Dante
Maffia, presidente onorario dell’Associazione Italiana del Libro
Su
proposta del Consiglio Direttivo dell’Associazione, il poeta e narratore
italiano Dante
Maffia, fondatore di prestigiose riviste letterarie e straordinario promotore
di cultura, ha accettato la presidenza onoraria dell’Associazione Italiana del
Libro.
Dante
Maffia
Dante
Maffia è nato a Roseto Capo Spulico (Cosenza) il 17 gennaio 1946. Il
padre, Salvatore, piccolo commerciante del paese, scelse il nome del quarto
figlio (dopo Luigi, Antonio e Filomena) augurandosi che diventasse uno
scrittore. Trasferitosi a Roma ha esercitato vari mestieri per
sopravvivere e frequentare l’Università. Si è laureato con una tesi sulla
Presenza del Verga nella narrativa calabrese. Si è dedicato all’insegnamento e
alla ricerca nella cattedra di Letteratura Italiana dell’Università di Salerno
diretta da Luigi Reina.
È
poeta, narratore, saggista, critico d’arte e fondatore di riviste prestigiose
come “Il Policordo”, “Poetica” e “Polimnia”. Intensa la sua attività critica
sulle maggiori riviste italiane tra cui “Nuova Antologia”, “Il Veltro”, “Il
Belli”, “Idea”, “Poiesis”, “Fermenti”, “Poesia”, “Microprovincia”, “Hebenon”,
“La Fiera Letteraria”, “Il Giornale di Calabria”, “Il Mattino”, “La Voce”,
“Nuovi Argomenti”, “Il Cittadino”, “La Nazione”, “Paese Sera”, “Lunarionuovo”,
“Misure Critiche”, “La Rassegna Salentina”, “Otto/Novecento”.
È
stato corrispondente de “La Nacion” di Buenos Aires ; per anni ha curato la
rubrica dei libri per RAI 2 ed è redattore degli “Studi di Italianistica
nell’Africa Australe”.
Come
poeta fu segnalato, agli esordi, da Aldo Palazzeschi che ha firmato la
prefazione al suo primo volume, e da Leonardo Sciascia che con Dario
Bellezza ritiene Maffìa “uno dei più felici poeti dell’Italia moderna”. Ha
tradotto alcuni poeti dialettali calabresi per Garzanti e per Mondadori.
Il
Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel 2004 lo ha insignito di
Medaglia d’Oro per i suoi meriti culturali, insieme a Uto Ughi, Raffaele La
Capria, Piero Angela, Giuseppe Tornatore, Ermanno Olmi e Achille Bonito Oliva.
Oltre
ad Aldo Palazzeschi, hanno prefato i suoi libri Donato Valli, Enzo Mandruzzato,
Dario Bellezza, Mario Sansone, Carmelo Mezzasalma, Mario Luzi, Giulio Ferroni,
Marco Rossi,Giacinto Spagnoletti, Angelo Stella, Giuseppe Pontiggia, Mario
Specchio, Claudio Magris, Nelo Risi, Alberto Granese, Dacia Maraini, Gian Luigi
Nespoli, Silvana Folliero, Tommaso Romano, Carmelo Vera Saura, Tullio De Mauro,
Natalino Sapegno, Norberto Bobbio, Luigi Reina, Alberto Bevilacqua, Alberto
Moravia, Alberto Granese, Corrado Calabrò, Gianpaolo Rugarli, Alberto
Abbuonandi, Remo Bodei, Sergio Givone, Giuliano Manacorda.
Numerose
le traduzioni delle sue opere all’estero: in rumeno, inglese, francese,
spagnolo, russo, tedesco, portoghese, slovacco, macedone, svedese, sloveno,
bulgaro, greco, ungherese.
Per
una bibliografia ampia, ma non completa, si rimanda ai testi curati da Luigi
Troccoli, Omaggio
a Dante Maffìa, Castrovillari, 1978; da Gennaro Mercogliano, L’Odissea
nel mistero, Catania, 1984; da Rocco Salerno, Antico
e nuovo nella poesia di Maffìa, Roma, 1986; da Franco Di Carlo, Gli
opposti segni, Lecce, 1986; da Luigi Reina, La
poesia come azione e dizione, Roma, 1988; da Giuseppe De Marco, Mappa
dei poeti del Sud, Napoli, 1989; da Vincenzo Petrone, Lessico
del dialetto di Maffìa, Rossano, 1989; e dal recente studio complessivo di
Antonio Iacopetta.
