ROCCO PATERNOSTRO
IRONICA
DISSACRAZIONE E ATOMISMO NARRATIVO IN SAN
BETTINO CRAXI E ALTRI RACCONTI DI DANTE MAFFIA
A chi si accinga a leggere un'opera letteraria si
pone imperiosa la necessità di sciogliere un nodo; ovvero si pone la necessità di
dover scegliere tra due possibili modi di lettura.
Il primo si richiama al campo della scienza con le
proposte suggestive di Feyrabend che, dall'iniziale adesione al razionalismo
critico di Popper, si fa in seguito teorizzatore di un'anarchia metodologica,
secondo la quale "qualsiasi cosa va bene", in quanto - a suo parere - la scienza non ha metodi,
proprio perché essa si fonda sull'inventiva, in base alla quale lo scienziato
riesce, di volta in volta, a risolvere i problemi escogitando teorie adatte. In
tal senso, il grande filosofo viennese finisce per paragonare l'attività della
ricerca scientifica, per l'inventiva che essa racchiude e per la pluralità di
"stili" di lavoro che consente, alla creatività dell'artista.
Il secondo modo di lettura, pur non escludendo del
tutto, proprio per il richiamo alla creatività dell'artista, il primo, finisce
sostanzialmente con l'ammettere la necessità di un metodo che sappia e debba portare il lettore a
cogliere innanzi tutto il reale significato di un testo letterario, per
giungere infine alla formulazione di un giudizio di valore.
E’ questa la strada indicata da Eric D. Hirsch, e
non solo da lui, come cercherò di dimostrare. Questi, alla fine degli anni ’60
del secolo scorso, in un suo famoso studio sull’interpretazione dal titolo Teoria dell’interpretazione e critica
letteraria, in polemica con la critica americana del suo tempo, il New
Criticism, propone un metodo d'indagine che sappia cogliere, attraverso quella
che egli definisce la validazione
oggettiva, il vero significato di un'opera letteraria; ovvero dimostra
che un’interpretazione dei testi, ricognitiva del significato dell’autore, è
l’unica valida portatrice di conoscenza oggettiva. Così, servendosi di concetti
mutuati da Husserl (intenzionalità), Saussure (condivisibilità inerente ai
segni linguistici) e, infine, dalla tradizione ermeneutica tedesca, da
Schleiermacher a Dilthey per intenderci, (funzione indispensabile delle idee
tipiche e generiche nella comunicazione: distinzione interpretazione-critica),
sostiene l’assoluta impossibilità di prescindere dall’autore, in quanto
soggetto determinatore di significati, arrivando quindi a distinguere
sottilmente tra significato e significanza, ovvero tra ciò che
realmente l'artista vuole comunicare con la sua opera e il giudizio di valore
che il critico esprime sull'opera solo dopo averne colto il suo reale
significato. Insomma, per Hirsch è necessario prima comprendere, con
un'accurata analisi scientifico-filologica, il reale significato di un'opera e
poi, solo dopo questo svelamento di verità, esercitare il giudizio di valore,
l'atto proprio della critica. Ciò è come dire recuperare la verità del testo e coniugarla con
la dimostrabilità, per
trasferire nel campo della critica letteraria il teorema di Kurt Gödel, considerato
-come è stato scritto-, nel campo della logica, "l'analogo contemporaneo
di Aristotele".
Ma anche è, a ben vedere e per altra via, quanto già
nel 1936 con la Poetica del
Decadentismo e più tardi, negli anni '60 del secolo scorso, in un
fortunatissimo volumetto metodologico, nel tempo più volte ampliato, dal titolo
Critica, poetica, storia letteraria,
Walter Binni ha sostenuto a proposito della necessità, nel campo della critica,
di superare i limiti propri di una pretesa definitoria e onnicomprensiva di chi
legge un'opera alla luce di un'estetica, di una qualsivoglia estetica, anziché
di ricondurla alla necessità personale-storica dell'autore, ovvero al suo
rapporto inscindibile e privilegiato con la propria poetica. Dove il concetto
di poetica è un concetto in divenire, in continuo fieri, attento ad ogni pur minima variazione di gusto, di
sentimento, di cultura, di morale, di etica, etc, vissuta dall'autore in
rapporto al suo tempo, e che presuppone -come sottolinea Mario Costanzo- sempre
e comunque da parte del critico- lettore, proprio per questo continuo divenire
del poeta, una grande capacità di ascolto. Ascolto e predisposizione a saper
cogliere, con l'ausilio della filologia, i sussulti, i cambiamenti minimi o
macroscopici che un autore può apportare nel tempo alla sua propria originaria
poetica.
