giovedì 14 giugno 2018

JEAN PORTANTE, I quattro tremori del giardino, Milano, La vita Felice, 2016, pp. 152 Letto da Dante MAFFIA


JEAN PORTANTE, I quattro tremori del giardino, Milano, La vita Felice, 2016, pp. 152
 Letto da Dante MAFFIA

Sono sicuro che Jean Portante quando ha scritto di essere “orfano della sua origine” voleva appena rafforzare il suo radicamento all’identità dei padri, mettere in rilievo non di avere perduto qualcosa, ma di avere, adesso, la possibilità di compiere un percorso all’indietro per seguire le tracce di quella ricchezza interiore che ha dato perfino alla sua lingua corrispondenze ed equivalenze e proprio in senso strettamente baudeleriano.
I quattro tremori del giardino se da una parte sono la testimonianza concreta della mano del terremoto nelle sue oscillazioni, dall’altra sono gli interstizi di paure, angoscia e amore misurati che non conoscono il loro agire, che sono affidati all’arbitrarietà  se è vero, com’è vero, che per ben diciassette volte Portante apre con “A volte”, il discorso poetico dando agli incipit, a un tempo, il senso della casualità e della ripetizione.
Si tratta di poesie di uno spessore alto, ricamate da immagini surreali comunque mai astratte, anzi intrise di una realtà tutta meridionale che ha qualcosa che taglia nettamente con la stagione storica surrealista e, nello stesso istante, ci si innesta come a volerla rinverdire con un passo lirico più calibrato, più densamente legato al mondo classico e alle problematiche assillanti che arrivano da una terra martoriata che lui ha vissuto attraverso le esperienze della famiglia senza farne mai una ragione di rigetto e senza farne mitologia. Ecco perché gli è possibile scrivere versi su ciò che è accaduto all’Aquila nel 2009 senza farsi mai sfuggire un grido di angoscia, una rivendicazione, una bestemmia. Portante è stato capace di compiere un’azione poetica che io trovo unica e straordinaria: l’idillio abruzzese che in qualche modo covava dentro di lui si è trasformato in ragione morale e così ne ha tratto il senso recondito per porre in essere un Abruzzo che viene fatto rivivere privo di retorica, senza strascichi neorealistici, senza l’affastellamento del sottofondo delle nenie maliose che purtroppo ancora accompagnano alcuni narratori e poeti.
Le quattro parti del libro sono strettamente legate tra loro, anche se ognuna ha scelto un ritmo proprio, passando dall’addensamento surreale allo sguardo diretto sulle cose e sugli eventi e poi affidandosi a una misura praticata agevolmente in Giappone, con una adesione alla quotidianità che tuttavia non è mai mera descrizione, ma posta in essere di una condizione che deve esplicitarsi attraverso la presenza degli oggetti.
L’ultima parte si adagia nella bellezza e se “Non è ancora tempo / di mangiare la luna” non è nemmeno tempo di stendere i cappotti sulle macerie che il terremoto ha apparecchiato. Ci pensa la natura: “E su ogni cosa la notte stende il suo cappotto”.
Il tremore, cioè il ritmo di ognuna delle sezioni è diverso e complementare, ma è il tremore di Portante che si fa pasto delle suggestioni e si abbandona totalmente per potersi ritrovare diverso e meno sazio di paure e di angosce. L’impatto con la tragedia lo ha reso più consapevole di quel che è accaduto ma soprattutto di quel che è, perché “è la memoria che uccide”, tanto è vero che

“Perché sognava l’ulivo dopo essere tornato dal mare
e nel suo sogno non era la guerra
a scoppiare ma la solitudine”.

A ogni lettore viene spontaneo cercare affinità con alcuni poeti. Io trovo in Jean Portante quella voce limpida e suasiva che ho sempre trovato in Leonardo Sinisgalli e in Alfonso Gatto. Egli, anche se li ha tradotti, non ha nulla da condividere con i vari Sanguineti privi di vita e di emozioni, tutta letteratura, come direbbe Croce che ormai è quasi pericoloso citare.
Nella sua poesia si avverte il senso pacato e partecipato di una umanità che aleggia in ogni verso e lo rende fibrillante, sì, ricco di tremori autentici, di emozioni colte sul filo di un ricordo, di una parola, una narrazione ricevuta dalla madre: “Ascolta il silenzio dei lombrichi sfaccendati / ascolta il loro lamento impercettibile che fa invecchiare i frutti”.