Per i
libri editi ha ricevuto i premi: “Martina Franca”, “Palmi”, “Alfonso Gatto”,
“Tarquinia- Cardarelli”, “Calliope”, “Città di Firenze”, “Città di Venezia”,
“Trastevere”, “Pino d’Oro”, “Brutium”, “Rhegium Julii”, “Acireale”, “Lentini”,
“Lanciano”, “Città di Cariati”, “Circe-Sabaudia”, “Montale”, “Un ponte per
l’Europa”, “Vanvitelli”, “Insieme nell’Arte”, “Marineo”, “Anna Borra”,
“Contini-Bonacossi”, “D’Alessandro”, “Anco Marzio”, “Cirò Marina”, “Palmi”,
“Viareggio”, “Stresa”.
Gli
ultimi suoi lavori letterari sono: “La donna che parlava ai libri” e “San
Bettino Craxi ed altri racconti” edito da Edilet con prefazione di Alberto
Bevilacqua.
Per
avere notizie su Dante Maffia e la sua produzione letteraria consultare il sito
ufficiale dell'autore: Dante Maffia
La candidatura al Premio Nobel per la
Letteratura
Per
sostenere la candidatura di Dante Maffia al Premio Nobel per la Letteratura si
è costituito un apposito Comitato presieduto dallo scrittore Giovanni Pistoia,
al quale hanno dato la loro adesione diverse associazioni, con la seguente
motivazione: “Dante Maffia si è impegnato costantemente nella promozione della
cultura italiana attraverso pubblicazioni di romanzi, poesie, saggi e articoli,
affrontando le problematiche sociali più scottanti come l'immigrazione e gli
sbarchi clandestini, i manicomi, l'emigrazione, la disoccupazione e il disagio
nelle fabbriche. Ha anche posto l'attenzione su protagonisti della cultura di
tutti i tempi come Tommaso Campanella, Giosuè Carducci, Elias Canetti e
Yasunari Kawabata. Tradotto in quasi tutto il mondo, ha ricevuto moltissimi
premi per le sue opere e la medaglia d'Oro alla Cultura del Presidente della
Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi”.
Per
sostenere la candidatura consultare il sito Nobel a
Dante Maffia
Dante
Maffia. Il poeta tra le macerie del mondo
intervista
di Anna Manna
Io
non sono capace di intervistare Dante Maffia! La verità è questa! È inutile
mentirsi ad oltranza. Non ne sono capace. Ho provato mille volte, l’avvio
giusto, le domande indovinate, l’equilibro assicurato! L’equilibrio? Ma si
può cercare un poeta vero e restare in equilibrio? È proprio questo che
succede quando m’imbatto nei suoi versi. Traballo, perdo l’equilibrio,
incomincio a sentirmi timida. E Dante è un amico, dovrei sentirmi tranquilla e
sicura a parlare con lui. Amico da tanti anni, amico di altri
amici. Eppure perdo l’equilibrio. Non sono capace di studiarlo, di
analizzarlo, di porgere domande davanti ai suoi versi. Come un pittore
incapace di fermare il mare in movimento, come un flautista che non riesce ad
incantare il serpente.
Lui,
il poeta, spennella un po’ di rosa ciclamino (una delle sue immagini più
riuscite) e rende il mondo più fresco! Ecco Dante io ti invidio, invidio la tua
arte così naturale in te, così immediata. È inutile tentare di somigliarti, è
inutile tentare di catturare i tuoi meravigliosi congiuntivi. Allora voglio
provare ad intervistarti con questa invidia che mi rende fragile e questo
ammaliamento per la tua poesia che mi stupisce. Un lupo del verso! Abilissimo,
scattante e fiero.
C’è
una fierezza arcana, atavica nelle emozioni di Dante. Una dignità di
profondità e di silenzi rappresi, quando racconta di storie finite, di vite
trascorse e poi d’improvviso s’accende di nuovo il respiro del mondo in
un’immagine vivificante, fresca come i suoi ciclamini appena sbocciati.
Hai
scritto un libro indimenticabile La Biblioteca d’Alessandria, questo poeta
della Biblioteca d’Alessandria che sanguina perché vede lo sfacelo dei libri,
della cultura è completamente sincero. È questo il segreto, Dante, della tua
poesia: la sincerità totale?