Da tale capacità di ascolto, lungo l'asse della
lettura-comprensione-interpretazione-valutazione, si origina e si conclude il
processo critico vero e proprio, al termine del quale - lo tengo a ribadire -
mediante la lettura, si realizza quella che con felice formula, Costanzo
definisce poetica del duale, ossia
prima l'incontro e poi la sintesi-fusione e della poetica dello scrittore e
della poetica del lettore, che, in quanto tale, non appartiene più né
all'autore, né al suo esegeta, essendo, nell'incontro, divenuta una cosa altra, e che, fondandosi sull'esercizio
della lettura-comprensione-interpretazione-valutazione, finisce - a mio parere
- con il realizzare, perfezionandola, la valutazione oggettiva propria della
critica di cui parla Hirsch, sintetizzando appunto mirabilmente e il significato e la significanza.
Se, come detto, quanto suggerito a livello
metodologico-critico dallo studioso Nord-Americano si trova mirabilmente e più
compiutamente espresso nel concetto di poetica come teorizzato da Binni e come
perfezionato da Costanzo, a me altra strada maestra, al di fuori di questa, non
resta per analizzare e offrire, con un'operazione mercuriale, a voi potenziali
lettori questa ultima fatica di Dante Maffia dal titolo accattivante e insieme
provocatorio, San Bettino Craxi e altri
racconti. Con una precisazione necessaria, però, che vuole e deve essere, ancora
una volta, una precisazione critico-metodologica.
Se è vero che la poetica ha il suo statuto nel suo
continuo divenire, nel suo precisarsi, modificarsi e/o rinnovarsi nel tempo,
allora si avrà come diretta conseguenza che, studiando un autore - e tanto più
se si tratta di un autore dalla capacità prodigiosa di lettura e di scrittura
quale è Maffia- si potrà definire la sua poetica nella sua compiutezza solo a
termine della sua attività creativa, in quanto a questa compiuta definizione lo
scrittore giungerà per gradi, attraverso momenti storico-culturali,
politico-economici, etico-morali, artistico-estetici e di gusto che,
testimoniando di momenti particolari di un lungo processo evolutivo e/o
involutivo, per fragmenta, per scarti
o per piccole modifiche nella continuità, diverranno poetiche che, commutandosi
di volta in volta in singole opere d'arte, saranno i singoli elementi che nel
tempo significheranno il processo faticoso di correzioni, di ripensamenti, di
aggiustamenti che sottintendono alla composizione-configurazione della sua
poetica definitiva.
