JEAN PORTANTE, I quattro tremori del giardino, Milano, La vita Felice, 2016, pp.
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Letto da Dante MAFFIA
Sono sicuro che Jean Portante quando ha
scritto di essere “orfano della sua origine” voleva appena rafforzare il suo
radicamento all’identità dei padri, mettere in rilievo non di avere perduto
qualcosa, ma di avere, adesso, la possibilità di compiere un percorso
all’indietro per seguire le tracce di quella ricchezza interiore che ha dato
perfino alla sua lingua corrispondenze ed equivalenze e proprio in senso
strettamente baudeleriano.
I quattro tremori del giardino se da una
parte sono la testimonianza concreta della mano del terremoto nelle sue
oscillazioni, dall’altra sono gli interstizi di paure, angoscia e amore
misurati che non conoscono il loro agire, che sono affidati
all’arbitrarietà se è vero, com’è vero,
che per ben diciassette volte Portante apre con “A volte”, il discorso poetico
dando agli incipit, a un tempo, il senso della casualità e della ripetizione.
Si tratta di poesie di uno spessore alto,
ricamate da immagini surreali comunque mai astratte, anzi intrise di una realtà
tutta meridionale che ha qualcosa che taglia nettamente con la stagione storica
surrealista e, nello stesso istante, ci si innesta come a volerla rinverdire
con un passo lirico più calibrato, più densamente legato al mondo classico e
alle problematiche assillanti che arrivano da una terra martoriata che lui ha
vissuto attraverso le esperienze della famiglia senza farne mai una ragione di
rigetto e senza farne mitologia. Ecco perché gli è possibile scrivere versi su
ciò che è accaduto all’Aquila nel 2009 senza farsi mai sfuggire un grido di
angoscia, una rivendicazione, una bestemmia. Portante è stato capace di
compiere un’azione poetica che io trovo unica e straordinaria: l’idillio
abruzzese che in qualche modo covava dentro di lui si è trasformato in ragione
morale e così ne ha tratto il senso recondito per porre in essere un Abruzzo
che viene fatto rivivere privo di retorica, senza strascichi neorealistici,
senza l’affastellamento del sottofondo delle nenie maliose che purtroppo ancora
accompagnano alcuni narratori e poeti.
Le quattro parti del libro sono
strettamente legate tra loro, anche se ognuna ha scelto un ritmo proprio,
passando dall’addensamento surreale allo sguardo diretto sulle cose e sugli
eventi e poi affidandosi a una misura praticata agevolmente in Giappone, con
una adesione alla quotidianità che tuttavia non è mai mera descrizione, ma
posta in essere di una condizione che deve esplicitarsi attraverso la presenza
degli oggetti.
L’ultima parte si adagia nella bellezza e
se “Non è ancora tempo / di mangiare la luna” non è nemmeno tempo di stendere i
cappotti sulle macerie che il terremoto ha apparecchiato. Ci pensa la natura:
“E su ogni cosa la notte stende il suo cappotto”.
Il tremore, cioè il ritmo di ognuna delle
sezioni è diverso e complementare, ma è il tremore di Portante che si fa pasto
delle suggestioni e si abbandona totalmente per potersi ritrovare diverso e
meno sazio di paure e di angosce. L’impatto con la tragedia lo ha reso più
consapevole di quel che è accaduto ma soprattutto di quel che è, perché “è la
memoria che uccide”, tanto è vero che
“Perché sognava l’ulivo dopo essere
tornato dal mare
e nel suo sogno non era la guerra
a scoppiare ma la solitudine”.
A ogni lettore viene spontaneo cercare
affinità con alcuni poeti. Io trovo in Jean Portante quella voce limpida e
suasiva che ho sempre trovato in Leonardo Sinisgalli e in Alfonso Gatto. Egli,
anche se li ha tradotti, non ha nulla da condividere con i vari Sanguineti
privi di vita e di emozioni, tutta letteratura, come direbbe Croce che ormai è
quasi pericoloso citare.
Nella sua poesia si avverte il senso
pacato e partecipato di una umanità che aleggia in ogni verso e lo rende
fibrillante, sì, ricco di tremori autentici, di emozioni colte sul filo di un
ricordo, di una parola, una narrazione ricevuta dalla madre: “Ascolta il
silenzio dei lombrichi sfaccendati / ascolta il loro lamento impercettibile che
fa invecchiare i frutti”.
DANTE MAFFIA
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