venerdì 5 novembre 2021

La poesia italiana per l’infanzia nelle pagine di Annalisa Comes di Giovanni Pistoia


Raccontare storie ai bambini, cioè aiutarli a crescere,

aiutarli a imparare a vivere. Vivere, crescere.

Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non: adeguarsi all’esserci

consentendo comunque. Vivere e crescere – e cambiare, quindi.

Magari guardando e prendendo in mano il Qui,

per progettare un Altrove che non si trovi altrove ma sia qui,

che sia il Qui trasformato.

Giuseppe Pontremoli

 

«Alla domanda se esista una poesia per bambini si potrebbe anche rispondere subito di no, che non può esistere una poesia per bambini più che non esista una poesia per avvocati, o per maestri di scuola, o per vigili notturni. La poesia esiste autonomamente, a prescindere da chi si trova ad essere il destinatario del suo messaggio; o non esiste. Ci sono poesie che possono essere capite, sentite, diciamo pure vissute dai bambini, indipendentemente dal fatto che siano state create per loro oppure no. E ce ne sono altre, troppo lontane dal loro campo di esperienza, troppo dissonanti con le loro strutture mentali o con il loro mondo sentimentale, troppo discordi con il loro vocabolario perché essi possano in qualche modo goderne. Ma non esiste quella cosa che possa essere poesia per i bambini e non-poesia per gli adulti.» Rodari si poneva questi interrogativi già nel 1972 in un suo saggio dal titolo I bambini e la poesia[1]. L’importanza del tema fu colta da Carmine De Luca, uno dei suoi più acuti studiosi, e proposto nel libro postumo di Rodari, «Il cane di Magonza». Per De Luca, lo studio di Rodari, «si configura come integrazione al saggio La letteratura infantile oggi»[2]. Su questo affascinante argomento l’impegno, negli ultimi anni, di Annalisa Comes con uno studio poderoso, sia per le informazioni fornite e sia per la qualità dei suoi commenti. Titolo del lavoro: «La poesia italiana per l’infanzia in Italia dal 1945 a oggi: riflessioni critiche, testi, illustrazioni. Proposta di antologia»[3]. La storia della poesia per l’infanzia è inserita nell’ambito della produzione e degli orientamenti della letteratura dell’infanzia dagli inizi del secolo al secondo dopoguerra. Suoi punti di riferimento essenziali sono gli studi di Pino Boero e Carmine De Luca, di Anna Ascenzi, Antonio Faeti, Angelo Nobile e altri. È impossibile tratteggiare, in poco spazio, le numerose questioni sviluppate dalla studiosa, l’analitico excursus su questioni che non attengono solo al mondo della letteratura dell’infanzia ma della letteratura in senso ampio. Il rinvio alla lettura del lavoro di Annalisa Comes è, dunque, d’obbligo. Penso sia uno di quei testi che non possono essere sconosciuti a chi si occupa, per i motivi più vari, degli argomentati trattati.

 

Lo studio è diviso in tre parti con un’ampia Introduzione nella quale si dà conto della letteratura per l’infanzia in Italia dal periodo giolittiano al secondo dopoguerra. Ci si sofferma, con dovizia di dati e acute note, sulla poesia per l’infanzia di ieri e di oggi, e ponendosi soprattutto l’interrogativo se la poesia per i bambini possa essere considerata un genere «a sé»: e qui è inevitabile il richiamo a Walter Benjamin, a Gianni Rodari, a Giovanni Raboni. Nella prima parte è esaminato il rapporto infanzia e poesia dal 1945 in Italia e in Europa. Nella seconda sono presi in considerazione numerosi autori che, a diverso titolo, hanno avuto modo di occuparsi d’infanzia e letteratura: Elsa Morante, Dino Buzzati, Emanuele Luzzati, Gianni Rodari, Alfonso Gatto, Giovanni Arpino, Tommaso Landolfi, Giovanni Raboni, Giovanni Giudici, Roberto Piumini, Pietro Formentini, Bruno Tognolini, Donatella Bisutti, Chiara Carminati, Sergio Tofano (Sto), Bruno Munari, Pinin Carpi, Toti Scialoja, Pierluigi Cappello, Roberto Mussapi, Bianca Tarozzi, Elio Pecora, Davide Rondoni, Anna Maria Farabbi, Annalisa Macchia, Giuseppe Pontremoli. La terza parte è dedicata alle antologie di poesia per l’infanzia e ragazzi. Ma non è tutto, proprio alla luce dei temi trattati e soprattutto dello spazio critico riservato alle antologie, l’autrice propone una sua idea di antologia. Il testo si completa con un apparato bibliografico di tutto rispetto, un formidabile ausilio per altre ricerche e studi. Un impegno notevole quello messo in atto dalla Comes e alla quale bisogna essere davvero grati. In uno studio così ampio, e con l’indicazione di tanti nomi e opere, è fin troppo facile poter evidenziare qualche manchevolezza: lo studio interessante non citato, l’autore meritevole di essere menzionato e invece assente, o altri rilievi. Lavori come questi non possono essere considerati esaustivi. Senza queste ricerche però non avremmo la possibilità di procedere oltre, di perfezionare il perfezionabile, rimuovere eventuali lacune. Una lettura attenta della fatica di Annalisa Comes, intanto, dà l’opportunità al lettore di avere un quadro abbastanza ampio e convincente dell’importante materia.

