martedì 24 dicembre 2019
martedì 10 dicembre 2019
Un mio remoto mondo antico di Giovanni Pistoia
[Adriano Prosperi,
Un volgo disperso. Contadini d'Italia nell'Ottocento]
Dunque
i contadini soffrivano di «estrema indigenza»,
non
avevano abbastanza da mangiare:
e
ne soffriva specialmente la parte più indifesa della famiglia contadina,
quella
delle donne e dei bambini. Prendiamo nota di questa constatazione.
Quella
della fame dei contadini è una questione che ha ricevuto scarsa attenzione
negli studi. Tutt’al più la si è data per
scontata come un dato di natura.
Adriano Prosperi
Certamente è un gran
bel testo di storia. L’autore è rigoroso nella ricerca e nel rispetto delle
fonti, circostanziato nelle analisi, distaccato nell’osservare e raccontare i
fatti. Ma vi traspare anche l’esigenza dello studioso nel voler rendere
giustizia di un passato recente, anche se appare lontanissimo. Pur in uno stile
misurato, non è difficile intravedere la commozione, in alcune pagine, dello
studioso; a volte una sana, sottile ironia, dolce e amara nello stesso tempo
coinvolge il lettore. La penna è fluida, accattivante, coinvolgente. Adriano
Prosperi, nel suo Un volgo disperso.
Contadini d’Italia nell’Ottocento (Einaudi, 2019), ci consegna un lavoro
non solo interessante, istruttivo, ricchissimo di dati e riflessioni
acutissime, ma qualcosa di più di una magnifica opera storica. È anche un
omaggio a quel mondo variegato e complesso spesso definito semplicemente mondo contadino. Un omaggio a milioni di
uomini, donne e bambini senza nomi, volti, storia. Fantasmi, soggetti come mai
esistiti, senza voce; volgo, volgo disperso. Ma è anche un doveroso ricordo del
mondo di Prosperi, figlio di contadini, testimone di un tempo di fatica,
sacrifici e fame. Lo afferma lo stesso storico quando, citando Anna, dichiara:
«A lei un sommesso ringraziamento per avermi seguito e incoraggiato in queste
peregrinazioni sulle tracce di quello che è stato un mio remoto mondo antico».
Tracce che ci riguardano un po’ tutti, che ci riportano alla vita (o non vita)
e alla povertà delle famiglie dei contadini nell’Ottocento con incursioni anche
nel Novecento. L’ansia della modernità e la voglia di allontanarci
precipitosamente da quelle miserie ci hanno portato a rimuovere del tutto quel tempo
ma quel tempo è stato e Adriano
Prosperi, con uno studio complesso, ben articolato, ottimamente ben
documentato, lo ricorda a tutti noi. E non solo perché è un dovere dello
storico svelare il passato ma, come in questo caso, quale giusto risarcimento
per un’umanità tradita, per «un rimorso che non si riesce a cancellare», per
citare le parole affrante con le quali Prosperi chiude l’ultima pagina del
libro, la trecentoventiquattresima.
C’è un’intervista
rilasciata nel 2015 ad Antonio Gnoli[1] da
Prosperi che bisognerebbe leggere, perché vi sono, sia pure appena accennati,
alcuni dei temi che saranno trattati nel suo libro, ma è indicativa soprattutto
per capire quanto della cultura e dell’uomo Prosperi vi è nello studio così intenso
sui contadini italiani. Portare alla luce, in maniera così dettagliata, le
terrificanti diseguaglianze e ingiustizie patite dai lavoratori della terra è
anche un modo per combatterle. Nell’intervista alla domanda se avesse sofferto
la diseguaglianza, Prosperi risponde: «Sì, e ho cercato di combatterla. Sono
nato su una collina della Toscana, a Lazzeretto, non lontano da Livorno. Il
nome è emblematico. In origine era il luogo dove venivano seppelliti i morti
per la peste del 1630. Se vuole tutto ha origine da quella emarginazione».