Tale precisazione d'ordine metodologico-critico per
significare che questo ultimo testo di Dante Maffia deve essere letto come il
tassello, o meglio, uno dei tasselli, ascrivibili a un particolare periodo
storico della sua attività creatrice, di un più vasto e complesso suo concetto
di poetica ancora in progress e
quindi non ancora codificabile nella sua compiuta interezza, e che qui si
configura come poetica dell'ironica dissacrazione, fondata su quello che, a
livello di metodo, mi piace chiamare “atomismo narrativo”. Si badi, non a
torto, riferendomi a San Bettino Craxi e
altri racconti, ho definito volutamente quest'ultima operazione di
Dante Maffia, genericamente come testo,
andando con ciò, in un certo qual senso, persino contro la stessa indicazione
che Dante ha voluto darci, là dove egli, nel titolo, ci tiene a specificare che
si tratta di una raccolta di racconti. É vero quello che Maffia ci dice? Oppure
egli è volutamente un abile divulgatore di menzogna? Ovvero, mente sapendo di
mentire? Se l'arte - come qualcuno sostiene, e non solo da oggi- è spesso anche
menzogna, allora Maffia è fuor di dubbio un grande artista che intende la
scrittura come gioco, diversamente
però, e occorre sottolinearlo, da Ludwig Wittgestein. Del Wittgestein sia del Libro blu, in cui il gioco linguistico è
concepito come secondario rispetto al significato delle parole, sia del Libro marrone, in cui il filosofo
viennese formula la tesi, poi pienamente sviluppata nelle Ricerche filosofiche, secondo cui l'apprendimento del gioco
linguistico è preliminare alla comprensione dei significati delle parole. In
Maffia, al contrario, il gioco linguistico è speculare dei significati delle
parole, ed è strettamente connesso all'ironia di cui parla il giovane Lukàcs di
Teoria del romanzo, dove l'ironia è
la prerogativa del romanziere, allorché egli solo è consapevole che il suo
personaggio, che è un eroe problematico alla ricerca di valori autentici in una
società degradata, mai raggiungerà quei valori positivi scomparsi dal mondo e
disperatamente cercati.
Al contrario, la ricerca dell'eroe creato da Maffia
in questo suo testo, Leonida, mi sembra non rivestirsi dei panni della
inutilità. Leonida è si un eroe problematico, ma certamente non demoniaco al
contrario degli eroi di cui parla Lukàcs; mentre l'ironia di Maffia qui
presente non è la stessa ironia disperata e disperante di cui parla il grande
filosofo e critico ungherese, al contrario è un'ironia sì dissacratoria, ma
caratterizzata dalla bonomia, perché rischiarata e guidata dalla fiducia che
Dante nutre nel destino dell'uomo e che trasferisce nel suo eroe, la cui lotta
contro l'aridità dei sentimenti, contro l'egoismo e il vuoto nulla del puro
apparire, nonché contro l'esterofobia, in una parola, contro la non-umanità
della modernità, non si configura mai come lotta vana, inutile.
A tale negatività della modernità, Leonida oppone la
sua fiducia nei valori dell'amore, dell'amicizia, dell'onestà, il suo rifiuto
della meschinità e delle piccolezze del mondo; mentre in modo speculare al
vuoto dell'essere e del puro apparire lo scrittore Maffia oppone la sua fiducia
nell'arte e nella fantasia, ovvero la sua forza di sapere e volere ancora
raccontare e scrivere fiabe, di volere e sapere ancora vivere il proprio tempo
con spirito critico e, quindi, sapere guardare al passato non con improduttiva
nostalgia, bensì con realistica consapevolezza, perché il passato è l'anello
ormai dimenticato, nella sua positività, dalla modernità, la quale, per questo
motivo, non è rifiutata, espunta, ma guardata con ironica, bonaria
dissacrazione. Ironica dissacrazione che deriva a Maffia proprio dalla capacità
che egli ha di saper giocare con le parole, di saper creare, alcune volte,
anche menzogne, consapevole che questa è la via con cui si esprime e si
raggiunge l'arte, anche se questa per lui vuole essere ed è sempre segno di
verità, senza però scadere nell'episodico, monco descrittivismo di un vetero,
superato naturalismo, là dove la menzogna altro non è che la sua metafora più
compiuta e complessa di sé stesso, essendo Leonida da un lato un costui determinato
e rivestito dei panni di Maffia e insieme il trasferimento e la
rappresentazione di altri costui positivi, invero pochi, dei nostri tempi. Il
tutto mirabilmente fuso in un unicum organico dalla grande capacità
narrativa di Dante che raggiunge, in questi testi, la levigatezza della parola,
la compostezza del discorso, la limpidezza della forma, spogliata e purificata
dalla pesantezza e dall'oscurità per assumere e raggiungere la forma della
leggerezza, così come teorizzata da Calvino delle Lezioni americane, sino a innalzarsi ai vertici del sublime, che è la cifra caratterizzante
dell'arte di Maffia e quindi della sua scrittura - come, del resto, ho avuto
già modo di scrivere in altra sede - dove sovrano predomina il candore e la
lucentezza immacolata del bianco che promana dalla pagina, grazie ad un
indefesso lavoro di limatura mirante a sottrarre da essa peso e oscurità.
