mercoledì 1 novembre 2017

La letteratura del dare voce di Giovanni Pistoia

La letteratura del dare voce
di Giovanni Pistoia


Ingredienti per una vita di formidabili passioni è una raccolta di ricordi, testimonianze di Luis Sepúlveda apparsa in Italia nel 2013, edita da Guanda. Una interessante e significativa esposizione della sua vita, intessuta di forte impegno politico e civile, della passione per il calcio e, in particolare, per la letteratura. In questo volume è possibile leggere, tra l’altro, pagine intense dedicate a Nicanor Parra Sandoval, poeta cileno molto noto oltre che matematico e fisico, Pablo Neruda, Gabriel García Márquez, José Saramago, Tonino Guerra. Sepúlveda ha un senso molto pratico della letteratura, suo compito è quello di dare voce a chi non ha voce, a chi apparentemente non ha una storia degna di essere ricordata. La letteratura vale se riesce a dare vita a chi sembra non averne avuta. E il suo impegno come scrittore è di mantener fede a questo principio. E lo fa con una scrittura semplice ma incisiva, con una capacità narrativa che coinvolge, avvince; consegna, così, al lettore confessioni e memorie dolenti, considerazioni amare, ma l’amore per l’umanità, nonostante la ferocia degli uomini, emerge con trasparenza. Tra i ventisette racconti contenuti nel libro, ve ne è uno dal titolo che è il motivo fondante e fondamentale della sua concezione della letteratura: “Dare voce a chi non ha voce”.

Nel breve testo, così come si può leggere ora anche nell’antologia di scritti di Sepúlveda curata da Ranieri Polese, Storie ribelli (Guanda 2017), lo scrittore ricorda alcuni autori che nelle loro opere dettero inizio, a suo avviso, alla letteratura del dare voce a chi ne è senza. Il primo è Alonso de Ercilla (1533 - 1594) nella sua opera L’Auracana. È un poema epico scritto in lingua spagnola. Il suo autore è un soldato poeta, che nel 1542 accompagnò Garcìa Hurtado de Mendoza nella conquista spagnola del Cile. «In quel poema -scrive Sepúlveda- Ercilla testimonia il valore dell’Altro, dell’indio, di chi era diverso ma al tempo stesso degno e coraggioso.»

Per lo scrittore cileno la testimonianza più nota di questo genere letterario, di chi non può far sentire per varie ragioni il suo punto di vista, è Èmile Zola (1840 - 1902). Sepúlveda ricorda il titolo dell’editoriale - J’Accuse! - che Zola scrisse in forma di lettera aperta al presidente della Repubblica francese e pubblicato il 13 gennaio 1898 dal giornale L’Aurore. Il giornalista denunciò con forza le irregolarità commesse da chi avrebbe dovuto cercare la verità per il trionfo della giustizia. Ma malgrado l’enorme coraggio dell’articolo di Zola, il capitano Alfred Dreyfus «non ebbe modo di far conoscere il suo punto di vista e la verità non riuscì a imporsi in tutto il suo splendore.» Dreyfus fu, infatti, condannato per alto tradimento alla deportazione a vita sull’Isola del Diavolo nella Guyana francese. Anche Zola fu condannato per quell’articolo, reo di vilipendio alle forze armate. Fu un atto di grande onestà intellettuale quello del giornalista, che scrisse unicamente per amore della verità. E, comunque, il processo a Dreyfus fu, in seguito, riaperto. Come è ampiamente noto “il caso” si risolse nel 1906: la Cassazione annullò la sentenza di condanna per il capitano che fu reintegrato nelle sue funzioni. Zola non poté vedere l’esito della sua battaglia.

Sepúlveda ricorda, poi, lo scrittore Baldomero Lillo (1867 - 1923), voce degli emarginati, dei più miseri del Cile. Colui che racconta non solo le tristi vicende esistenziali ma di quegli infelici ne interpreta le emozioni, i sentimenti, gli stati d’animo, i dolori, le angosce. «Quando il cileno Baldomero Lillo pubblicò gli splendidi e durissimi racconti di Subterra e Subsole, diede voce alla gente più miserabile in modo non meno efficace di Zola con Germinale, soffermandosi però a identificare con assoluta chiarezza i responsabili delle condizioni di vita poverissime, inumane, in cui consumavano le loro esistenze i minatori del carbone nel Sud del Cile e i minatori del salnitro nel deserto di Atacama. Baldomero Lillo diede la sua voce a questi uomini e a queste donne e contribuì a far entrare parole come giustizia e diritto nel loro vocabolario di operai.» Sub Terra è del 1904 ed è incentrato sulle miniere di carbone di Lota, mentre Sub Sole, del 1907, sulla vita dei contadini.