Sottolinea ancora che del suo passato «non è sopravvissuto quasi nulla. Nella
casa dove sono cresciuto c’erano ancora gli attrezzi da lavoro che sono
scolpiti sulle cattedrali medievali. Un altro mondo». E nel volume Un volgo
disperso, Prosperi dà spazio e voce proprio a quel mondo altro e puntualmente sono richiamati,
direttamente o indirettamente, quegli attrezzi che furono in mano a contadini,
villani, rustici, fittavoli, braccianti, mezzadri, bifolchi, terroni, pastori,
ortolani, vignaioli, allevatori, mietitori, zappatori: insomma, lavoratori
della terra che, con la loro fatica, hanno dato gli alimenti per avide pance
pur restando sconosciuti, ritenuti, in alcuni momenti storici, pericolosi, fino
a essere considerati appartenenti ad altra razza.
A Gnoli, Prosperi si presenta così: «Vengo dal mondo contadino. Mio nonno mezzadro.
Mio padre piccolissimo proprietario. Mai avrei immaginato di farcela. La vita,
però, può farti dei regali incredibili. Concorsi a una borsa alla Normale di Pisa
che mi avrebbe garantito vitto, alloggio ed esenzione dalle tasse. Mutò la mia
esistenza. Fino ad allora, i miei ideali sociali erano radicati nella piccola
provincia: il maestro o, se proprio andava bene, il medico condotto in qualche
paesino. Riscatto sociale a chilometro zero». Non è un caso, quindi, che quel
mondo del nonno e del padre, ambedue legati alla terra, ritorni nel saggio
apparso qualche anno dopo, né il fatto che sia proprio il medico condotto la
figura professionale che acquisti rilievo quasi assoluto nella ricerca.
L’autore si sente coinvolto dalle vicende che racconta, la sua partecipazione è
trasparente ma lo studio non ne risente sul piano dell’oggettività e del rigore
dello studioso. Com’è suo solito cerca nei fatti la verità, consegna al lettore
dati, numeri, materiali, descrizioni, prima ancora di esporre il suo punto di
vista.
Lazzeretto,
frazione del piccolo comune di Cerreto Guidi (Firenze), è ricordato da Prosperi
all’intervistatore e Cerreto Guidi ritorna nel saggio. Forse un omaggio al suo
paese dove lo storico è nato nel 1939. In queste pagine, comunque, Prosperi ci
fornisce una sintesi perfetta della complessa materia esposta nell’intero
volume. Il riferimento è alle numerose circolari ministeriali che sono diramate
dal governo centrale, alle tante cifre e tabelle che riempiono le inchieste del
tempo, ai vari interventi prefettizi. E tutto per giustificare direttive, a
volte dettagliatissime, rivolte alle amministrazioni comunali italiane nella
seconda metà dell’Ottocento. I governi centrali, dinanzi al dilagare dei
problemi soprattutto legati all’igiene e alle epidemie, non trovano di meglio
che scaricare le varie soluzioni
ipotizzate sulle gracili spalle dei comuni. Qual è l’immagine del Paese che si
deduce da questo imponente accumulo di informative e prescrizioni a firma del
governo? «Il popolo italiano come popolo
infetto, da osservare e curare», risponde Prosperi. Segue un’esposizione
sobria, chiara, analitica dello stato
delle cose che qui si ritiene opportuno riportare:
«Le ragioni non
mancavano: epidemie di colera, casi di tifo e di vaiolo, la piaga della malaria
e quella della pellagra erano tante realtà che certo tenevano in allarme le
autorità del giovane Stato. Qui le ambizioni e le retoriche di vecchie e nuove
classi dirigenti si scontravano con la dimensione di uno Stato attraversato da
moltissime differenze e gravato da problemi enormi: vi predominavano le tante
ragioni di disagio e di conflitto che avevano la loro radice in una
quotidianità delle classi subalterne fatta di miseria e di malattica. A cui si
aggiunge, inasprendo una situazione sempre più intollerabile, il peso del
rapace fiscalismo del nuovo potere statale. Un fiscalismo iniquo: com’è stato osservato,
all’altezza del 1876». E qui Prosperi si riferisce ai tributi indiretti il cui