DANTE MAFFIA




giovedì 7 giugno 2018

Le umane pietre di Dante Maffia - letto da Giovanni Torchiaro


Le umane pietre di Dante Maffia
di Giovanni Torchiaro

L’anepicletico, eppur così pieno di difetti, dio delle Elegie materane (LEPISMA EDIZIONI, 2016) ha accolto le irrituali debordanti richieste dell’innamorato senza morso: avrà riordinato le sue idee sull’amore, avrà deciso, lui che tutto può, di amare il mondo senza nulla chiedere, e, ancora, di essere uomo per sempre, oltre che Dio (n.10). Chiamato a parte di un progetto d’amore per la città, si è fatto convinto, e il poeta ne è ora consapevole. E lì, se la terzina sarebbe stata, canonicamente, la strofa perfetta, pure, nel suo declinarsi, non sarebbe bastata a contenere la iterata robusta determinazione del poeta innamorato e rabbiosamente rivendicativo, la cui voce è, elegiaca quanto si dichiari, ma poematica, ariosa, estesa. Da ottava, appunto. Che è contenitore e mezzo più adatto: e il lungo urlo del poeta - che è di pianto e desiderio inappagato, di amore a un tempo euforico e governato, di visione sociologica e antropologica della città/donna, di riflessione filosofica e di relazione/scontro con dio - non poteva far ricorso che a quella forma.
Ma ora (Matera e una donna, Terra d’ulivi edizioni, 2017) il registro cambia. Dante Maffia ritorna a Matera… cioè, Dante Maffia è rimasto a Matera e vi ha portato il mare della sua Roseto: ne respira l’aria e se ne gode i colori, ne scopre i recessi nascosti e, con curiosità da amante, ne immagina gli anfratti; la respira la vive la ama. Matera è eros. È passione estrema e virtuosa, mai sconveniente. Perché essa è donna. Si direbbe, un anno dopo, che, condotto a miti consigli dio, tocchi ora agli uomini amarla: perché essa è luogo e donna: pietra e aria, carne e pensiero, cuore e cervello, respiro affannoso e canto ammaliante. Diciamolo subito. Quello per Matera e per la donna (che essa sia o non sia, che importa!) è amore totale. E, naturalmente, è finzione, puro gioco retorico, il dichiarare l’inadeguatezza della poesia a cantarlo (Ti resterò attaccato, 270). Quale altro strumento espressivo potrebbe descrivere quel sentimento - ora oblativo ora ricattatorio, ma sempre assoluto - meglio della poesia? E il registro, cui Dante Maffia fa ricorso, è il più ampio, quasi completo: tutti i tipi di verso, anche il monosillabico metrico, in rima e non in rima, tutte le forme, dal canonico sonetto alla composizione libera, talvolta attraverso raffinati giochi metrico-prosodici che solo chi è avvezzo a frequentazioni molto ravvicinate della poesia, mai allentate, e vissute per lunghissimo tempo, può farne uso. Trecentodiciannove poesie! E senza mai una caduta. Certo, considerata l’unicità dell’oggetto, il rischio della oleografia - di se stesso, non di altri - c’è. Eppure, nessun componimento ne replica un altro, non c’è mai, per quanto alcune parole non possano non ripetersi e i luoghi e le immagini si ripresentino più volte nel testo, non c’è mai stucchevolezza: la lingua assapora e riassapora, trasferendo il godimento nel cuore e nella testa. Tutto è sempre nuovo, a ogni pagina, a ogni strofa, a ogni verso, a ogni parola. Dante Maffia si è scatenato. Con la mano sul cuore, chiusi gli occhi e col pensiero immerso in una visione che non è di paradiso, ma di muri di pietra bianca e grigia, di anfratti rupestri, di gradinate porose, di lastrichi solari, egli sogna. Sogna lei. Nemmeno il tempo di pensarla perché ormai, dice, sei dentro di me e sei i miei pensieri (Se ti penso… 227). Certo - abbiamo detto - c’è il rischio della costruzione di immagini da carolina illustrata. Ma, fa giustizia Luigi Reina introducendoci all’opera con il prezioso Elogio a Matera: “Maffia non è neppure sfiorato dalla tentazione della cartolina… nei suoi versi c’è fuoco…” (pg 5).
