LUIGI TROCCOLI, Lettere dalla montagna in fiore, Castrovillari, Edizioni Prometeo, 2023, pag. 184, euro 10.
Di Dante MAFFIA
Due annotazioni immediate.
La prima: questo è un libro che tradotto in giapponese diventerebbe un best seller in poche settimane.
La seconda: Jorge Luis Borges ha sempre sostenuto che è molto più difficile scrivere un racconto anziché un romanzo.
A leggere questi racconti, ognuno dei quali ha un fiato meraviglioso e di rara bellezza, do piena ragione allo scrittore argentino.
Altra annotazione da fare: i racconti hanno una loro fisionomia unica, ben realizzata, eppure, sottilmente, sono anche capitoli di un percorso che Luigi Troccoli ha compiuto con un fiato unico. Raro esempio di una coerenza stilistica e tematica ormai quasi dimenticata dai nuovi narratori che spesso e volentieri mettono a cuocere argomenti che tra di loro non hanno nessuna affinità.
Ancora. Si noti la ricchezza e la forbitezza del linguaggio e poi delle citazioni a dimostrazione di un interesse di Troccoli che non è soltanto d’amore per i luoghi, ma anche di cultura che illumina le ragioni del mondo vegetale, della montagna, nella sua estensione e nella sua bellezza.
Da Carlo Darwin a John Ruskin, da Mario Rigoni Stern a Tenore- Petagna – Terrone, da Johan Wolfgang Goethe a Marlen Haushofer, da Immanuel Kant a Francesco Petrarca, da Plinio a Ugo Foscolo, da Thomas Mann a Khalil Gibran, da Hermann Hesse a Lord Byron, da Jean Jacques Rousseau a Leonardo da Vinci, a Honoré de Balzac.
Un lungo elenco, lo so, ma necessario per far intendere come lo scrittore ha proceduto per rendere le pagine ricche di fiato naturale e di fiato culturale.
Ma andiamo ai racconti. Alla loro sostanza, alla loro bellezza, al loro modo di porsi.
Ovviamente, perché non risultasse un libro di meditazione alla maniera orientale, lo scrittore ha inserito, durante le passeggiate di Scilla e di Giorgio, degli avvenimenti, il vecchio di Viggianello che cerca la genziana e che chiama Egiziana, la presenza della pittrice (che poi sarà Scilla) che si perde nel bosco e che poi torna magicamente, la storia di Donna Maria, storia che nei libri di Mastriani è frequente ma che Troccoli ha saputo inserire nel contesto sociale con una abilità narrativa che la rende unica, il bacio… che ha il fiato della grande pittura, il pastorello Ianagio, storia di violenza e di tragica risoluzione… e poi la storia del Pino che ha qualcosa di divino e di assoluto, il grido della ferriera, l’abbaglio dell’oro, addirittura il Mare Piccolo che Troccoli risolve con genialità senza argomentare sulla contraddizione se non con una frase, il grido che soltanto Scilla sente, l’albero dell’Amore… quella pagina sublime in cui Giorgio e Scilla dialogano, a pag. 157:
“Che senti?” gli chiese Scilla, come al solito sempre prima nel tentare di prevenire una durata eccessiva dei silenzi, quasi che temesse l’insorgenza di un abulico, repentino e temuto distacco della sua attenzione verso di lei.
“E ti senti felice o incompleto?”
“Sono felice e incompleto. Felice perché non desidero niente di materiale che già non posseggo e niente di immateriale che vorrei raggiungere; incompleto, perché ti sento troppo distante, nonostante tu sia qui al mio fianco”.
“In questo momento -ella disse- mi sembra che noi e il mondo siamo senza peccati, come se il male non esistesse… Sto vivendo una condizione di purezza: tutto è puro su questo monte, attorno a noi e dentro di noi”.
Ho detto all’inizio che Troccoli ha percorso i vari racconti con un unico fiato e che addirittura potremmo configurare l’opera con il romanzo di Scilla e di Giorgio che ci mostrano la montagna in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue magie.
Ci sono descrizioni superbe, da prosa d’arte, che ci fanno sentire il palpito del paesaggio in tutti i risvolti, nei mutamenti sottili, nella frenesia dei colori e del silenzio, nel respiro divino che si apre e detta luce senza riserva.
Che dire? Il mio entusiasmo fa comprendere subito che si tratta di un vero capolavoro e di una guida sacra per chi volesse visitare il Pollino in tutte le sue diramazioni.
Troccoli non è nuovo a simili sorprese, ma con “Lettere dalla montagna in fiore” ha raggiunto un risultato davvero raro, un esito poetico convincente e così limpido da farmi pensare alla scrittura di Vincenzo Cardarelli.
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