La democrazia si
nutre di verità*
di Giovanni Pistoia
Rabbia, dolore,
sconforto, angoscia, timori: non è un libro facile questo di Mirco Dondi (L’eco del boato. Storia della strategia
della tensione 1965-1974, Editori Laterza, Roma-Bari 2015). È un testo che,
nell’apparente freddezza di cifre, date e dati, e numeri e tabelle, ti squarcia
dentro; il boato lo avverti ma avverti di più l’eco, ancora più perfido e
crudele dello stesso fragore delle bombe criminali. Nonostante il rigore
nell’esposizione dei fatti, il richiamo puntuale alle fonti, il linguaggio
controllato, misurato, senza sbavature, con una scarsissima presenza di
aggettivi; nonostante il racconto proceda senza che si avverta la
partecipazione emotiva dell’autore -che sembra esporre eventi, fatti e
misfatti, pur in una sequela martellante di attentati, bombe, morti, feriti,
mandanti, esecutori, apparati segreti o meno, personaggi ambigui o apertamente
criminali- il lettore avverte comunque, tra mille contraddizioni, un senso di
profondo smarrimento e, nello stesso tempo, una partecipazione viva e pulsante,
un mettersi in ascolto del dolore e dell’amarezza che quelle pagine non possono
celare, pur se vergate da una mano simile a quella di un chirurgo freddo e
compassato.
Lo stile di Dondi è
quello che ho ritrovato in altri suoi studi, uno stile limpido, trasparente,
dove sono i fatti e i documenti che prendono corpo e parlano. L’autore è come se si tenesse sullo sfondo, come se
dicesse: ecco io vi espongo, sia pure a mio modo, le vicende di un periodo, vi
indico le fonti, le più varie; vi lascio la possibilità di leggere, studiare,
capire, comprendere, approfondire, acconsentire, dissentire, annotare, cercare,
cercare disperatamente di far luce, dissodare un terreno arido, svelare,
avvicinarsi il più possibile alla verità.
Dietro l’apparente
distacco vi è lo storico, che pur consapevole della oggettività quale merce
rara, e per questo preziosa, e pur conscio che la verità è un’anguilla che
sguscia, dà tutto se stesso per contribuire a dare verità alla democrazia,
perché sa che la democrazia si nutre di verità, e lì dove la verità è nascosta,
mistificata, lì dove perdurano segreti di Stato, bocche cucite perché ricattate
o altro, informazione prezzolata, o connivente, lì, in quel Paese, in quello Stato,
la democrazia rischia di essere una scatola vuota, una formalità senza
sostanza, e comunque sempre fragile e a rischio. Una democrazia che vive tra
ricatti e scheletri in aule parlamentari, in stanze di massonerie deviate, in
aule di giustizia, in apparati oscuri di servizi segreti nazionali e
internazionali, in strutture dello Stato, è una democrazia condizionata,
appannata, pronta a soccombere a ogni folata di vento.
Lo studio di Dondi
-un viaggio nell’Italia delle stragi e dei misteri- si materializza in un
volume di circa 450 pagine fitte, che non concede pause o distrazioni. Il
periodo preso in considerazione va dal 1965 al 1974. Mirco Dondi non è un
magistrato, è uno storico, egli non intende emanare sentenze, scrivere
ordinanze giudiziarie ma fare semplicemente il suo mestiere: esaminare l’ampia
letteratura in materia, consultare le fonti disponibili, cercare e far emergere
quelle ancora inedite, dare respiro agli atti di varie commissioni
parlamentari, alle relazioni ancora non conosciute, blindate nelle aule dei
tribunali, riferire testimonianze, e così via. Alla luce di tutto ciò, fissare
alcune verità storiche inoppugnabili e dare una risposta anche al perché tanti
delitti siano rimasti senza una verità giudiziaria, senza condanne processuali.
Mirco Dondi fa tutto ciò, avanzando anche ulteriori ipotesi di lavoro per studi
futuri, con rigore, puntualità, precisione. Difficile, anzi impossibile,
trovare nel testo affermazioni, considerazioni su fatti o personalità politiche
e istituzionali, formazioni extraparlamentari, parlamentari, o altro, che non
facciano riferimento a un documento, una relazione, una perizia. Si potrà,
volendo, giudicare questa o quella fonte, questa o quella dichiarazione
riportata, ma non si potrà dire che l’autore si sia lasciato prendere la mano
da valutazioni personali non verificabili. C’è di più: restando nel campo del
metodo, Dondi cita numerosi atti che sono riscontrabili in rete. Utilizza anche
questa fonte e invita il lettore a verificare il documento richiamato, perché
possa prenderne atto direttamente, non prima, però, di avere dato qualche utile
suggerimento su come avvicinarsi alla lettura di quanto pubblicato nel web.
