Le
umane pietre di Dante Maffia
di Giovanni Torchiaro
L’anepicletico, eppur
così pieno di difetti, dio delle Elegie
materane (LEPISMA EDIZIONI, 2016) ha accolto le irrituali debordanti
richieste dell’innamorato senza morso: avrà riordinato le sue idee sull’amore,
avrà deciso, lui che tutto può, di amare il mondo senza nulla chiedere, e,
ancora, di essere uomo per sempre, oltre che Dio (n.10). Chiamato a parte di un progetto d’amore per la
città, si è fatto convinto, e il poeta ne è ora consapevole. E lì, se la
terzina sarebbe stata, canonicamente, la strofa perfetta, pure, nel suo
declinarsi, non sarebbe bastata a contenere la iterata robusta determinazione
del poeta innamorato e rabbiosamente rivendicativo, la cui voce è, elegiaca
quanto si dichiari, ma poematica, ariosa, estesa. Da ottava, appunto. Che è
contenitore e mezzo più adatto: e il lungo urlo del poeta - che è di pianto e
desiderio inappagato, di amore a un tempo euforico e governato, di visione
sociologica e antropologica della città/donna, di riflessione filosofica e di
relazione/scontro con dio - non poteva far ricorso che a quella forma.
Ma ora (Matera e una donna, Terra d’ulivi
edizioni, 2017) il registro cambia. Dante Maffia ritorna a Matera… cioè, Dante
Maffia è rimasto a Matera e vi ha portato il mare della sua Roseto: ne respira
l’aria e se ne gode i colori, ne scopre i recessi nascosti e, con curiosità da
amante, ne immagina gli anfratti; la
respira la vive la ama. Matera è eros. È passione estrema e virtuosa, mai
sconveniente. Perché essa è donna. Si
direbbe, un anno dopo, che, condotto a miti consigli dio, tocchi ora agli
uomini amarla: perché essa è luogo e donna: pietra e aria, carne e pensiero,
cuore e cervello, respiro affannoso e canto ammaliante. Diciamolo subito.
Quello per Matera e per la donna (che essa sia o non sia, che importa!) è amore
totale. E, naturalmente, è finzione, puro gioco retorico, il dichiarare
l’inadeguatezza della poesia a cantarlo (Ti
resterò attaccato, 270). Quale altro strumento espressivo potrebbe
descrivere quel sentimento - ora oblativo ora ricattatorio, ma sempre assoluto
- meglio della poesia? E il registro, cui Dante Maffia fa ricorso, è il più
ampio, quasi completo: tutti i tipi di verso, anche il monosillabico metrico,
in rima e non in rima, tutte le forme, dal canonico sonetto alla composizione
libera, talvolta attraverso raffinati giochi metrico-prosodici che solo chi è
avvezzo a frequentazioni molto ravvicinate della poesia, mai allentate, e
vissute per lunghissimo tempo, può farne uso. Trecentodiciannove poesie! E
senza mai una caduta. Certo, considerata l’unicità dell’oggetto, il rischio
della oleografia - di se stesso, non di altri - c’è. Eppure, nessun
componimento ne replica un altro, non c’è mai, per quanto alcune parole non possano
non ripetersi e i luoghi e le immagini si ripresentino più volte nel testo, non
c’è mai stucchevolezza: la lingua assapora e riassapora, trasferendo il
godimento nel cuore e nella testa. Tutto è sempre nuovo, a ogni pagina, a ogni
strofa, a ogni verso, a ogni parola. Dante Maffia si è scatenato. Con la mano
sul cuore, chiusi gli occhi e col pensiero immerso in una visione che non è di paradiso, ma di muri di pietra bianca e
grigia, di anfratti rupestri, di gradinate porose, di lastrichi solari, egli
sogna. Sogna lei. Nemmeno il tempo di
pensarla perché ormai, dice, sei dentro di
me e sei i miei pensieri (Se ti
penso… 227). Certo - abbiamo detto - c’è il rischio della costruzione di
immagini da carolina illustrata. Ma, fa giustizia Luigi Reina introducendoci
all’opera con il prezioso Elogio a Matera:
“Maffia non è neppure sfiorato dalla tentazione della cartolina… nei suoi versi
c’è fuoco…” (pg 5).
