, carne e pensiero, cuore e cervello, respiro affannoso e canto ammaliante. Diciamolo subito. Quello per Matera e per la donna (che essa sia o non sia, che importa!) è amore totale. E, naturalmente, è finzione, puro gioco retorico, il dichiarare l’inadeguatezza della poesia a cantarlo (Ti resterò attaccato, 270). Quale altro strumento espressivo potrebbe descrivere quel sentimento - ora oblativo ora ricattatorio, ma sempre assoluto - meglio della poesia? E il registro, cui Dante Maffia fa ricorso, è il più ampio, quasi completo: tutti i tipi di verso, anche il monosillabico metrico, in rima e non in rima, tutte le forme, dal canonico sonetto alla composizione libera, talvolta attraverso raffinati giochi metrico-prosodici che solo chi è avvezzo a frequentazioni molto ravvicinate della poesia, mai allentate, e vissute per lunghissimo tempo, può farne uso. Trecentodiciannove poesie! E senza mai una caduta. Certo, considerata l’unicità dell’oggetto, il rischio della oleografia - di se stesso, non di altri - c’è. Eppure, nessun componimento ne replica un altro, non c’è mai, per quanto alcune parole non possano non ripetersi e i luoghi e le immagini si ripresentino più volte nel testo, non c’è mai stucchevolezza: la lingua assapora e riassapora, trasferendo il godimento nel cuore e nella testa. Tutto è sempre nuovo, a ogni pagina, a ogni strofa, a ogni verso, a ogni parola. Dante Maffia si è scatenato. Con la mano sul cuore, chiusi gli occhi e col pensiero immerso in una visione che non è di paradiso, ma di muri di pietra bianca e grigia, di anfratti rupestri, di gradinate porose, di lastrichi solari, egli sogna. Sogna lei. Nemmeno il tempo di pensarla perché ormai, dice, sei dentro di me e sei i miei pensieri (Se ti penso… 227). Certo - abbiamo detto - c’è il rischio della costruzione di immagini da carolina illustrata. Ma, fa giustizia Luigi Reina introducendoci all’opera con il prezioso Elogio a Matera: “Maffia non è neppure sfiorato dalla tentazione della cartolina… nei suoi versi c’è fuoco…” (pg 5).
Va da sé che, già nel titolo, Maffia non nasconde, anzi esalta, i riferimenti culturali e poetici dei quali - è più di mezzo secolo - si nutre. Sembra paradossale, ma i legami, moltissimi dei quali personali, col meglio della cultura italiana (da Palazzeschi a Sciascia, da Bellezza a Risi a Luisi) ne rendono il risultato più genuino. Non rinuncia, chi parla d’amore, al nutrimento ricco delle fonti: Sinisgalli o Jimenez, i tanti altri. Certo, il verso che scaturisce è nuovo proprio perché quel fuoco non si spegne mai. Ed è sempre nuova la parola: Ho forgiato la Parola (Aspettando l’incendio 22), ne ho fatto di parole nuove di zecca (A imitazione di una canzone pellerossa 39); ne ha individuato una prima (A comandare è un ragno 34) e ne inventa ancora altre (Donna di poesia 51), perché lei, Matera/donna, deve essere, con queste parole, solo sua! E non solo le parole. L’amore totale non ha paura, è una sfida continua. Ed è attesa - sempre sempre - e possesso e gelosia: anche della Gravina (Attenta 88), del mare (Il mare vuole goderti 340), del vento del cappotto del pittore del passante… E da essi - il poeta e Matera/donna - anche Venere impara molte cose sull’amore (Sapevo che ti avrei sognato 225). Non c’è acqua che possa spegnere la fiamma.
Un precedente autorevole - la postfazione alle Elegie materane di Maria A. D’Agostino - mi mette al riparo da penosi additamenti se vengo a sostenere che il Cantico dei cantici è il precedente più illustre di Matera e una donna, ovvero, al contrario, che Matera e una donna ne è la derivazione più coerente. La D’Agostino, con sapiente precisione, sottolineando affinità e distanze, si riferisce al Libro di Giobbe. E dunque, si vede, in Dante Maffia i Sapienziali ritornano e sono presenti (ma, vivaddio, siamo certi che non incocceremo mai nel richiamo al disperato, seppure iniziale, lamento di Qohèlet). Non vi è pezzo, nel suo autonomo sciogliersi, che non ricordi quel Cantico immenso, dal desiderio d’amore alle investigazioni, alla visione amorosa etc. (tra le altre, v/ Portami all’asilo 276). E naturalmente, qui come lì, l’amore vince, è più forte di ogni cosa. Solo, in Maffia, non c’è allegoria, se siamo forti da non credere che l’uomo e la città/donna si uniscono secondo il disegno di un creatore. Qui è tutto molto terreno (ma anche lì lo era): di un terreno umano che trova soddisfazione nel sé, nella visione, onirica quanto si desideri, ma di pietra e palpiti delle vene, che per farsi reale non ha bisogno di scontrarsi contro le irragionevoli leggi del divino. Qui è il rapporto con l’umano che ormai e soltanto vale. Non importa più che dio si sia fatto uomo per sempre. È l’uomo/poeta che conta: egli parla attraverso la pietra, il non colore. Le immagini in bianco e nero dei sassi di Matera dei versi, e negli scatti silenti ma loquaci di Elio Scarciglia, lo mostrano, l’uomo, quasi mai, e, le poche volte, nella sua rappresentazione scultorea o pittorica, e comunque silenzioso e ricettivo. Eppure egli è tutto nella poesia di Maffia. È umanità tacita e laboriosa, la cui opera e il cui cuore trasudano da ogni pietra e diventano godimento dell’occhio e della mente, in una Matera/sogno/realtà che fa tutt’uno col cuore del poeta: si accuccia nel mio cuore (Matera la poesia 378). Quella Matera che - come gli dice l’immenso Francesco -  così adora: neanche un minuto ti abbandono, se ti vivo senza il minimo di tregua negli occhi e dentro il cuore (A Roseto dal caffè sali sull’onde 110).




Istituto Comprensivo "V. Tieri" - Corigliano-Rossano CERTAMEN 2018