Questo approccio di utilizzo della nuova tecnologia quale sede di fonti
storiche non è nuovo per Dondi. Già nel suo manuale L’Italia repubblicana: dalle origini alla crisi degli anni Settanta
(Archetipo Libri, Bologna 2007), l’autore offre al lettore non solo un testo in
cartaceo ma rinvia a numerosi altri studi integralmente riportati in rete
perché possano essere consultati e valutati da chi ne abbia interesse.
Con questo recente
lavoro di ricostruzione storica degli anni più acuti della strategia della
tensione (1969-74) -dove non mancano segnali di quella che sarà la sanguinosa e
pericolosa violenza degli anni più cupi delle Brigate rosse- Dondi riprende,
con maggiore dovizia di atti e conseguenti valutazioni, alcuni temi appena
accennati nel manuale; è auspicabile, quindi, una lettura congiunta dei due
testi per una valutazione più complessiva dei contesti dentro i quali i fatti
trovano alimento.
Lo storico, in
genere, ha nel corso del suo lavoro spesso a che fare con fatti di sangue
-l’uomo non sa che ripetersi, purtroppo- ma Dondi sembra voglia studiare e
cercare le ragioni più profonde,
ovviamente sempre di carattere storico, delle violenze, seguirne le dinamiche.
Già nel manuale indicato analizza nei particolari quelli che chiama i costi del terrorismo con i suoi 14.591
atti di violenza di matrice politica che vengono registrati dal primo gennaio
1969 e il 31 dicembre 1987. Ondate di violenze, che non solo non costituiscono
la premessa per nessuna rivoluzione o prospettive di miglioramento della
società italiana, ma sono i presupposti (anche se non sono i soli) che
provocano un rifiuto della politica, un rinchiudersi nel privato. Non solo:
muta, scrive Dondi, anche il rapporto con la violenza e con i miti
rivoluzionari. “Lo strumento della violenza spacca la generazione degli anni
Settanta, ma conduce le generazioni immediatamente seguenti a un netto rifiuto
di questa politica”. Ma non è tutto. Anche in altro testo, quello relativo alla
resistenza italiana (La lunga
liberazione. Giustizia e violenza del dopoguerra italiano, Editori Riuniti
1999, 2004, 2008), la violenza è scandagliata in maniera certosina tanto che ne
traccia vari profili: violenza insurrezionale,
inerziale, residuale e delinquenza
comune. Si ricorda ancora che Dondi ha curato, per Controluce nel 2008, lo
studio I neri e i rossi: terrorismo
violenza e informazione negli anni Settanta.
È con questo
bagaglio di conoscenze -da vero specialista delle varie forme di violenza
politica o, comunque, che alla politica, a torto o ragione, si richiamano- che
Dondi si avvia a dare un contributo essenziale, con questo suo recente saggio
per un primo e organico tentativo di sintesi storiografica su quegli anni che,
comunque, continuano ad avere una ricaduta sul presente, anche se non sappiamo
di quale entità. Nuove testimonianze e documenti contribuiscono a delineare ora
quelle verità (ma sono tante ancora le zone d’ombra) ostacolate per anni, anche
per lo scenario politico imperante. “La verità storica -chiarisce Dondi- però
colma solo parzialmente le falle dell’omertà politica e dell’evasione
giudiziaria, lasciando dietro di sé una memoria inquieta”.
In sei anni, tra il
1969 e il 1974, si verificano in Italia sei stragi che portano con sé lutti e
ferite ancora aperte. Il primo grave episodio avviene a Milano il 12 luglio del
1969 e passerà alla storia come la strage di Piazza Fontana; poi il 22 luglio
del 1970 a Gioia Tauro, treno Freccia del Sud; l’uccisione dei carabinieri a
Peteano il 31 maggio 1972; la strage alla questura di Milano il 17 maggio 1973;
la strage a Piazza della Loggia, Brescia, il 28 maggio 1974; a San Benedetto
Val di Sambro, treno Italicus, il 4 agosto 1974. Ma il lavoro non si sofferma
solo sui fatti più gravi: l’autore analizza con meticolosità tutta una
numerosissima serie di episodi stragisti o, comunque, inseriti in quel contesto
di violenza, che si verificano a cavallo tra una strage e l’altra.
“Perdono la vita
-scrive Dondi- 50 persone e 346 rimangono ferite. Complessivamente, inquadrando
anche altri episodi, dal 1969 al 1974 le azioni eseguite dall’estremismo nero
provocano 55 morti, quelle eseguite dall’estremismo rosso 7, di cui 6 nel solo
1974”. Non sono tralasciati anche altri avvenimenti, non necessariamente
violenti, che comunque hanno un rapporto diretto nel creare quella che va sotto
il nome di strategia della tensione,
tra guerra psicologica e guerra non ortodossa nelle definizioni
fatte proprie dallo storico.
