[TECLA PAOLICELLI, Il posto dell’anima, Muro Leccese, Edizioni AGF, 2004, pp. 189]
di Dante Maffia
Soltanto chi non ha radici, chi non ha
identità culturale e sociale non potrà entrare nella magia di questo romanzo
intitolato Il posto dell’anima e
scritto con l’anima.
Da letterato fradicio la prima cosa a cui
ho pensato sono stati i modelli ai quali, idealmente, Tecla Paolicelli si è
rifatta, ma non ho trovato se non appigli vaghi, non so Conversazione in Sicilia di Vittorini, delle pagine di Marotta, di
Alvaro, di Silone, ma si tratta di apparentamenti forzati, perché la scrittrice
ha coinvolto soprattutto se stessa, la sua infanzia, mettendosi in gioco e, in
prima persona, delegando a un uomo quel “ritorno”! alle radici e al paese
dell’infanzia che viene descritto con un calore davvero fuori dal comune.
Cenzino manca dalla sua terra da
trent’anni. A Genova è diventato un industriale, addirittura Presidente delle
acciaierie, e torna nel Tavoliere, sulle rive del fiume Ofanto, con
l’intenzione di impiantare lì una fabbrica, ma subito cozza con le antiche idee
del vecchio amico Salvatore, coi suoi rituali familiari, con la radicata
visione di un mondo rimasto identico negli anni, e i cui valori umani non sono
cambiati. Cenzino è arrivato al paese con una fuoriserie, alloggia all’albergo
e cammina per i luoghi che l’hanno visto nascere come a volersene
riappropriare, ma con la nuova mentalità dell’imprenditore. Odori, sapori,
immagini sbiadite del passato, incontri con dei vecchi che scandiscono visivamente
ed emotivamente il quadro della situazione in atto, lo portano a meditare, con
alti e bassi, sul senso del suo ritorno.
Il romanzo non è altro che uno scontro tra
il vecchio e il nuovo, tra la religione dei padri e l’indolenza e il credo nel
progresso dei figli. Ma dinanzi allo spettacolo della natura, al fiume che
mostra la sua umanità, alla campagna che sembra avere il cuore meraviglioso del
senso profondo del vivere, i progetti di Cenzino, che deve passare attraverso i
sospetti e una lite col suo migliore amico per sentire lo spreco delle sue
idee, lo sbaglio di quel che vorrebbe fare, naufragano e ritorna in lui
l’incanto dell’infanzia, il calore umano di una civiltà con una sua identità
mai perduta e ancora capace di essere presenza vitale.
Niente più dunque fabbrica d’acciaio per
avvilire, anche se avrebbe dato posti di lavoro, il paradiso del Tavoliere e la
poesia silenziosa dell’Ofanto, ma fabbrica di vino, quello che Salvatore sa
fare da sempre, genuino, denso del sapore delle viti alimentate dal sole e
dall’aria ancora vivibile e pulita.
Una favola, direbbe qualcuno, una favola
però che deve fare meditare a lungo sullo sfacelo che si è fatto e si vorrebbe
continuare a fare cambiando i connotati a una terra la cui vocazione è lontana
da quella del triangolo industriale. Una favola comunque che risulta
affascinante grazie al garbo della scrittrice che va dritto al sodo delle
situazioni, che non adorna di nostalgia il racconto e mostra, con naturalezza,
ogni cosa nel suo alveo quotidiano.
Tecla Paolicelli riesce a dare corpo a una
vicenda che si è ripetuta e si ripeterà ogni volta che qualcuno, per scelta o
per obbligo, sarà costretto ad emigrare portandosi dietro i lari e i sentimenti
ancestrali che hanno popolato i primi anni di vita. C’è un momento in cui
sembra che l’uomo abbia bisogno di conoscere da dove viene, e allora ritorna
sui suoi passi e cerca di acciuffare il senso delle cose perdute, quella scia
sottile di bellezza che è la culla della tenerezza e del candore d’esistere.
Tutto ciò Tecla riesce a farcelo sentire nelle descrizioni che accennano e
sfumano, nella caratterizzazione dei protagonisti, nel dilemma in cui viene a
trovarsi Cenzino, nel fiato caldo della famiglia di Salvatore, di Nunziatina e
dei figli.
Eppure, lo si noti bene, Tecla non scrive
un romanzo neorealista, anche se la situazione in cui ci immette dal primo
istante ci indurrebbe a pensarlo; lei disegna e dipinge luoghi e persone con lo
spirito di recuperarle, di farne un album di memorie che possano fare intendere
quali siano i valori essenziali. E disegna e dipinge con mano libera, senza
sottostare a nessuna regola, senza stare a preoccuparsi di piacere o dispiacere
al lettore, in piena autonomia creativa.
Siamo quindi davanti a una narratrice
sorgiva, aperta interamente al senso dell’umano, lontana dall’utilizzare
effetti che avrebbero potuto dare alle pagine maggiore adesione al fattore
letterario. Ma la ragione di tutto ciò è semplice e visibile a chiunque si
sappia accostare a Il posto dell’anima.
Tecla ha voluto che parlassero i sentimenti profondi e le emozioni genuine
della sua terra, che, insomma parlasse la vita. Ha ragione Francesco Bellino,
“Questo romanzo traduce in modo efficace e saggio la profonda e generosa
filosofia di vita del mondo contadino e del Tavoliere” facendoci riassaporare
un pezzo di storia che ancora mostra tanti strascichi, ovviamente mutati dal
tempo, ma sempre molto problematici e a volte dilanianti.