Va da sé che, già nel
titolo, Maffia non nasconde, anzi esalta, i riferimenti culturali e poetici dei
quali - è più di mezzo secolo - si nutre. Sembra paradossale, ma i legami,
moltissimi dei quali personali, col meglio della cultura italiana (da
Palazzeschi a Sciascia, da Bellezza a Risi a Luisi) ne rendono il risultato più
genuino. Non rinuncia, chi parla d’amore, al nutrimento ricco delle fonti:
Sinisgalli o Jimenez, i tanti altri. Certo, il verso che scaturisce è nuovo
proprio perché quel fuoco non si
spegne mai. Ed è sempre nuova la parola: Ho
forgiato la Parola (Aspettando
l’incendio 22), ne ho fatto di parole
nuove di zecca (A imitazione di una
canzone pellerossa 39); ne ha individuato una prima (A comandare è un ragno
34) e ne inventa ancora altre (Donna di
poesia 51), perché lei, Matera/donna, deve essere, con queste parole, solo
sua! E non solo le parole. L’amore totale non ha paura, è una sfida continua.
Ed è attesa - sempre sempre - e possesso e gelosia: anche della Gravina (Attenta 88), del mare (Il mare vuole goderti 340), del vento
del cappotto del pittore del passante… E da essi - il poeta e Matera/donna -
anche Venere impara molte cose sull’amore
(Sapevo che ti avrei sognato 225).
Non c’è acqua che possa spegnere la fiamma.
Un precedente autorevole
- la postfazione alle Elegie materane di
Maria A. D’Agostino - mi mette al riparo da penosi additamenti se vengo a
sostenere che il Cantico dei cantici
è il precedente più illustre di Matera e
una donna, ovvero, al contrario, che Matera
e una donna ne è la derivazione più coerente. La D’Agostino, con sapiente
precisione, sottolineando affinità e distanze, si riferisce al Libro di Giobbe. E dunque, si vede, in
Dante Maffia i Sapienziali ritornano
e sono presenti (ma, vivaddio, siamo certi che non incocceremo mai nel richiamo
al disperato, seppure iniziale, lamento di Qohèlet).
Non vi è pezzo, nel suo autonomo sciogliersi, che non ricordi quel Cantico
immenso, dal desiderio d’amore alle investigazioni, alla visione amorosa etc. (tra le altre, v/ Portami all’asilo 276). E naturalmente,
qui come lì, l’amore vince, è più forte di ogni cosa. Solo, in Maffia, non c’è
allegoria, se siamo forti da non credere che l’uomo e la città/donna si
uniscono secondo il disegno di un creatore. Qui è tutto molto terreno (ma anche
lì lo era): di un terreno umano che trova soddisfazione nel sé, nella visione,
onirica quanto si desideri, ma di pietra e palpiti delle vene, che per farsi
reale non ha bisogno di scontrarsi contro le irragionevoli leggi del divino. Qui è il rapporto con l’umano che
ormai e soltanto vale. Non importa più che dio si sia fatto uomo per sempre. È l’uomo/poeta che
conta: egli parla attraverso la pietra, il non colore. Le immagini in bianco e
nero dei sassi di Matera dei versi, e negli scatti silenti ma loquaci di Elio
Scarciglia, lo mostrano, l’uomo, quasi mai, e, le poche volte, nella sua
rappresentazione scultorea o pittorica, e comunque silenzioso e ricettivo.
Eppure egli è tutto nella poesia di Maffia. È umanità tacita e laboriosa, la
cui opera e il cui cuore trasudano da ogni pietra e diventano godimento
dell’occhio e della mente, in una Matera/sogno/realtà che fa tutt’uno col cuore
del poeta: si accuccia nel mio cuore
(Matera la poesia 378). Quella Matera
che - come gli dice l’immenso Francesco - così adora: neanche un minuto ti abbandono, se ti vivo senza il minimo di tregua
negli occhi e dentro il cuore (A
Roseto dal caffè sali sull’onde 110).
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