sabato 24 ottobre 2009

Perché Dio creò la Calabria

Dedicato a
Pierino Cimino


Caro Pierino,
stavo scrivendo il raccontino che segue quando mi è giunta la notizia che tu ci avevi lasciato. Non sempre si muore all’improvviso. Si può morire poco a poco. E anche la tua morte, per tanti, ha portato via un pezzetto della propria. A me è capitato così. Non mi va di aggiungere altro. Del resto tu eri sempre sorridente, anche quando ti incavolavi nero. A tal proposito, mi permetto di dirti: se dovessi incontrare il Padreterno, non prendertela con Lui per i nostri malanni. La responsabilità è tutta nostra. E tu lo sai. Sono certo, comunque, che t’inventerai qualcosa per stimolare un Suo divino intervento. Ne abbiamo tutti bisogno.
Dedico a te questo scritto.
Sappi che continuerò a fermarmi al tuo bar. Lì, seguiterò a vederti. Sempre.


Perché Dio creò la Calabria
Giovanni Pistoia


Lo scrittore: “Dio, Eccellenza, mi scusi… ”

E Dio, interrompendo colui che sarebbe diventato un bravo scrittore calabrese, Leonida Repaci, disse: “Dammi del tu, l’eccellenza, poi, riservala ai cardinali e alle autorità …”

Lo scrittore: “Cosa sono i cardinali… ”

Dio: “Lascia stare, lo scoprirai quando verrà il giorno in cui tu sarai un cittadino del mondo… Ci vuole ancora tanto tempo. Che cosa stavi per chiedermi?”

Lo scrittore: “Dio, ora che hai finito la tua opera creativa, cosa farai con questi quindicimila chilometri quadrati di argilla?”

Dio: “Penso che con questa creta io possa modellare un paese per due milioni di abitanti al massimo: è un’argilla verde con riflessi viola. Verrà un’opera bellissima. Farò, con questo materiale, un capolavoro.”

E il Signore sembrò estraniarsi. La sua tensione creativa era al massimo. E lo scrittore rimase in silenzio ad ammirarlo. Da quelle mani divine l’impasto di argilla prese forma e agli occhi esterrefatti di Leonida apparve un disegno simile a un piede umano che si bagnava per tre parti nel mare. Visto da lassù, da quella nuvola rosa, era splendido.

Disse lo scrittore: “Cos’è?”

Dio: “Quella sarà, un giorno, la tua terra, la Calabria, e tu racconterai di questo evento ai calabresi e al mondo. La Calabria è più bella della California e delle Hawaii, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi.”

Lo scrittore: “Non stai esagerando?”

Dio: “E perché dovrei?”

Lo scrittore: “Quello sarà il mio paese?”

Dio: “Un giorno del 1898 tu nascerai a Palmi, una cittadina di Reggio Calabria. E, tra le tante cose che farai, descriverai, e lo farai bene, quello che stai vedendo in questo momento. Intitolerai così il tuo brano: Quando fu il giorno della Calabria. Perché se qualcuno si domanderà perché mai ho voluto creare anche questo lembo di terra in un mondo così vasto, tutti sapranno darsi una risposta.”

Lo scrittore: “Vedo tanti agglomerati di case, campagne, montagne, colline, dimmi qualcosa in più. Cosa metterai laggiù, in quella terra che sembra adagiarsi sulle acque… ”

Dio: “Hai ragione. Completo il mio dipinto. Dono alla Sila il pino, all’Aspromonte l’ulivo, a Reggio il bergamotto, allo stretto il pescespada, a Scilla le sirene, a Chianalea le palafitte, a Bagnara i pergolati, a Palmi il fico, alla Pietrosa la rondine marina, a Gioia l’olio, a Cirò il vino, a Rosarno l’arancio, a Nicotera il fico d’India, a Pizzo il Tonno, a Vibo il fiore, a Tirolo le belle donne, al Mesima la quercia, al Busento la tomba del re barbaro, all’Amendolea le cicale, al Crati l’acqua lunga, allo scoglio il lichene, alla roccia l’oleastro, alle montagne il canto del pastore errante da uno stazzo all’altro, al greppo la ginestra, alle piane la vigna, alle spiagge la solitudine, all’onda il riflesso del sole.”

Lo scrittore: “Ma è tutto?”