 

Avvalendoci della guida preziosa di Annalisa Comes, cerchiamo di verificare più nel dettaglio la struttura e la consistenza della ricerca. A quali domande il lavoro cerca di dare delle risposte? Eccone alcune: è ipotizzabile parlare di specificità della poesia per l’infanzia rispetto a quella destinata agli adulti? Quali sono i testi che caratterizzano eventualmente la poesia indicata specificatamente per l’infanzia? Una tale distinzione, si chiede tra l’altro la studiosa, comporta un approccio critico e metodologico diverso da quello utilizzato per la poesia per gli adulti? Ma poi, i testi per bambini sono definibili come poesia? Ma bambini non è un termine generico? E le domande potrebbero essere ancora tante. A molte di loro il lavoro tenta di dare delle risposte. E per definire il «campo di interesse e per chiarire se la poesia dell’infanzia costituisce un vero e proprio genere letterario, con un suo statuto e regole proprie a cui attenersi», nel libro si indagano e si analizzano i «testi poetici» per bambini in quanto tali, «il loro significato, il loro valore nell’ambito della letteratura per l’infanzia, e il rapporto nell’ambito della letteratura/poesia tout court.» Lo studio offre una panoramica approfondita e un’analisi delle tipologie dei testi poetici suddivisi in due fasce d’età: 0-5 anni (filastrocche, ninnenanne, storie in rima e raccolte in versi per i più piccoli) e per la fascia d’età dai 6 agli 11 anni (antologie e raccolte d’autore). Il periodo esaminato, come si è già detto, parte dal 1945, ossia dalla fine della seconda guerra mondiale, ai nostri giorni. Un aspetto significativo e originale è la riflessione sulla poesia per l’infanzia nell’ambito degli studi di genere: esiste una specificità della scrittura poetica per bambini e bambine al femminile? Quali le autrici? Quale la loro lingua? Ci sono tematiche e figure riconducibili al gender? Questa sezione prende altresì in esame la poesia dei bambini scritta dai bambini: un esercizio, quest’ultimo, sempre più diffuso, a partire dagli anni settanta, e promosso nelle aule scolastiche e che dà luogo a interessanti antologie.

 

Ma chi scrive per i bambini? Quali sono le caratteristiche di questi autori? La seconda parte della ricerca è dedicata, quindi, agli autori e all’importanza che ricoprono nel campo della storia della letteratura. Un viaggio molto interessante, che apre spazi per nuove ricerche. Questa parte termina con uno sguardo ai maestri-poeti/scrittori: da Mario Lodi a Maria Luisa Bigiaretti, da Anna Sarfatti a Silvia Roncaglio, da Vivian Lamarque a Guido Quarzo e Stefano Bordiglioni. Un’attenzione particolare è riservata a Giuseppe Pontremoli, scrittore e studioso notevole scomparso nel 2004. Una scelta, quest’ultima, da condividere e apprezzare[4]. Perché riservare delle pagine esclusivamente ai maestri-poeti/scrittori? «Perché alcuni maestri d’eccezione» - scrive l’autrice - «hanno avuto il merito di innovare, non solo la didattica all’interno della scuola (a volte in modo coraggiosamente utopistico) e l’approccio nei confronti dei bambini, ma anche la scrittura per l’infanzia e, per quello che ci interessa in particolare, la poesia.» Comes ricorda che già nel 1995, Pino Boero e Carmine De Luca[5] avevano posto l’attenzione sull’importanza di questi insegnanti quali «testimoni delle esperienze “autentiche” dei bambini all’interno delle strutture scolastiche.» Spesso questi scrittori e poeti traggono ispirazione, per i loro testi, proprio dal rapporto costante con il mondo infantile.

