mercoledì 23 settembre 2009

Quando muore un bambino

Quando muore un bambino
Giovanni Pistoia

Uomini, non alieni venuti da altri mondi; uomini, non bestie feroci a quattro zampe. Uomini. Uomini che furono bambini. Non so se tanto tempo fa, o appena da qualche anno. Certamente, un giorno, furono bambini. È probabile che anche loro, durante la loro tenera età, avranno giocato al pallone in un campetto di periferia. Avranno corso, fatto a gara con l’avversario in un campo, avranno gridato: “gool”. Si saranno abbracciati dalla gioia. Avranno sudato. E, poi, forse, saranno andati nelle proprie case, dai propri genitori. Chissà!

Bambini di ieri, divenuti, con il tempo, criminali. Uomini cresciuti chi sa dove, educati chi sa come, decisi, chi sa per quali motivi, a uccidere. E per uccidere il loro nemico (nemico chi sa di che cosa e per che cosa) hanno sparato nel mucchio. Quel mucchio erano bambini, bambini che giocavano a calcetto.

Quei bambini di ieri, divenuti assassini col tempo, hanno ferito tanti bambini di oggi. Ne hanno ferito gravemente uno, 11 anni, colpito con cinque, cinque colpi di pistola alla testa. Si chiamava Domenico, poteva chiamarsi Francesco, Saverio, Nicola… Un bambino è sempre un bambino, qualunque sia il suo nome, la nazionalità, il colore della pelle.

Quei bambini di ieri, divenuti criminali oggi, hanno sparato, in fondo, su loro stessi, sulla loro infanzia. Hanno ucciso se stessi. Certo, sono ancora vivi, possono ancora fare del male ad altri. Ma intanto sono dei morti dentro. Ma la società, lo Stato non possono né devono avere pietà. Gli assassini vanno consegnati alla giustizia. E chi è responsabile, deve avere il tempo di meditare per tutta la vita, per tutta la vita, del grave atto commesso. Deve essere messo in condizione di non nuocere più, perché nessuno ha il diritto di impedire a un bambino di crescere e di vivere. Nessuno.

Lo Stato! Questo nostro Stato! Questo nostro Stato che, giustamente, non prevede la pena di morte, non può permettere, però, che altri organismi, associazioni, bande, uomini, o altro, possano prevederla nei loro codici ed eseguirla con grande facilità.
Su ampi pezzi di questo territorio italiano, in particolare, nel nostro Mezzogiorno e, quindi, anche in questa regione, la Calabria, vere e proprie associazioni, chiamatele come volete, eseguono, quasi indisturbati, le loro sentenze qualunque esse siano sotto l’occhio disattento dello Stato. Certo, molte battaglie vengono vinte, tante brillanti operazioni vengono portate a buon fine ma, stranamente, queste associazioni sono sempre più numerose, più forti, più devastanti. Sono loro i veri padroni della Calabria. Lo Stato appare lontano, perché lo Stato è lontano.

I nostri mari sono una pattumiera di veleni, e sembra la cosa più normale di questo mondo. L’economia sana va sempre più a fondo, e sembra la cosa più normale di questo mondo. Settori importanti dell’economia, dei servizi sono nelle mani di associazioni che operano fuori da ogni legge, e sembra la cosa più normale di questo mondo.

Uccidono un bambino di undici anni, mentre gioca a calcetto, ed è la cosa più normale di questo mondo.

Quando muore un bambino non è mai festa in cielo. Quando muore ucciso un bambino, come è avvenuto in terra di Calabria, è l’infanzia tutta che viene colpita. È l’aurora di una regione che subisce una ferita che non guarisce. È il futuro che viene fermato. È il sole che viene ostacolato nel suo dispiegarsi verso un nuovo giorno.

Ognuno è chiamato a fare la sua parte. La famiglia, la scuola, lo Stato. Forse, in una situazione diversa quei bambini di ieri, criminali oggi, forse, potevano divenire uomini civili, brave persone, genitori affettuosi. Così non è stato. Ma lo Stato, lo Stato, oggi, oggi e non domani, deve dimostrare a tutti noi che esiste, che c’è, che sta dalla parte delle brave persone, che non ha niente a che fare con la criminalità ma che vuole davvero combatterla. E se davvero vuole combatterla questa criminalità, o comunque la vogliate chiamare, se davvero vuole stare da parte del bambino ucciso, allora dichiari guerra. Perché la guerra si fa almeno in due. E qui ci sono eserciti che fanno quello che vogliono, decisi, armati, e dall’altra parte c’è uno Stato quantomeno evanescente. Una guerra come questa non può essere affidata all’eroico comportamento di questo o quel carabiniere, di questo o quel magistrato. È lo Stato nel suo insieme che deve combatterla, se davvero vuole combatterla.

Lo Stato italiano è in Afghanistan per contribuire a portare in quella regione lontana pace e giustizia e libertà, ebbene in questa parte d’Italia si sappia che non ci sarà mai pace, mai giustizia e mai libertà fino a quando questa guerra non sarà davvero combattuta e vinta.

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