venerdì 25 settembre 2020

STEFANO VINCIERI, Preludio al silenzio – suite, Valigie Rosse, 2020, pp. 116 - di Dante MAFFIA

La prima sensazione che resta addosso dopo la lettura di “Preludio al silenzio” è quella di avere attraversato un campo minato saltando in fretta e affidandosi alla sorte. Un rischio calcolato, che tuttavia illumina e corrobora la sensazione di disagio che la lettura offre: dapprima un disagio indistinto, poi via via rumoroso e scomodo, perché scacciati da se stessi, avviati a compromettersi con la precarietà.

Ma un libro di poesia non si legge affidandosi solo alle sensazioni o alla valutazione di quel qualcosa che circola nelle parole e va trovando casa, ricetto; si legge soprattutto andando incontro alla sfida che pone in atto, al corpo a corpo che vuole instaurare col lettore per vedere se sarà possibile mettersi alla pari del senso che fugge e ricavarne una indicazione.

Ma andiamo con ordine, cerchiamo innanzi tutto di capire in che consiste questo “Preludio al silenzio”, la sostanza di cui è fatto, visto che si sta cercando, com’è detto nell’incipit: “Freme. / Poi si volta, si cerca”.  E così comincia una sorta di galoppata che si snoda attraverso un andirivieni di momenti che sono vere e proprie pennellate di fermenti, e non ha importanza che si disperdano agli occhi degli estranei, l’importante è che “Nessuno vede” e che sia stata scalata “la giornata”.

Importante il “Nessuno vede”, che nessuno s’accorga di quel che sta accadendo e che la “Sparizione”, come sostiene Paolo Maccari nel suo meraviglioso e illuminante risvolto, coincida “con la prospettiva della morte”.

Ecco, è la morte che sta in agguato in ogni pagina, che sorveglia, che non permette di uscire dai luoghi comuni e dunque bisogna esorcizzarne la presenza oppure creare un’alternativa, almeno momentanea, che sia capace di traghettarci oltre i divieti disseminati lungo il giorno, oltre le barriere di quel silenzio che  si è vestito di musica ma che è pronto ad azzannare, a sfrangere in dissolvenza tutto?

“Porca miseria, / ci sarà pure qualcosa / che abbia il potere di stupirmi, / di farmi volare via. / Cercando, cercando bene / la si trova: / è l’odore della mia morte, la mia”.

Si badi che il poeta non dice “è la puzza della mia morte”, ma l’odore, quindi non si pone contro, anzi la vive, ho scritto giusto, la vive giorno dopo giorno nell’attesa, tanto è vero che quattro poesie dopo troviamo “La dolce morte”, quasi una dichiarazione camusiana, comunque un’affermazione per portarci senza scossoni dentro lo squamare di situazioni che balenano come saette fino a “Maledizione, sto morendo, / volete lasciarmi in pace, pedio?”, un’oscillazione che si muove tra il riconoscere e il riconoscersi nella morte come approdo che forse svelerà misteri e oscuri nessi del vivere e una irritazione ragionata che intende sciogliere fuori da qualsiasi dilemma il problema.

Stefano Vincieri è molto bravo nel tessere e distessere, con minimi scatti e minimissime percezioni, i sussulti che arrivano da lontano, dalla voce del mistero, ecco perché spesso le immagini si reiterano o assumono fattezze che sembrano ripetizioni; ecco perché la parola si fa musica che si sminuzza e non si arrende e scava rasoterra per cercare di trovare una qualche via d’uscita.

Ma quale può essere una via d’uscita in un caso come questo? La musica, l’armonia, che però non deve farsi incanto, né sussurro malioso, ma un termine, se è possibile, fuor della vita, proprio come detta il titolo di un bellissimo libro di Luis Ferdinand Céline.

La seconda parte è una sorta di spoon river che però non spreca molti particolari, quasi che il dettato debba adeguarsi alla dimensione d’una lapide condensando, con tratti alla Salvador Dalì, l’anima ricordata.

Ma poi ritorna la morte, s’incunea negli spazi aperti dei versi quasi facendo una violenza non si sa bene a chi, forse a se stesso in preda al delirio dell’esserci senza quasi esserci, del consentire negando.

Una poesia che ha sfinimenti stilistici di irruenti palpiti quasi nascosti nelle fenditure delle parole, che ha dissapori e perfino sgarbatezze alla Gregory Corso.

La poesia ospitata a pagina settantacinque, intitolata “La grande guerra”, spiega abbastanza bene l’operazione che Stefano Vincieri ha voluto compiere. Lo ha fatto non solo con la assoluta libertà che è nel suo carattere, ma soprattutto scarnificando l’espressione, addossando a una due parole tutto il peso poetico da realizzare e a mio parere c’è riuscito alla grande, perché ”Preludio al silenzio”  s’incarna nel lettore, lo sconvolge e lo porta sulle rive del fiume Flegetonte.

O forse altrove, ma un altrove dove il poeta accoglie, come afferma ancora Maccari, “con pacata saggezza, ma anche con inesausta curiosità, lo stillicidio dei giorni e dei volti”.

 

 

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