martedì 9 gennaio 2024

"Antichità" rinascimentali a Corigliano e altri scritti di Luigi De Luca a cura di Giovanni Pistoia

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«Come il fiume fluisce verso il monte»: un libro di poesie di Giovanni Pistoia alla sua terza edizione di Maria Teresa Armentano

 




Si sa i fiumi prevedibilmente fluiscono verso il mare, se invece la corrente scorre al contrario, vuol dire che anche la propria esistenza in quel frangente cambia direzione e aspira non a confondersi nel vasto mare ma ad ancorarsi alle pendici di un monte da scalare per giungere alla vetta. Così nel libro di Giovanni Pistoia si scoprono versi che si nutrono del ricordo di un passato felice e che raccontano di tristezze profonde con una sola certezza che vuol essere anche consolazione: la poesia come sogno mai perduto che consente al poeta di coniugare l’amore con il dolore. In questo testo scorre la vita del poeta, si alternano i ricordi dell’infanzia felice e i silenzi che segnano quei ricordi svaniti nel nulla dell’assenza dei propri cari. Sono presenze i luoghi, i vicoli, i muri, le case diroccate, le immagini improvvise e rubate a una vita trascorsa, viva solo nella memoria Qui tutto è vita anche nella casa abbandonata che sta per essere abbattuta. Nelle crepe delle pareti / erba soffice che sa di velluto / tenera come pianto di bimbo lontano. Ragnatele tessono l’elogio del tempo / e fili di voci distanti scrostano pareti offese / e pendono dal tetto vibrazioni soffuse. (La casa). C’è il silenzio del poeta che sa ascoltare le voci che il tempo non annulla, che ha sguardi per i particolari che solo i suoi occhi sanno vedere e che fissano squarci velati dal tempo offuscato della memoria, spiragli di luce che balzano improvvisi dai gesti, dai profumi, dai colori che travalicano il senso delle cose perdute negli anni. … E c’era il profumo del silenzio / nel piccolo giardino di rose bianche / nei mattini di rugiada cristallina; … Se la memoria sbiadisce, la parola la riporta alla luce ... Ridatemi la parola, quella vera, / quella che quando parla, dice, / e ascolta e il cuor si nutre di senso / ed essenza; …. foglia di primavera al sole dell’aurora. (Le parole che ascolto). Un inno alla parola che sola rievoca il dolore e la gioia, che confonde i ricordi e fa fiorire oggetti, persone, luoghi. 

Le immagini rievocate ricordano per certi aspetti i versi dei poeti crepuscolari che scoprivano la meraviglia nelle piccole cose: il fiore del campo, la fragranza del pane appena sfornato, la pignatta che brontolava a fuoco lento. A differenza dei crepuscolari, in Pistoia c’è l’esigenza di guardare dietro le cose, penetrando la profondità perché le apparenze non gli appartengono. Ogni oggetto, ogni luogo, ogni immagine ha il suo segreto e sta al poeta scoprirlo per andare oltre l’orizzonte che tutti vedono, verso quell’invisibile che appartiene solo al cuore di un poeta. E in questo modo che un mondo lontano, forse sparito, riemerge dalla nebbia della memoria e si definisce nei contorni come fosse presente, percepibile e la visione vagheggiata muta assumendo i contorni della quotidianità. Trovarsi in un mondo passato ma viverlo al presente, questo il dono dei versi di Giovanni Pistoia. Un giorno -ne è passato del tempo!- / ti ho donato un fiore / ne hai fatto un giardino. / Da allora mi regali arcobaleni e semi / per nuovi balconi fioriti. Ma un fiore / raccolto è fiore spezzato, lacerante, / il suo è sorriso apparente / e profuma un istante; un fiore reciso / porta con sé la fine e l’incanto. (Un giorno). Le esperienze della sua esistenza diventano anche le nostre, le sue emozioni generano le nostre. Il suo affidarsi alle parole come tramite per creare nuovi palpiti e vibrazioni compie il miracolo: la semplicità dell’esistenza quotidiana si trasforma in altro, i ricordi sono un filo perenne che si dipana lentamente per giungere ai lettori sorpresi per un vissuto che appare vicino e richiama le proprie esistenze. Sulla quiete del placido lago / l’airone solennemente plana, / un rapido becco nell’acqua / e via a riprendere il volo, / scompare tra gli alti canneti. /… Gorgheggia l’usignolo e nulla richiede.  / Un gatto vagabondo mi guarda e si siede. / Vivo altrove, dove non so. / Ai confini del cielo, ai confini del mare, / sulle ali dell’airone che torna a volare. (Sul lago di Tarsia). 

Affidarsi alle parole come tramite  perché diventino vivi gli elementi della natura che ci circondano  come la foglia che  si anima danzando in un rito antico cullata dalla malinconia trascinando con sé  le memorie di un tempo cancellato;  come  la neve  colore bianco del silenzio, come  le stelle cui confidiamo i nostri desideri più segreti, come la  farfalla che non si pone domande, come il bosco bruciato che brulicava di pensieri e taciturni  lamenti… una natura amata  a cui  il poeta sente di appartenere e che rappresenta la ricchezza della sua anima. Le ultime poesie del testo sono dedicate alle tragedie del mondo di oggi e di ieri. Dall’indifferenza dei giovani che dimenticano non conoscendo le tragedie della storia, al talento dei giovani ingannati, ai migranti che vagano nel mare, naviganti senza stelle che cercano nuove albe, alla natura violata, agli alberi che la rabbia del vento sferza nei vuoti tronchi nodosi. Su questo mondo di promesse tradite l’eco della poesia che è la voce del dolore. La poesia è la voce del dolore, ne conosce / la grammatica segreta. Nel silenzio infinito / delle valli, tra cielo e mare, risuona l’eco / della sua voce; eco infinito, interminabile, / come il dolore, quello ignoto e ignorato, / quello che si cela tra le piaghe di un sorriso / come una maledizione, una punizione / l’espiazione di una pena. Nel dolore/ resiste quel che resta dell’amore. (L’eco).

Si chiude così il cerchio iniziato dai luoghi dell’infanzia, dal ricordo dei propri cari, dai lunghi silenzi ripopolati dai fantasmi del passato; il silenzio che morde e fa soffrire, il silenzio che evoca memorie come sorgenti di nuova vita, il silenzio in cui dolore e amore si confondono e aprono altri orizzonti, rinnovate speranze al cuore del poeta.