Credo
che la sincerità totale dovrebbe essere il dato certo di tutta la poesia,
altrimenti si può fare soltanto della letteratura, magari raffinata e
suggestiva, ma priva di quel lievito umano, sociale, storico, lirico che serve
a rinnovare le fibre del mondo. Non basta la sincerità, ovviamente, per
scrivere versi che restino, che sappiano diventare misura e certezza dell’uomo,
ci vuole una totale complicità con l’argomento trattato, una sensibilità fuori
dal comune e una cultura che sappia fondere a fuoco lento le accensioni, le
vertigini che colgono il poeta quando “scopre” la dimensione nascosta della
realtà, le sue incognite e i suoi misteri. Chi crede che la poesia sia un
referto anonimo, la cronaca di un qualcosa, può produrre soltanto aridi
documenti, ma non scintille capaci di rendere eterni i momenti offerti.
Dante,
la poesia è un momento estremo? Riflette la sintesi dell’imbuto che scardina
gli equilibri di sempre? È il terremoto devastante di un’anima?
La
poesia è, insieme, tutte queste cose di cui tu parli, e molte altre. Mi sono
divertito a trascrivere su un quadernetto centinaia di definizioni di poesia e
centinaia di componimenti dei maggiori poeti di tutto il mondo e di tutte le
epoche. Un mare immenso di affermazioni straordinarie che illuminano il senso
di un lavoro così apparentemente inutile. Molte delle definizioni sembrano
essere risposte date ad altre, sono in contraddizione, si elidono, si negano.
Eppure io non mi sono sentito, non mi sento di prendere una posizione, mi
sembrano tutte vere, tutte esatte, tutte convincenti. Non so quindi se la
poesia sia un momento estremo, so che è un momento irripetibile (in questo
senso sicuramente estremo), che scardina gli equilibri perché non accetta il
compiuto, il codificato, l’abitudinario, non è capace di vivere nella
reiterazione, nel tautologico. Di conseguenza è anche terremoto che devasta
l’anima, che la rende ineffabile e inquieta. Ma devastazione, inquietudine,
ineffabilità devono trovare la strada per arrivare al lettore, altrimenti è
puro esercizio di stile, cornice ben fatta ma vuota e incapace di mutare la
sostanza interiore di chi legge, incapace di essere contundente, di mettere
scomodi, di far sentire la nudità del proprio essere.
La
distruzione di qualsiasi mondo, la devastazione che porta l’evento naturale
apre le porte soltanto alla poesia del dolore? Il collasso di qualsiasi
equilibrio è sempre e soltanto morte? Cosa possiamo ricostruire dopo la caduta?
La
caduta è quotidiana, comunque la si intenda, e dunque è una necessità che
comporta la resurrezione, la ripresa, il progetto del rinnovamento.
Naturalmente ci sono molti tipi di cadute, si veda, per esempio, quella di cui
discute Camus.
Ma
non voglio divagare, perché è una delle domande fondamentali che da sempre si
trascinano sulla poesia. Nasce dal dolore? Sempre? Si nutre di dolore? E poi
c’è soltanto la morte? Si sono occupati di questo problema in molti, io conosco
le risposte di Attila Joseph, di Pasternak, di Maldelstam, di Marina Cvetaeva,
di Calogero, di Leopardi, di Luzi, di Gatto, di Valery, di Borges… sembrano
atti giustificativi.
In
realtà quando un certo sentimento trabocca, l’impeto espressivo si coagula in
un grido. La gioia… invece passa e se ne va. Si pensi alle poesie d’amore. è
difficile trovarne di allegre, eppure si tratta del sentimento che non ha
l’eguale. I poeti, tutti, hanno la perennità del dolore e sullo sfondo la
morte. Ne parlano, ci si crogiolano, ci fornicano, ma se si legge con estrema
attenzione ci si rende conto che invece si tratta di inni alla vita, di
parole-gesti che vogliono fermare l’inesorabile scorrere del tempo. Ecco
l’altro elemento sempre in agguato e sempre subdolo. Ci sono versi di Leopardi
che danno sussulti e cariche emotive efficaci e tutte imperniate sulla pienezza
del piacere, dell’esultanza, della gaiezza.
“Primavera
brilla nell’aria e per li campi esulta…”, basterebbe questa citazione a
ribaltare il discorso. Ma bisogna ribaltarlo? Io, quando sono triste o
malinconico, leggo Pascoli o Foscolo: mi portano in alcune radure che
immediatamente mi fanno sentire pieno, eterno, e quindi lontano dal dolore e
dalla morte. E poi, il dolore e la morte di cui parlano i poeti sono momenti di
catarsi…
Chi
sono stati i tuoi maestri? La vita stessa ti ha offerto di fare poesia: è stato
il dolore, la gioia e la tristezza della vita che ti hanno spinto a cercare
l’antidoto?