 

La terza parte, come già accennato, è riservata alle antologie poetiche per bambini. Qui il lavoro è articolato. Non essendoci degli studi critici specifici sull’argomento, l’autrice si è avvalsa di alcuni saggi in materia dedicati alle antologie poetiche italiane, mettendo in evidenze le possibili analogie e le inevitabili differenze. Un’antologia destinata ai bambini, per esempio, non può fare a meno delle illustrazioni e, comunque, di un idoneo apparato iconografico. Le stesse note non possono ricalcare quelle per le antologie classiche, ma devono avere una loro specificità: essere ridotte al minimo, non soffocare il testo. Un ruolo importante nella lettura di antologie poetiche per bambini è da affidare soprattutto all’insegnante.

 

E proprio partendo dagli studi effettuati e dalle esperienze maturate, l’autrice affida agli educatori, studiosi, lettori, nella quarta parte del prezioso lavoro, una sua Proposta di Antologia di poesia italiana per l’infanzia. La composizione dell’Antologia non segue criteri diacronici o tematici; è, comunque, si ribadisce, il frutto delle letture effettuate dall’autrice e dei suoi studi sulla letteratura per l’infanzia e sulla poesia per i bambini nel corso degli anni, dell’esame delle antologie esistenti e della conoscenza del mondo-bambino. Dà un titolo all’Antologia: Un ponte di poesie. Versi per scoprire il mondo. Titolo suggestivo: la poesia come ponte, veicolo di conoscenza; i versi per scoprire e unire. Quali gli autori antologizzati? Gianni Rodari, Janna Carioli, Bruno Tognolini, Erminia Dell’Oro, Stefano Bordiglioni, Chiara Carminati, Nicola Cinquetti, Marialuisa Bigiaretti, Giovanna Zoboli, Nico Orengo, Letizia Cella, Maria Loretta Giraldo, Sabrina Giarratana, Roberto Piumini, Giusi Quarenghi, Gabriele Clima, Vivian Lamarque, Silvia Roncaglia, Antonella Ossorio, Guia Risari, Nicola Gardini, Pino Pace, Pierluigi Cappello, Angela Nanetti, Giovanni Raboni, Gina Bellot, Giuseppe Lisciani, Antonio Porta, Davide Rondoni, Pinin Carpi, Giuseppe Pontremoli, Roberto Mussapi, Arianna Papini, Sara Favarò, Elsa Morante, Elio Pecora, Antonia Pozzi, Aldo Ferraris, Toti Scialoja, Guido Quarzo, Donatella Bisutti, Matteo Marchesini, Maria Sole Macchia, Giovanni Giudici, Sabina Colloredo, Alfonso Gatto, Teresa Parri, Bruno Munari, Pietro Formentini, Franco Antonicelli, Nicola Gardini, Dino Buzzati, Anna Sarfatti, Giulia Niccolai, Bianca Tarozzi, Paola Parazzoli, Rossana Ombres, Marcello Argilli, Alessandro Gigli, Emanuele Luzzati, Elisa Mazzoli, Roberto Denti, Laura Simeoni, Rossana Guarnieri, Alberto Masala.

 Il materiale è davvero tanto, studiato criticamente, stimolante per nuovi studi. Buona lettura.


 

giovannipistoia@libero.it



[1] I bambini e la poesia apparve per la prima volta sul «Giornale dei genitori», n. 6-7, giugno/luglio 1972. Il saggio fu ripreso da Carmine De Luca che lo pubblicò nel volume da lui curato: Gianni Rodari, «Il cane di Magonza», Editori Riuniti, Roma 1982. L’editore Einaudi, nel 2017, ha riproposto la raccolta, così come pensata da De Luca, con la prefazione di Mario Di Rienzo.

[2] Si veda la nota di De Luca a commento del saggio di Rodari nel volume citato.