Leonida, dunque, la metafora più compiuta e
complessa dello scrittore Maffia, diviene il personaggio-individuo, il costui
che si fa interprete e insieme severo critico delle variegate sfaccettature
dell'uomo moderno, ergendosi a eroe contro la decadenza dei tempi odierni, così
come Leonida, l'eroe spartano, seppe innalzarsi a strenuo difensore della
libertà e quindi dei valori di umanità, di pensiero, di civiltà della Grecia,
minacciata dall'invasione e dalle mire espansionistiche dei Persiani.
Il tutto sostenuto da e fondato su
una narrazione che in questo testo si configura come una sorta di
"atomismo narrativo" che tanto richiama alla mente "l'atomismo
logico" di Russel, di cui ha lo stesso spirito, la stessa sostanza, là
dove Maffia rivendica l'importanza dell'analisi non solo come strumento
d'indagine filosofica, morale, etica, ma anche e soprattutto artistica, (in
cui, si badi bene, un ruolo fondamentale lo gioca e lo esercita sempre e
comunque la fantasia), contro la svalutazione e/o la negazione di essa, messa
in atto da quegli scrittori, fautori di una scrittura "monistica",
secondo cui la molteplicità apparente del mondo è costituita e quindi si può
rappresentare soltanto da fasi e da suddivisioni irreali di una singola realtà
narrativa indivisibile, penso, per esempio, alla Aleramo, a Moravia, a Calvino,
a Tondelli, solo per fare alcuni nomi. A questa scrittura “ monistica”, Maffia,
con questo suo testo, così come Russel aveva fatto sul piano logico, oppone il
suo atomismo narrativo che risulta invece coerente con la convinzione comune
che ci siano molte cose distinte che, in termini tecno-scientifici, Russel
chiama atomi e che qui, in San Bettino
Craxi e altri racconti, diventano atomi di esistenza e quindi di
narrazione: l'amore, l'erotismo, la politica, il quartiere, il rapporto
padre-figlia, il viaggio, la malattia, la fanciullezza.
E se per Russel la specificità sta nel fatto che gli
atomi di cui egli parla sono logici e non fisici, per Maffia tale specificità
sta nel fatto che, in questo testo, gli atomi non sono né logici, né fisici, ma
fondamentalmente ed essenzialmente narrativi. In tal senso mi sembra debbano
essere letti i 65 testi narrativi che compongono San Bettino Craxi e altri racconti, cui unità organica di
composizione e di narrazione viene data appunto da Leonida, il personaggio
chiave e onnipresente di questa nuova, originalissima forma di romanzo cui
Maffia dà vita, non so se consapevolmente o no, e che mi piace chiamare romanzo a quadri, originato da un processo memorativo del personaggio
Leonida che poi altri non è - come ho già detto - che lo stesso autore, il
quale cercando di ingannare il lettore sul genere delle sua opera e guardandolo
dall'alto della sua ironia-bonomia, invece di dar vita a un personaggio
pronominale in prima persona o autodiegetico, preferisce nascondersi dietro un
personaggio nominale, Leonida appunto, metafora della sua menzogna, proprio
perché il punto di vista di Leonida è il punto di vista di Maffia, dando vita
nel romanzo a una visione, a un punto di vista, che i teorici della
narratologia definiscono visione con,
e altresì realizzando una narrazione in 3° persona.