Dio: “Assolutamente no. Dono a Cosenza l’Accademia, a Tropea il vescovo, a San Giovanni in Fiore il telaio a mano, a Catanzaro il damasco, ad Antonimina il fango medicante, ad Agnana la lignite, a Bivongi le Acque Sante, a Pazzano la pirite, a Galatro il solfato, a Villa San Giovanni la seta greggia, a Belmonte il marmo verde… ”

Dio sospirò un istante. Dall’alto della nuvola rosa diede uno sguardo al mondo. Guardò Leonida con tenerezza che subito chiese: “Ora il lavoro è davvero completo?”

Dio: “Eh no, figliolo! Voglio dare ai calabresi il sapere, la conoscenza, la cultura. Assegno, dunque, a Crotone Pitagora, Orfeo, Democede, Alcmeone, Aristeo, Filolao, Zaleuco a Locri, Ibico a Reggio, Clearco pure a Reggio, e pure Glauco, Cassiodo a Squillace, San Nilo a Rossano, Gioacchino da Fiore a Celico, Fra Barlaam a Seminara, San Francesco a Paola, Telesio a Cosenza, il Parrasio pure a Cosenza, il Gravina a Roggiano, Campanella a Stilo, Padula ad Acri, Mattia Preti a Taverna, Galluppi a Tropea, Gemelli-Careri a Taurianova, Alvaro a San Luca, Calogero a Melicuccà, Manfroce a Palmi, Cilea a Palmi… ”

Lo scrittore: “A Palmi?”

Dio: “Assegno a Palmi Leonida Repaci… scrittore e giornalista brillante che ebbe la fortuna di intervistare Dio in persona…”

Leonida sorrise un po’ e si schernì, mentre Dio sembrava prendersi gioco di lui.

Lo scrittore: “Spero che adesso la creazione sia finita, altrimenti non ricorderò tutte queste cose per il mio racconto… ”

Dio: “Scherzi? Siamo appena agli inizi. Dono a Stilo la Cattolica, a Rossano il Patirion, ancora a Rossano l’Evangelario Purpureo, a San Marco Argentano la Torre Normanna, a Locri il Pinakes, ancora a Locri il Santuario di Persefone, a Santa Severina il Battistero, a Rotonda, a Squillace il Tempio della Roccelletta, a Cosenza la Cattedrale, a Gerace pure la Cattedrale, a Crotone il Tempio di Hera Lacinia, a Mileto la Basilica della Trinità, a Santa Eufemia Lamezia l’Abbaziale, a Tropea il Duomo, a San Giovanni in Fiore la Badia Florense, a Vibo la Chiesa di San Michele, a Mileto la Zecca, a Nicotera il Castello, a Reggio il Tempio di Artemide Facellide, a Spezzano Albanese la necropoli della prima età del ferro.”

Lo scrittore: “Signore, ti prego… non riesco più a prendere appunti. Sono tante le cose che vuoi dare a questa terra. Perché?”

Dio: “Voglio che sia la mia creatura prediletta. Per gli appunti non preoccuparti più di tanto, quando verrà il tuo giorno, sarai tu stesso che vedrai la Calabria e ti ricorderai di questo colloquio. Ora distribuirò i mesi e le stagioni.”

Lo scrittore: “Ma i mesi e le stagioni non sono uguali a quelli dati agli altri paesi?”

Dio: “No. Per l’inverno concedo alla Calabria il sole, per la primavera il sole, per l’estate il sole, per l’autunno il sole. Voglio che sia il sole a riscaldare e illuminare questa terra. A gennaio voglio dare la castagna, a febbraio la pignolata, a marzo la ricotta, ad aprile la focaccia, a maggio il pescespada, a giugno la ciliegia, a luglio il fico melanzano, ad agosto lo zibibbo, a settembre il ficodindia, a ottobre la mostarda, a novembre la noce, a dicembre l’arancia. Voglio ancora che le madri siano tenere, le mogli coraggiose, le figlie contegnose, i figli immaginosi, gli uomini autorevoli, i vecchi rispettati, i mendicanti protetti, gl’infelici aiutati, le persone fiere leali, socievoli ed ospitali, le bestie amate.”

Lo scrittore: “Vedo che questo dipinto è completo. Vedo tanto colore… ”

Dio: “Non è ancora completo. Il mare in Calabria sarà sempre viola, la rosa sboccerà anche a dicembre, il cielo sarà sempre terso, le campagne saranno fertili, le messi abbondanti. Il clima sarà mite, inebriante il profumo delle erbe.”

Dio osservò nei particolari l’opera compiuta. Era davvero soddisfatto della sua creatura. Leonida vide il Signore che prelevò da un bosco una quercia ombrosa, la sistemò in una piega della nuvola rosa, si sedette ai suoi piedi e un dolce sonno lo avvolse.