[3] Annalisa Comes, «La poesia italiana per l’infanzia in Italia dal 1945 a oggi: riflessioni critiche, testi, illustrazioni. Proposta di antologia», Université de Lorraine; Università degli studi (Vérone, Italie), 2019. Il testo è possibile visionarlo in: https://hal.univ-lorraine.fr/tel-02400554/document

[4] Si veda anche Omaggio a Giuseppe Pontremoli scritto da Alberto Melis (altro illustre maestro scrittore) apparso su ècole di giugno 2005 e riportato in: http://www.giuseppepontremoli.it/giuseppe.alberto.ecole.htm

 

[5] Pino Boero, Carmine De Luca, Maestri scrittori, in «La letteratura per l’infanzia», Laterza, Roma-Bari, 1995.

giovedì 4 novembre 2021

Edith Bruck, Il pane perduto, La nave di Teseo, 2021, letto da Giovanni Pistoia

 

Quel pane lievita ancora

di Giovanni Pistoia

 

La storia

quella vera

che nessuno studia

che oggi ai più dà soltanto fastidio

(che addusse lutti infiniti)

d’un sol colpo ti privò dell’infanzia.

Nelo Risi

 

L’ultimo libro, in ordine di tempo, di Edith Bruck, ha come titolo «Il pane perduto» (La nave di Teseo, 2021). Anche se è stato ampiamente recensito e l’autrice è ben nota, non credo sia un libro che vada sintetizzato, accennato nelle sue grandi linee. Non è il frutto della fantasia di chi scrive, è la vita di chi scrive. È la sua adolescenza rapita, è la sua amarissima esperienza, appena tredicenne, nei vari campi e sotto campi di concentramento; la conoscenza della violenza e cattiveria dei fascisti ungheresi, poi dei nazisti e, poi, ancora, dell’indifferenza che la avvolse, come tutti gli altri e le altre, nel dopo-concentramento, a guerra finita. È la tragedia per aver perso la mamma, il papà, il fratellino Jonas nei campi di sterminio, lì dove l’umanità scomparve, e incombeva il «Grande Silenzio» di Dio.

 

Quelle pagine grondano di ferite mai sopite, anche se riferite con parole serene, sia pure pensate, calibrate. Alcune pagine hanno il tono della favola. Ecco l’incipit del volume: «Tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no.» E nelle ultime righe del testo, l’autrice afferma: «E oggi, persino per me è inverosimile il mio lungo cammino, che sembra una favola nella selva oscura del Novecento, con la sua lunga ombra nera sul terzo millennio.» Edith si salva, sopravvivrà.

 

L’esperienza agghiacciante, e forse non del tutto riferibile, è uno spartiacque tra il “prima” e il “dopo”. “Prima” si viveva, nonostante la povertà della numerosa famiglia, “dopo” si sopravvive per tutta la vita. Gli amici e i parenti, che non hanno subito l’affronto della deportazione e delle conseguenze, non sono più quelli di prima. Non possono capire chi, invece, ha provato sulle proprie carni umiliazioni e dolori, squarci psicologici devastanti. «Solo chi è stato deportato può capire un deportato; anche se tua sorella non può immaginare assolutamente quello che abbiamo vissuto anche perché non è raccontabile oggi dopo tantissimi anni e c’è sempre qualcosa che non hai detto…», così la scrittrice in una bella e intensa intervista a Rai Cultura[1]. Edith Bruck è da anni impegnata nel racconto delle sue vicende e testimone di quel tempo, soprattutto nelle scuole. Lo farà ancora fino a quando le sue forze lo permetteranno. È faticoso raccontare e riraccontare, ma è necessario, è un dovere morale. Eppure non si può dire tutto ai ragazzi. Afferma Edith: «Come fai a dire a un ragazzo nella scuola che, tra l’altro, ho visto un tedesco che giocava a pallone con la testa di un bambino, non si possono raccontare queste cose perché sembrano impossibili, oppure dei bambini congelati per terra a centinaia… è molto difficile…»

 

«Il pane perduto» si legge in poche ore. È breve, lo stile è asciutto, essenziale, intenso. Ma va letto più volte. I fatti narrati, i concetti, le parole, anche le cose non dette, o dette frettolosamente ma che si intuiscono, vanno assorbiti, compresi nel loro significato profondo, meditati. È una testimonianza, e come tale preziosa, scandita con sofferta urgenza. È così. Si avverte nel linguaggio, nel precipitarsi delle pagine, l’impazienza di portare a compimento questo lavoro. La scrittrice si rende conto che, per l’età avanzata e per i malanni che non mancano, ha difficoltà nello scrivere e gli occhi sono ammalati.