A questo elenco, Sepúlveda aggiunge Ryszard Kapuściński (1932 - 2007). «Nella nostra epoca, credo che lo scrittore più coerentemente impegnato a dar voce a chi non ha voce sia stato il polacco Ryszard Kapuściński. Un libro di racconti come Ebano ritrae l’identità del continente africano nel suo sforzo di mettere fine al colonialismo e a una povertà che per le potenze straniere era non meno naturale del colore della pelle degli africani.» Ebano (Heban) è pubblicato in originale nel 1998 e in Italia da Feltrinelli nel 2000. È quasi un rapporto di una vita vissuta in quarant’anni in varie parti dell’Africa come giornalista. Una testimonianza di prima mano di un cronista che partecipa vivendo insieme agli indigeni la loro stessa vita, soffrendone i disagi, la povertà, le malattie e rischiando più volte la morte.

L’elenco potrebbe arricchirsi di molti altri nomi; per fortuna sono in tanti che hanno utilizzato e utilizzano la penna per denunciare e dare voce ai silenzi. «Come persone abbiamo il dovere di stabilire un rapporto con la vita e con la società improntato a un’etica rigorosa, che più è rigorosa più ci umanizza. Alla letteratura siamo invece legati da un forte vincolo estetico. L’etica e l’estetica sono però destinate a incrociarsi e quindi la cosa più interessante negli scrittori e nelle scrittrici che apprezzo è che conferiscono alla loro letteratura la stessa carica etica con cui affrontano i fatti sociali, mentre le loro vite si arricchiscono della stessa carica estetica che conferiscono alla letteratura.» La persona e lo scrittore, pur nel loro dualismo, devono incontrarsi. La letteratura non può che essere osservatrice e partecipe della realtà e presente in modo particolare lì dove c’è sofferenza e il silenzio dei sofferenti. E i testi di Sepúlveda sono testi di chi partecipa attivamente e da militante alle vicende umane. Lo sono nei contenuti e nello stile. Lo sono nell’incunearsi tra le vicende degli uomini soprattutto per descriverne le contraddizioni e per stare sempre e comunque da parte di chi è vittima degli abusi, dei soprusi; per denunciare chi schiavizza l’uomo e per invocarne non vendetta ma giustizia. «Non potrei mai affrontare la letteratura, la scrittura, senza la consapevolezza di essere la memoria del mio paese, del mio continente, di tutta l’umanità.» Una dichiarazione d’intenti chiara e perentoria che non ammette equivoci. La memoria, dunque. La memoria come obbligo morale, un imperativo etico per la letteratura dei silenziati.

«Qualche anno fa ho visitato il campo di concentramento di Bergen-Belsen. Di quel posto sapevo che, fra centinaia di migliaia di vittime dei nazisti, era stata assassinata anche una bambina, Anne Frank, e che i suoi resti giacevano in una delle tante fosse comuni, delle tombe collettive, dei monumenti all’orrore. Bergen-Belsen e tutti i campi di concentramento di qualsiasi luogo al mondo sono posti che si visitano in silenzio, perché la voce si rifiuta di descrivere quello che l’occhio vede, quello che vede la memoria, pur sapendo che dovremo compiere lo sforzo di nominare tutto ciò che abbiamo visto con la forza inaugurale che hanno le parole.
In un angolo di Bergen-Belsen, vicino ai forni crematori, qualcuno – non so né chi né quando – ha scritto delle parole che sono le fondamenta del mio essere scrittore, l’origine di tutto ciò che scrivo. Quelle parole dicevano, dicono e continueranno a dire finché esiste gente decisa a sacrificare la memoria: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia.”
Mi sono inginocchiato davanti a quelle parole e ho giurato che, chiunque le avesse scritte, io avrei raccontato la sua storia, gli avrei dato la mia voce perché il suo silenzio smettesse di essere una lapide carica del più infame degli oblii. Per questo scrivo».




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