Lo scrittore restò a guardare la fatica del Creatore. Da un pugno d’argilla aveva tratto uno splendore. Leonida, quasi inconsapevolmente, si ritrovò disteso sotto il ramo della grande quercia, e si assopì.

Lontano dalla nuvola rosa, qualcuno, che ne cavalcava una nera, si accorse del riposo di Dio.

“Adesso, vi faccio vedere di che pasta sono fatto io”, disse il diavolo, un essere che non sopportava il Signore. Guardò la Calabria e assegnò a essa tante calamità: le dominazioni, i terremoti, la malaria, il latifondo, il feudalesimo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’onorata società, la vendetta, l’omertà, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione.
E come se non bastasse tutto ciò, esclamò beffardo: “E avrai tante di quelle necessità e bisogni che ti stancheranno per l’eternità: avrai bisogno di giustizia, di libertà, del nuovo e del meglio che non conquisterai.” Dette l’ultimo sguardo a quel dipinto di Dio, ora fortemente compromesso, e tutto soddisfatto se ne andò gorgheggiando una canzone volgare, mentre s’incuneava tra le increspature della nuvola nera, che si allontanò velocemente.

Quando Dio riaprì gli occhi, volse il suo sguardo in quel punto lontano dell’universo, per ammirare, ancora una volta, il suo ultimo capolavoro.

Leonida vide il Signore impietrito sulla punta più alta della nuvola rosa. Lo vide sconvolto, come non mai. Guardò la Calabria e fece fatica a riconoscerla. Quella meravigliosa creatura uscita dalle mani di Dio era stata lacerata, vilipesa. Vide sul volto di Dio una collera sconosciuta. Lo vide alzare una mano che divenne lunga, lunghissima. Una mano che strappò dal nascondiglio il diavolo, lo strinse con forza inaudita e con veemenza scaraventò l’immonda creatura nei profondi abissi del cielo. Restò muto, Dio, chissà per quanto tempo, a fissare la Calabria. Era fin troppo evidente la sua sofferenza. Poi pronunciò una frase, per Leonida incomprensibile: “Utta a fa juornu c’a notti è fatta.”

Leonida non osò avvicinarsi al Signore. Avrebbe voluto chiedergli tante cose, a cominciare da quella strana espressione, ma tacque. Dio si volse. Guardò il volto esterrefatto di Leonida e disse: “Non è possibile distrarsi un attimo. Il Maligno ha approfittato del mio sonno per rovinare il capolavoro che avevo fatto. Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere, un giorno, come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. I guasti sono ormai fatti, la notte sta attraversando la Calabria, bisogna fare in fretta perché arrivi il giorno.”

E lo scrittore: “Vuoi dire che la notte contiene gli albori del giorno?”

Dio: “È così. Prima i calabresi usciranno dal tunnel della notte, prima vedranno la luce.”


Nel tempo si è verificato, probabilmente, qualche imprevisto. Si è constatato che il buio della notte tarda a dileguarsi e, anche quando sembra che qualche stella cominci a rischiarare un cielo troppo scuro, l’alba si fa più lontana. E, invano, si attende il canto del gallo.

Si è verificato che non pochi uomini, anche calabresi, siano diventati diavoli-uomini, sostituendo quel maledetto che fu inabissato nei cieli.

E così, quando qualche vecchio guasto è riparato, subito se ne presenta un altro, e, poi, un altro ancora. Dalla Calabria, assetata di libertà, giustizia, diritti, lavoro dignitoso, molti vogliono andare via. Altri, invece, vogliono restare, altri ancora desidererebbero ritornare per dare il proprio contributo, perché si realizzi un reale cambiamento.

Ma i diavoli-uomini sono forti: corteggiati, adulati, tollerati. E loro, ben vestiti e profumati, gioiscono per il malaffare che procurano alla Calabria, per i veleni che fanno galleggiare nei mari, per le sostanze tossiche con le quali accolgono i ragazzi nelle scuole, per le strade di cartone che costruiscono, per le colline che sbancano, per i bambini che uccidono mentre giocano…

La società calabrese, che vuole accendere i riflettori per illuminare la regione, ha un piccolo-grande problema: non sa dove sono nascosti gli interruttori. Probabilmente alcuni pulsanti sono coperti da specchi. Se la società riuscisse a guardarsi, con onestà, in quegli specchi, ne trarrebbe belle conseguenze. E non pochi di quegli interruttori darebbero la giusta luce.

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