Teme, questo il suo cruccio ancora più grande, che la memoria possa abbandonarla. «Forse mi urge mettere sulle pagine ciò che ho accumulato nella mente perché il destino mi sta privando della vista. Già faccio fatica a decifrare la mia scrittura sghemba e le righe ubriache ma ho fretta, il tempo stringe.» E lei avverte, ora come ieri, come sessant’anni fa, come nei decenni trascorsi, come appena fuori dai campi del dolore e della morte, che deve raccontare, raccontare, raccontare, perché lo deve a se stessa, a quanti non hanno potuto farlo. Perché bisogna conoscere, sapere, tramandare, perché la barbarie di ieri non sia mai più, perché mai la dignità debba essere calpestata, e l’uomo ridotto a «meno di un numero». Ha raccolto gli appunti di questa sua odissea, del lungo peregrinare nel tentativo di essere ascoltata (lei che aveva tanto bisogno di carezze, di sicurezza) in diversi paesi del mondo, fino a stabilirsi definitivamente in Italia, dove ha scritto i suoi libri in italiano, lingua che lei considera «il paradiso terrestre».

 

Perché questo titolo? «Dio… Dio… il pane… il pane… »: è l’ultima invocazione della mamma di Edith, ripetuta ossessivamente lungo il suo calvario, da quando, prelevata insieme ai suoi familiari con forza, è portata prima nella sinagoga e poi spinta sul treno dai gendarmi e da giovani croci frecciate, e infine gettata nella fila «sinistra», che significava, nel codice di Auschwitz, «camera a gas immediata». Quel pane abbandonato, quasi tradito, offeso, nella casa vuota e sfregiata, aveva un significato dolorosissimo per quella mamma: la certezza dell’annientamento della sua famiglia, il terrore per la giovanissima Edith, che riceveva dalla madre coccole inusuali. Il presagio della fine di tutto. E davvero fu la fine di tutto.

 

Era la settimana della Pasqua ebraica. La famiglia seguiva il rituale festivo ma l’atmosfera non poteva essere gioiosa, non solo per le minacce che si abbattevano sulle famiglie ebraiche del paese, ma anche per la povertà che mordeva. «I figli», si legge nel libro, «sopportavano meglio anche lo stomaco semivuoto per la mancanza del pane e con l’azzimo scarso che doveva durare otto giorni.» Eppure la famiglia di Edith riceve in dono della farina dai vicini di casa. Di buon mattino, dopo averlo fatto lievitare durante la notte, la mamma stava per infornare quel pane, quando i fascisti ungheresi piombarono sulla loro casa per strapparli tutti dal loro nido.

 

«Ma la buona vicina di casa Lidi aveva donato subito la farina per il pane alla fine della festa, che cadeva quasi sempre in aprile, e le mani amate della madre con gioia visibile stavano lavorando nella madia, dando pugni e schiaffi alla pasta. Nelle grandi ciotole di legno, durante la notte, sarebbero ben lievitate per essere infornate all’alba.

La madre era già semisveglia per preparare il fuoco quando bussarono forte alla fragile porta, e si svegliarono di colpo tutti.

Prima che potessero chiedere “Chi è?”, ai successivi colpi, sempre più violenti, la porta cedette. Nel vano apparvero due gendarmi che urlavano di uscire entro cinque minuti, con un solo ricambio di abiti, lasciando valori e denari a casa.

“Il pane, il pane!” gridava la madre.

“Svelti, svelti!” ripetevano loro.»