Un romanzo a
quadri, dunque, che si esempla e si struttura sul modello di una grande
biblioteca della memoria da cui Maffia-Leonida
estrae di volta in volta il libro che gli serve, ovvero aspetti e momenti del
suo vissuto passato e presente, rappresentato e narrato, nella sua variegata e
articolata determinazione, nei 65 testi-capitoli che lo compongono,ognuno dei
quali in sé compiuto e definito nella sua autonomia narrativa.
Un romanzo a
quadri che è speculare, come costruzione e tessitura, e non poteva essere
diversamente, della contemporaneità, o meglio della struttura
razionale-conoscitiva prodotta nel nostro tempo dall'affermarsi dell'uso del
computer, organizzato e strutturato nella sua memoria in una serie di
suddivisioni fatte di finestre, cartelle, link, etc, cui secondo la necessità
si può accedere con un semplice clic del mouse. Romanzo a quadri che, per questa sua particolare logica e insieme
snella strutturazione, mi sembra convalidare quanto il nostro Francesco De
Sanctis ebbe a sostenere, in polemica con Hegel circa la morte dell'arte,
allorché mirabilmente distingueva tra Forma con la F maiuscola e forma con la f
minuscola, affermando che la Forma, ovvero l'arte, non muore, perché a morire
sono le forme con cui appunto l'arte si incarna e si manifesta nel tempo. E
questo di Maffia è un romanzo a quadri,
quale nuova forma della contemporaneità, e quindi quale modificazione del
genere romanzo, in cui il tempo e lo spazio sono simultanei, coincidenti con la
narrazione, a essa coevi e non, al contrario, agli avvenimenti narrati, i
quali, per questa loro natura, non hanno un andamento lineare in progress, ma sono narrati in un
continuo presente (tranne alcuni episodi come quello de Il ‘68, o l'altro di Avere delle sorelle, nel quale ultimo
vengono fissati i giorni e i mesi della vicenda narrata) e inseriti in uno
spazio non più fatto luogo concreto, anche se, in alcuni casi, il narratore fa
riferimento esplicito al quartiere, alla via, alle città di Roma, New York, o
ai luoghi della sua infanzia quale Roseto Capo Spulico in Calabria, vissuti e
ricordati come mito e sogno perduto. Ciò avviene proprio perché, per servirmi
di una categoria estetico-interpretativa di Bachtin mutuata da questi da
Einstein, il crònotopo, ovvero la unione di tempo-spazio che qui si genera,
essendo informata dal tempo che, come ho detto, è un continuo presente, non è e
non può essere un luogo fisico specifico, in quanto esso va ritrovato nella
memoria. La memoria tutto possiede, in
essa tempo e spazio si armonizzano e in essa vivono di vita propria, simultaneamente,
quei luoghi e quei tempi che, con un prodigioso esercizio di mnemonautica, di
navigazione nelle acque opalescenti della memoria, vengono estrapolati,
trascritti e quindi narrati con maestria di sfumature, di suggestioni, di
suoni, di colori, di linguaggio da Maffia, in cui la parola si purifica della
sua pesantezza e della sua gravità, ovvero della sua oscurità, persino quando
essa è ingiuriosa, oscena, in quanto alla parola e quindi al discorso Dante è
legato da un atto d'amore totale, onnicomprensivo, vorace, oserei dire persino
erotico. Che poi, a ben vedere, altro non è che l'atto d’amore, il possesso
erotico con cui egli non solo possiede fisicamente la parola, il discorso, ma
anche sublima sé stesso nella sua magica maestria affabulatoria, che è la cifra
artistico-estetica non solo di San
Bettino Craxi e altri racconti, ma dell'intera sua produzione artistica.
Questa, occorre sottolinearlo, è produzione artistica dotta, erudita, nella
quale confluiscono, rielaborate con voce propria e originale e in cui un posto
centrale lo gioca il ricorso alla fantasia, centinaia e centinaia di letture
che fanno di lui un intellettuale ascrivibile a ragione alla Weltliteratur.
A quella Weltliteratur
sognata e agognata e nella quale hanno creduto e per cui hanno combattuto, per
fare solo alcuni nomi, studiosi quali Auerbach ed il nostro Arturo Farinelli.
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