Una costante, in
quegli anni, di intrecci tra forze fasciste, se non addirittura nazifasciste, e
pezzi dello Stato, servizi segreti deviati -tra l’altro, a volte, in guerra tra
loro- con lo scopo di minare alla base il sistema politico e istituzionale del
Paese, faticosamente tenuto in piedi a partire dal difficile dopoguerra, e nel
contesto della guerra fredda; di quella che era la divisione del mondo tra
potenze vincitrici a discapito delle sovranità popolari ripetutamente
calpestate, in particolare in Europa, soprattutto in Italia. Un Paese,
l’Italia, dove accanto allo Stato così come appariva, ve ne era un altro
clandestino, o tollerato, o finanziato e nel quale un ruolo di primo piano
aveva la P2, potente loggia massonica guidata da Licio Gelli il cui nome è
legato all’intero percorso dello stragismo. Uno Stato intersecato, attraversato, dunque, da organizzazioni illegali e
eversive o di emanazione statale (Nuclei di difesa dello Stato, Rosa dei venti,
P2, Ordine nuovo, Avanguardia nazionale, Fronte nazionale, Mar, Ordine nero).
“Un quadro storicamente consolidato, dove la presenza dello Stato funge anche
da acceleratore dei processi di destabilizzazione, come mostrano gli occulti
finanziamenti statali all’estremismo nero, rilevati da Taviani”. “Le strutture
occulte -continua Dondi- sono la prova dello Stato intersecato e la strategia
della tensione ne è il prodotto. La guerra non ortodossa contro il nemico
interno è incompatibile per qualunque costituzione democratica”.
Non è il caso, per
varie ragioni, soffermarmi su questa o quella strage, oppure richiamare
l’attenzione sul ruolo svolto da questo o quel servizio. Una sintesi rischia di
danneggiare il lavoro svolto al quale si rimanda per una lettura attenta. Va
detto, però, che “l’eco del boato è tutto ciò che lascia l’esplosione dopo il
suo scoppio. Le forme di condizionamento dell’attentato sono l’oggetto
prevalente di questo libro, che esamina il comportamento dei soggetti
istituzionali e dei media” per citare le parole dell’autore. Va detto anche che
in questo studio per la prima volta, per quel che mi risulta, in maniera
organica, puntuale, dettagliata, si analizza il comportamento dei giornali e
della televisione. Nel progetto degli strateghi della tensione un compito
importante è riservato alla stampa: minarne l’autonomia e assoggettarla
comunque al servizio della strategia. Bisognava procedere a una massiccia
campagna di persuasione di massa. Dondi, che è anche un esperto di
comunicazione, utilizza questa sua ulteriore competenza per radiografare tutte
le più significative testate, e darne un resoconto: i risultati sono, a dir
poco, agghiaccianti. Il ruolo di vari giornali è esposto con estrema chiarezza,
così com’è illuminante l’illustrazione che lo studioso fa del percorso
mistificatorio al quale la notizia è sottoposta, da quando e come è
confezionata all’informazione infine divulgata.
Ultima annotazione.
Leggo a pagina dodici del libro: «Il 28 novembre 1956 è formalizzato l’accordo
tra il servizio segreto italiano e gli Stati Uniti e segna la nascita
dell’organizzazione Gladio, connessa con il Sifar, dal quale riprende il legame
con la Cia. L’intelligence statunitense, afferma il generale Gerardo
Serravalle, al comando dei gladiatori dal 1971 al 1974, ha sempre tenuto
d’occhio la struttura in funzione del nemico interno, nonostante all’inizio
degli anni Settanta i protocolli ufficiali ne vietassero questo impiego.
All’orientamento imposto dalla Cia, il generale si chiede “se la mia patria era
quella che avevo sempre servito o un’altra”».
Se il generale
Serravalle arriva a chiedersi di quale patria fu servitore, io da semplice
cittadino mi domando: in quale Stato ho vissuto in quegli anni? E da qui ancora
rabbia, dolore, sconforto, angoscia, timori, con l’aggiunta di tante scuse per
avervi disturbato un po’ più del dovuto.
*In occasione della
presentazione del volume di Mirco Dondi, L’eco
del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Editori
Laterza, Roma-Bari 2015, presso la Libreria Mondadori Point, via Nazionale 87,
Corigliano Calabro, Cosenza, il 3 gennaio 2016.
Nella foto del prof.
Francesco Verardi: Giovanni Pistoia, Mirco Dondi, Giuseppe De Rosis, che ha
coordinato l’iniziativa.
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