 

Quel pane perduto non è andato perduto del tutto, è stato ritrovato negli anfratti della memoria, dove si era celato perché fosse riafferrato, reimpastato, lievitato nuovamente e finalmente consumato per alimentare la nostra mente. Quel pane è la memoria che si conserva, è il ricordo che non va cancellato, è il racconto di un orrore che si fa fatica ancora a credere. È un monito per i tempi di oggi, per quelli di domani. È un urlo di dolore e di forte denuncia verso quanti, ancora oggi, si mostrano spavaldamente con svastiche e rituali di un tempo atroce, che mai deve essere dimenticato o sminuito, né mai deve essere richiamato in vita.

martedì 2 novembre 2021

MILO DE ANGELIS, Linea intera, linea spezzata, Milano, Mondadori, 2021, pp. 104. [Letto da Dante MAFFIA ]



“e m’accorsi / che ormai da sette giorni sotto il mio cuscino/ dormiva la morte”. Evidente, dunque, che si tratta di un percorso che vive a dispetto del silenzio e della morte, della cancellazione, e infatti verso dopo verso sentiamo una cadenza che si apre e si adagia in lunghe pause, in strozzature eclatanti che preludono a visioni in cui passato, presente e sogno s’intrecciano e ridisegnano la vita del poeta nelle sue accensioni e nelle sue contraddizioni, con apparizioni che sembrano banale quotidianità e invece sono strazio e dolore, perdita e dissolvenza.

Del resto i titoli delle quattro sezioni sono espliciti, la linea che corre dritta e si spezza, le tappe d’un viaggio notturno senza romanticherie ed esaltazioni decadenti, i dialoghi con le ore contate e addirittura l’aurora con il rasoio. Eppure non c’è nulla di disperante, come se luci e ombre, miseria umana e gioia, dolore e spiragli di sereno fossero un’unica matassa che si srotola soffermandosi a caso su un aspetto o un altro, mettendo sul medesimo piano verità e bugia, realtà e visioni, cose realmente accadute e cose che appaiono e sfumano in parole neutre, dentro parole neutre, che però hanno la pretesa di significare: “E tu cominci a sentire, nelle parole che hai detto, il respiro / di quelle taciute: sono lì, bussano alla porta / non se ne vogliono andare, restano ferme fino a sera, / ti sfiorano il viso e si allontaneranno solo all’alba / Restano lì e la stanza diventa un’aula di tribunale e tu / sei l’imputato. L’accusa è sempre la stessa: il silenzio. / Le attenuanti non contano: dovevi parlare, dovevi / tirar fuori la bestia, esporre il demone nero al pubblico giudizio, / mostrarlo alla primavera, spargerlo per il mondo, guarire”.

Un esempio di come Milo sa entrare e uscire dall’angoscia, domarla, ironizzando e coinvolgendo le cose attorno in modo che tutto, ma proprio tutto, diventi occasione per decifrare il senso primo e ultimo del vivere e del morire, per captare che cosa c’è dietro il paravento delle giornate che scorrono nella plaga del silenzio e della solitudine.

No, non c’è Franz Kafka, ma semmai un’eco della lezione di Arthur Schnitzler e di Elias Canetti, e c’è invece l’attenzione alle minuzie, spasmi, contorcimenti di ciò che appare e non è, di ciò che sconfina nel sogno.

Il malessere che circola nei versi ha qualcosa di assurdamente indecifrabile, come se scaturisse da una fonte di cui non si conosce l’origine e dunque l’accatastamento delle paure si sfalda nell’indistinto, non trova una ragione, non si spiega nulla. E’come se Milo De Angelis navigasse su una nave priva di motori e di remi, priva di marinai, che tuttavia va per i mari, perfino per i mari sconosciuti e per i mari che un giorno si formeranno in qualche nuovo luogo, forse dell’anima.

Alla base di tutto però i ricordi esistono in una forma che ha qualcosa di dannatamente efficace e pongono in essere un fluido misterioso che anticipa le emozioni, le spezza, le butta nel cestino dei rifiuti.

Abilissimo Milo a tessere la trama dell’impossibile, dell’indecifrabile, della violenza che non trova lo spiraglio per far naufragare il mondo.

In questo sfasamento della realtà parrebbe impossibile che il poeta possa camminare stilisticamente e idealmente per una strada non accidentata e invece trova poesia dopo poesia un rigore fermo, una facoltà labirintica di fermare il passo alla disgregazione. Il risultato è un impasto linguistico comunicativo e vigile, l’affascinante deriva d’un nuotatore che ha saputo districarsi dalle onde furiose e arrivare alla riva per poter dire a s stesso a e al mondo: “La vita continuerà altrove... / Il mondo continuerà altrove e io saluto tutti voi nella corsa, / saluto la mia vita, breve, recisa, definitiva”.

 

Dante Maffìa