Nessun
antidoto. Il dolore, la gioia, la tristezza, si sono fusi con l’amore, i
viaggi, le letture, gli incontri, il paesaggio, le polemiche, i confronti, gli
studi “pazzi e disperati”, le occasioni varie della vita. Io ne ho fatto un
serbatoio di sensazioni, di emozioni, di pensieri, di progetti. Un continuo
fermento che mi ha visto e mi vede spettatore, con infinite macerazioni da cui
attendo il segnale. Di maestri ne ho avuti molti, ma li ho messi sempre in
discussione, per crescere, per non adagiarmi nelle certezze. Diceva Goethe, e
poi Proust ne ha fatto un vanto, che ad ogni approdo, ad ogni raggiungimento,
rimetteva tutto in discussione e ricominciava daccapo. Così faccio io, niente
mi soddisfa fino al punto da rinunciare alle curiosità, ad andare oltre, ad
indagare a raggiera immergendomi nelle cose fino a soffocare per uscirne nuovo
e pronto alle successive battaglie.
Viviamo
purtroppo un periodo di catastrofi: terremoti, naufragi, tempeste. Dopo restano
le macerie. Ne vediamo talmente tante, giorno dopo giorno. Le macerie della
vita di tutti. Le macerie della nostra vita. Cosa ci spinge a raccontare la
parte negativa della nostra vita? Un bisogno di sfogo, una parentela con il
dolore di tutti, la volontà sotterranea di esorcizzarlo?
Vedi,
ogni cosa contiene il suo doppio, il suo rispecchiamento, l’alter ego, il
contrario. Le macerie sono un dato della vita, purtroppo, e raccontandole non
facciamo altro che esorcizzarle, capirle meglio per evitarne le brutte
conseguenze in seguito, per averne la consistenza in modo da valutarne
l’impatto volta per volta. Quando raccontiamo di disgrazie non è soltanto
perché vogliamo la compiacenza dei lettori che si sentono coinvolti dal
patetico, ma anche per sondare la profondità delle sventure umane. Però, visto
che le disgrazie presuppongono anche la felicità, tutto poi si svolge per il
meglio. Il fatto è che l’atto supremo del vivere è la morte, ci piaccia o no, e
quindi tutto ciò che in qualche modo ci avvicina ad essa è una maniera di
allontanarla. Naturalmente è soltanto un aspetto del raccontare, poi c’è quello
della necessità di farlo e di farlo con la logica che da sé assume il comando
della narrazione. Anche poetica.
Quanto
contano i contenuti nell’opera di un poeta? Insomma la poesia è una questione
di forma oppure il messaggio stesso è capace di fare poesia? Le opere di teatro
di Eduardo De Filippo sono poesia?
Questione
mai risolta, ma affrontata da tutti i teorici dell’arte e della poesia. De
Sanctis ne ha parlato da par suo, poi Croce, per restare all’Italia, ma il
problema è stato affrontato dai filosofi in tutte le sue sfaccettature. Per
ultimo si legga Heidegger. Per esemplificare dico che un puro esercizio di
forma tale resta, così come un contenuto che non bada alla forma tale resta, non
diventa poesia. La poesia si realizza quando l’uno e l’altra trovano la
perfetta simbiosi, suffragata da quella magia che dà scatto alla parola e
illumina il contenuto portandolo in un’aura di rivelazione. Di per sé una
storia non è poesia, il come viene raccontata è importante. Ma più importante
ancora è verificare se ciò che è stato detto sia venuto da una necessità
imperiosa o semplicemente da un’abitudine a scrivere. Insomma, la faccenda è
complicata: vai a scindere forma da contenuto nella Commedia o nei Sepolcri.
Le
opere di Eduardo De Filippo sono poesia? In senso generico sì, ma in senso
specifico no. Per me la poesia è una determinata cosa, con una sua storia e un
suo modo di esistere, che nel tempo ha subìto variazioni e mutamenti, ma che
deve restare sempre legata a tracce del proprio essere, magari dilaniate e
offese, ma pur sempre presenti. Le opere di Eduardo sono teatro, ma non teatro
di poesia. Ovviamente la mia affermazione nulla toglie alla bellezza di pagine
memorabili.
Bisognerebbe
evitare di utilizzare poesia ogni volta che si prova un piacere qualsiasi.