Va da sé che, già nel titolo, Maffia non nasconde, anzi esalta, i riferimenti culturali e poetici dei quali - è più di mezzo secolo - si nutre. Sembra paradossale, ma i legami, moltissimi dei quali personali, col meglio della cultura italiana (da Palazzeschi a Sciascia, da Bellezza a Risi a Luisi) ne rendono il risultato più genuino. Non rinuncia, chi parla d’amore, al nutrimento ricco delle fonti: Sinisgalli o Jimenez, i tanti altri. Certo, il verso che scaturisce è nuovo proprio perché quel fuoco non si spegne mai. Ed è sempre nuova la parola: Ho forgiato la Parola (Aspettando l’incendio 22), ne ho fatto di parole nuove di zecca (A imitazione di una canzone pellerossa 39); ne ha individuato una prima (A comandare è un ragno 34) e ne inventa ancora altre (Donna di poesia 51), perché lei, Matera/donna, deve essere, con queste parole, solo sua! E non solo le parole. L’amore totale non ha paura, è una sfida continua. Ed è attesa - sempre sempre - e possesso e gelosia: anche della Gravina (Attenta 88), del mare (Il mare vuole goderti 340), del vento del cappotto del pittore del passante… E da essi - il poeta e Matera/donna - anche Venere impara molte cose sull’amore (Sapevo che ti avrei sognato 225). Non c’è acqua che possa spegnere la fiamma.
Un precedente autorevole - la postfazione alle Elegie materane di Maria A. D’Agostino - mi mette al riparo da penosi additamenti se vengo a sostenere che il Cantico dei cantici è il precedente più illustre di Matera e una donna, ovvero, al contrario, che Matera e una donna ne è la derivazione più coerente. La D’Agostino, con sapiente precisione, sottolineando affinità e distanze, si riferisce al Libro di Giobbe. E dunque, si vede, in Dante Maffia i Sapienziali ritornano e sono presenti (ma, vivaddio, siamo certi che non incocceremo mai nel richiamo al disperato, seppure iniziale, lamento di Qohèlet). Non vi è pezzo, nel suo autonomo sciogliersi, che non ricordi quel Cantico immenso, dal desiderio d’amore alle investigazioni, alla visione amorosa etc. (tra le altre, v/ Portami all’asilo 276). E naturalmente, qui come lì, l’amore vince, è più forte di ogni cosa. Solo, in Maffia, non c’è allegoria, se siamo forti da non credere che l’uomo e la città/donna si uniscono secondo il disegno di un creatore. Qui è tutto molto terreno (ma anche lì lo era): di un terreno umano che trova soddisfazione nel sé, nella visione, onirica quanto si desideri, ma di pietra e palpiti delle vene, che per farsi reale non ha bisogno di scontrarsi contro le irragionevoli leggi del divino. Qui è il rapporto con l’umano che ormai e soltanto vale. Non importa più che dio si sia fatto uomo per sempre. È l’uomo/poeta che conta: egli parla attraverso la pietra, il non colore. Le immagini in bianco e nero dei sassi di Matera dei versi, e negli scatti silenti ma loquaci di Elio Scarciglia, lo mostrano, l’uomo, quasi mai, e, le poche volte, nella sua rappresentazione scultorea o pittorica, e comunque silenzioso e ricettivo. Eppure egli è tutto nella poesia di Maffia. È umanità tacita e laboriosa, la cui opera e il cui cuore trasudano da ogni pietra e diventano godimento dell’occhio e della mente, in una Matera/sogno/realtà che fa tutt’uno col cuore del poeta: si accuccia nel mio cuore (Matera la poesia 378). Quella Matera che - come gli dice l’immenso Francesco -  così adora: neanche un minuto ti abbandono, se ti vivo senza il minimo di tregua negli occhi e dentro il cuore (A Roseto dal caffè sali sull’onde 110).




Istituto Comprensivo "V. Tieri" - Corigliano-Rossano CERTAMEN 2018