Libro, a un tempo, duro, forte e teso con nel fondo una tenerezza infinita, un sentimento alto radicato nei valori della vita, meglio del sangue, proprio come direbbero i vecchi della mia Calabria che quando vogliono sottolineare un legame autentico e duraturo fanno ricorso alla parola sangue.
Un libro anche di devozioni e di agnizioni, che vedono la
poetessa prendere coscienza del suo
ruolo di madre e di donna che riconosce i valori dell’appartenenza e ne fa un
vangelo (“Nessun tralcio / nasce sciolto dal suo tronco), ne fa il viaggio per
sé, quasi come ripetizione del vissuto, ma soprattutto della sua creatura che
via via prende atto d’esistere e diventa essenza del divenire.
Non è casuale che Zingonia Zingone, al suo sesto libro di
poesia, metta una citazione di Rabindranath Tagore, infatti ella “è celata” nel
cuore delle cose fino a organizzare il volume come il percorso che farebbe un
agricoltore a cominciare dalla terra vergine fino al raccolto e al chicco. Sì,
si tratta di un viaggio (dietro la visione di Zingonia c’è la protezione di
Dante Alighieri e del Vangelo) che vuole scoprire il senso del vivere,
soprattutto il senso dell’Amore, che vuole rendersi conto perché “L’albero
eterno / ha le radici in cielo / e i rami in terra”.
Non è una trovata, un effetto surreale, ma la convinzione che
non vi sia nessuna frattura tra cielo e terra, che la “rinnovata maternità” non
è una finzione, ma un vero e proprio parto anche se avvenuto soltanto dentro
l’anima.
Non nascondo che leggendo e rileggendo “Viaggio del sangue”
sono rimasto sconvolto e come defraudato di qualcosa che ancora non riesco a
capire in che consiste. La poetessa, con una chiarezza che ci riporta ai
classici greci e alle tensioni e alle inquietudini di poeti come la Dickinson,
come la Marina Cvetaeva, come la Marianna Moore, in una maniera tutta sua,
denudandosi, offrendosi in olocausto senza tuttavia scendere mai a patti, come
accade quando dice “Mi capita a volte di estraniarmi/ come se le mie azioni/
non mi appartenessero / come se non fossi io / quella che circola per strada
nel mio corpo” conclude che è come se vedesse il mondo “che cresce / attraverso
il mio agire”.
Un dettato poetico raro, di una intensità che non è facile
raggiungere, di una sintesi che comunque non trascura i particolari e riesce a
darci il quadro di un amore che si fa battesimo quotidiano, si fa accettazione
dell’ “infanzia eterna / che è l’amore”.
Ma, al di là delle singole composizioni questo libro mi ha
affascinato per la tenuta, avrebbe detto Benedetto Croce, per la compattezza
stilistica e la qualità linguistica che riescono a esprimere concetti ed
emozioni coi fremiti veri di un approdo.
Il tutto oscillando tra una terrestrità suadente e mai
nascosta e una spiritualità, che, come tutte le spiritualità vissute con
ardore, ha fioriture carnali, accensioni miracolose, a volte anche con
tentazioni mistiche.
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