Quello della poesia è un coinvolgimento totale che presuppone un’apertura e una
educazione e non soltanto l’adesione epidermica. Il teatro di Pirandello è
poesia? Pirandello ha anche scritto libri di versi e ha dimostrato di avere
scarse qualità. Dunque?
La
poesia è nostalgia? È lo sguardo alla sponda che si allontana dei viaggiatori
portoghesi e della loro languida saudade? O è anche la speranza? “Impareremo a
cavalcare i cocci” ho scritto in una mia poesia, il progetto può esprimere un
habitat poetico? Qual è il tempo del poetare? E tra le macerie, soprattutto,
quale tempo dobbiamo tentare per tentare di nuovo la vita?
Anche.
Ma nostalgia di che cosa? Del tempo perduto? Dell’isola non trovata, delle
città sognate, di quelle invisibili? Del se stesso che arriva da un tempo senza
tempo? Il duende di Lorca ci può illuminare, come ci può illuminare la saudade
di Pessoa, ma si tratta sempre di verità parziali. E nel parziale entra anche
la speranza. Certo, se impareremo a cavalcare i cocci molte cose cambieranno
nel mondo e il progetto si farà da sé e si realizzerà perché saremo entrati in
contatto con l’eternità. Invece siamo ancora alla fase del rompere i vasi e di
dire indifferenti di pagare perché i cocci sono di chi ha combinato il guaio.
Dunque perché non invertiamo la domanda? Un habitat poetico può esprimere un
progetto? Perché il tempo per poetare è perenne, non deve avere soste, non deve
distrarsi. La parola del poeta deve saper essere ogni volta ciò che accade nel
mondo per trarne il lievito giusto affinché si tramuti in tessuto sociale. C’è
una domanda che mi pongo sempre ed è: “Senza il patrimonio dei nostri poeti
maggiori e minori la nostra vita oggi sarebbe com’è?”. Io ne dubito. Perciò
bisogna cercare il tempo dell’illibatezza, il tempo – c’è in ognuno di noi – in
cui le cose sapevano essere suoni e sillabe e i suoni e le sillabe sapevano
essere cose. La vita così non s’allontanerà e anzi cercherà di offrirsi nella
sua pienezza. La vita non bisogna “sciuparla nel gioco consueto degli incontri
e degli inviti / fino a farne una stucchevole estranea”, come dice Kavafis,
altrimenti i cocci non si cavalcano, le macerie non si cancellano.
Mai
come in questo momento storico, la cultura ferita sembra urlare e
chiedere voce nelle città intasate di tutto ma deserte di anima. Nel parco
illusorio delle vanità lo sguardo del poeta vero striscia e sguscia dove meno
te lo aspetti. Forse fiorirà nei vicoli più sconosciuti, forse la voce del poeta
all’improvviso urlerà tra le macerie di tutte le città devastate dalle
meschinità di tutti i giorni. Forse come l’ululato di un lupo mannaro – è il
titolo di un tuo interessante romanzo – si rivolgerà ancora alla luna per
cercare quell’altrove poetico che dopo tanti secoli i poeti ancora cercano come
il Santo Graal?
Ciò
che è accaduto in Abruzzo, per esempio, mi ha molto ferito. Non potrò mai
dimenticare certe scene di strazio, lo sfacelo che trionfa. Tuttavia dico che
il poeta per fortuna non aspetta le intemperie e le catastrofi per urlare la
sua indignazione, per svegliare le coscienze nella loro profondità. Il poeta
non aspetta le “occasioni” per svelarci il mondo, per portarci nelle strade del
deserto o della consapevolezza. Chi alzasse la sua voce soltanto in occasioni
terribili come quella dell’Aquila, non potrebbe che essere un cantastorie
stonato e repellente, interessato alla cronaca che subito passa e si sperpera.
Nel cuore del poeta ci sono molti terremoti, proprio perché la sua è una lotta
contro la mediocrità e la sciacallaggine che non aspetta gli tsunami per
diventare repellente. Il poeta non cerca il Santo Graal, lo possiede. Piuttosto
lo deve difendere dagli stupidi e dai creduloni superficiali, dal becero
mercimonio che ne hanno fatto politici e mercanti di chiacchiere.
Per
il poeta la parola amore ha un significato diverso da quello che gli
attribuiscono gli altri, anche la parola pane ne ha uno diverso, perché per lui
la poesia non è un sostantivo, ma un aggettivo consapevole e meraviglioso.
VISITA
IL SITO:
Nessun commento:
Posta un commento