sabato 29 gennaio 2022

ZINGONIA ZINGONE, Viaggio nel sangue, Forlì, CAPIRE Edizioni, 2020, pp. 99. [Letto da Dante MAFFIA]

Libro, a un tempo,  duro, forte e teso con nel fondo una tenerezza infinita, un sentimento alto radicato nei valori della vita, meglio del sangue, proprio come direbbero i vecchi della mia Calabria che quando vogliono sottolineare un legame autentico e duraturo fanno ricorso alla parola sangue.

Un libro anche di devozioni e di agnizioni, che vedono la poetessa  prendere coscienza del suo ruolo di madre e di donna che riconosce i valori dell’appartenenza e ne fa un vangelo (“Nessun tralcio / nasce sciolto dal suo tronco), ne fa il viaggio per sé, quasi come ripetizione del vissuto, ma soprattutto della sua creatura che via via prende atto d’esistere e diventa essenza del divenire.

Non è casuale che Zingonia Zingone, al suo sesto libro di poesia, metta una citazione di Rabindranath Tagore, infatti ella “è celata” nel cuore delle cose fino a organizzare il volume come il percorso che farebbe un agricoltore a cominciare dalla terra vergine fino al raccolto e al chicco. Sì, si tratta di un viaggio (dietro la visione di Zingonia c’è la protezione di Dante Alighieri e del Vangelo) che vuole scoprire il senso del vivere, soprattutto il senso dell’Amore, che vuole rendersi conto perché “L’albero eterno / ha le radici in cielo / e i rami in terra”.

Non è una trovata, un effetto surreale, ma la convinzione che non vi sia nessuna frattura tra cielo e terra, che la “rinnovata maternità” non è una finzione, ma un vero e proprio parto anche se avvenuto soltanto dentro l’anima.

Non nascondo che leggendo e rileggendo “Viaggio del sangue” sono rimasto sconvolto e come defraudato di qualcosa che ancora non riesco a capire in che consiste. La poetessa, con una chiarezza che ci riporta ai classici greci e alle tensioni e alle inquietudini di poeti come la Dickinson, come la Marina Cvetaeva, come la Marianna Moore, in una maniera tutta sua, denudandosi, offrendosi in olocausto senza tuttavia scendere mai a patti, come accade quando dice “Mi capita a volte di estraniarmi/ come se le mie azioni/ non mi appartenessero / come se non fossi io / quella che circola per strada nel mio corpo” conclude che è come se vedesse il mondo “che cresce / attraverso il mio agire”.

Un dettato poetico raro, di una intensità che non è facile raggiungere, di una sintesi che comunque non trascura i particolari e riesce a darci il quadro di un amore che si fa battesimo quotidiano, si fa accettazione dell’ “infanzia eterna / che è l’amore”.

Ma, al di là delle singole composizioni questo libro mi ha affascinato per la tenuta, avrebbe detto Benedetto Croce, per la compattezza stilistica e la qualità linguistica che riescono a esprimere concetti ed emozioni coi fremiti veri di un approdo.

Il tutto oscillando tra una terrestrità suadente e mai nascosta e una spiritualità, che, come tutte le spiritualità vissute con ardore, ha fioriture carnali, accensioni miracolose, a volte anche con tentazioni mistiche.