La prima sensazione che resta addosso dopo la lettura di “Preludio al silenzio” è quella di avere attraversato un campo minato saltando in fretta e affidandosi alla sorte. Un rischio calcolato, che tuttavia illumina e corrobora la sensazione di disagio che la lettura offre: dapprima un disagio indistinto, poi via via rumoroso e scomodo, perché scacciati da se stessi, avviati a compromettersi con la precarietà.
Ma un libro di poesia non si
legge affidandosi solo alle sensazioni o alla valutazione di quel qualcosa che
circola nelle parole e va trovando casa, ricetto; si legge soprattutto andando
incontro alla sfida che pone in atto, al corpo a corpo che vuole instaurare col
lettore per vedere se sarà possibile mettersi alla pari del senso che fugge e
ricavarne una indicazione.
Ma andiamo con ordine,
cerchiamo innanzi tutto di capire in che consiste questo “Preludio al
silenzio”, la sostanza di cui è fatto, visto che si sta cercando, com’è detto
nell’incipit: “Freme. / Poi si volta, si cerca”. E così comincia una sorta di galoppata che si
snoda attraverso un andirivieni di momenti che sono vere e proprie pennellate
di fermenti, e non ha importanza che si disperdano agli occhi degli estranei,
l’importante è che “Nessuno vede” e che sia stata scalata “la giornata”.
Importante il “Nessuno vede”,
che nessuno s’accorga di quel che sta accadendo e che la “Sparizione”, come
sostiene Paolo Maccari nel suo meraviglioso e illuminante risvolto, coincida
“con la prospettiva della morte”.
Ecco, è la morte che sta in
agguato in ogni pagina, che sorveglia, che non permette di uscire dai luoghi
comuni e dunque bisogna esorcizzarne la presenza oppure creare un’alternativa,
almeno momentanea, che sia capace di traghettarci oltre i divieti disseminati
lungo il giorno, oltre le barriere di quel silenzio che si è vestito di musica ma che è pronto ad
azzannare, a sfrangere in dissolvenza tutto?
“Porca miseria, / ci sarà pure
qualcosa / che abbia il potere di stupirmi, / di farmi volare via. / Cercando,
cercando bene / la si trova: / è l’odore della mia morte, la mia”.
Si badi che il poeta non dice
“è la puzza della mia morte”, ma l’odore, quindi non si pone contro, anzi la
vive, ho scritto giusto, la vive giorno dopo giorno nell’attesa, tanto è vero
che quattro poesie dopo troviamo “La dolce morte”, quasi una dichiarazione
camusiana, comunque un’affermazione per portarci senza scossoni dentro lo
squamare di situazioni che balenano come saette fino a “Maledizione, sto
morendo, / volete lasciarmi in pace, pedio?”, un’oscillazione che si muove tra
il riconoscere e il riconoscersi nella morte come approdo che forse svelerà
misteri e oscuri nessi del vivere e una irritazione ragionata che intende
sciogliere fuori da qualsiasi dilemma il problema.
Stefano Vincieri è molto bravo
nel tessere e distessere, con minimi scatti e minimissime percezioni, i
sussulti che arrivano da lontano, dalla voce del mistero, ecco perché spesso le
immagini si reiterano o assumono fattezze che sembrano ripetizioni; ecco perché
la parola si fa musica che si sminuzza e non si arrende e scava rasoterra per
cercare di trovare una qualche via d’uscita.
Ma quale può essere una via
d’uscita in un caso come questo? La musica, l’armonia, che però non deve farsi
incanto, né sussurro malioso, ma un termine, se è possibile, fuor della vita,
proprio come detta il titolo di un bellissimo libro di Luis Ferdinand Céline.
La seconda parte è una sorta
di spoon river che però non spreca molti particolari, quasi che il dettato
debba adeguarsi alla dimensione d’una lapide condensando, con tratti alla
Salvador Dalì, l’anima ricordata.
Ma poi ritorna la morte,
s’incunea negli spazi aperti dei versi quasi facendo una violenza non si sa
bene a chi, forse a se stesso in preda al delirio dell’esserci senza quasi
esserci, del consentire negando.
Una poesia che ha sfinimenti
stilistici di irruenti palpiti quasi nascosti nelle fenditure delle parole, che
ha dissapori e perfino sgarbatezze alla Gregory Corso.
La poesia ospitata a pagina
settantacinque, intitolata “La grande guerra”, spiega abbastanza bene
l’operazione che Stefano Vincieri ha voluto compiere. Lo ha fatto non solo con
la assoluta libertà che è nel suo carattere, ma soprattutto scarnificando
l’espressione, addossando a una due parole tutto il peso poetico da realizzare
e a mio parere c’è riuscito alla grande, perché ”Preludio al silenzio” s’incarna nel lettore, lo sconvolge e lo porta
sulle rive del fiume Flegetonte.
O forse altrove, ma un altrove
dove il poeta accoglie, come afferma ancora Maccari, “con pacata saggezza, ma
anche con inesausta curiosità, lo stillicidio dei giorni e dei volti”.
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