onere gravava in modo particolare sulle classi meno abbienti e costituenti il
65% delle entrate tributarie. Eccessivamente esosi sono il tributo sul sale che
ammonta a 75 milioni e quello sul macinato (cereali alimentari) con un gettito
di 83 milioni. Ma non è tutto, aggiunge lo storico. C’erano anche i tributi
diretti, e l’imposta fondiaria colpiva i piccoli proprietari, favorendone così
la espropriazione e la concentrazione della proprietà fondiaria. L’imposta di
ricchezza mobile contribuiva, invece, in misura ridotta a impinguare le casse
dello stato «anche grazie a un fenomeno che doveva diventare tipico della
fiscalità italiana – l’alta evasione dei contribuenti ricchi». E qui lo
studioso rinvia a E. Sereni[2]. E
aggiunge perentorio Prosperi: «Quelli più poveri invece dovevano privarsi di
sale e di cereali per evitare le tasse». Ma l’analisi diventa più acuta e
decisa: «Bisognava occuparsi di quei problemi, non solo per il paternalismo
cattolico o laico di frazioni delle classi dominanti, ma anche perché da quel
basso mondo di contadini e di lavoratori poveri cominciavano ad arrivare
segnali inquietanti. Passati gli anni in cui l’unità del paese era apparsa in
grave pericolo per le insorgenze del Meridione, domate da quella vera e propria
guerra civile che l’esercito del Nord combatté contro i «briganti», si
affacciavano davanti ai poteri statali i problemi delle gravi minacce della
malaria e delle ricorrenti epidemie. Quella del colera era un’aggressione
sanitaria, ma venne vissuta anche come frutto del criminale complotto di un potere
politico ostile. E c’era un’altra malattia che andava trasformando in fonte di
agitazioni e di conflitti sociali e politici, come si è visto: in molte
province del paese, specialmente (ma non solo) al Nord la diffusione della
pellagra alimentava l’inquietudine sociale in mezzo a un popolo dove, col
formarsi di un proletariato industriale, trovavano sempre più ascolto idee e
messaggi sociali che preoccupavano i governi liberali». È in quel contesto che
lo Stato risponde con misure di polizia e alla raccolta sistematica di dati
come mezzo di governo. Statistiche utilissime per conoscere la realtà ma spesso
fine a se stesse. Nel nuovo Stato italiano, sottolinea Prosperi, la statistica
-nel testo questa scienza ha un giusto e opportuno rilievo- fu civile e militare. Però non fu la statistica civile che ebbe adeguata
attenzione, ma le commissioni per la leva militare. L’obbligo del servizio
militare fu «accanto alla fiscalità del nuovo Stato, e forse ancor più e prima,
il banco di prova del senso diffuso dell’appartenenza dei sudditi. Quando si
parla dell’unificazione dell’Italia si dovrebbe sempre riflettere su quanto ne
fossero superficiali le radici nelle coscienze al di là della retorica
ufficiale e delle convinzioni di una minoranza colta. Vale la pena di insistere
su questo punto: la nascita del Regno d’Italia fu un evento internazionale e
specialmente europeo debitamente registrato dalle cancellerie statali. Ma
perché entrasse nelle coscienze e nelle abitudini della popolazione della
penisola e delle isole che presero quel nuovo nome, ci fu bisogno di tempo, di
sofferenze e del superamento di resistenze profonde». Pressione fiscale e
obbligo del servizio militare furono i due volti del nuovo Stato che apparve
agli italiani, ma soprattutto alle famiglie contadine che si videro private nei
lavori dei campi dell’apporto dei giovani figli. Un aspetto che ebbe un ruolo
decisivo per le sorti, in particolare, del mondo contadino del Sud. Dalle
statistiche e dalle inchieste -anche queste hanno nel volume un’attenzione ragguardevole-
si ricavano dati importanti per conoscere le varie realtà censite. Un dato
sembra essere omogeneo tra i cittadini dei vari mosaici che compongono il nuovo
Stato; quello che risulta anche dalle risposte fornite dal comune di Cerreto
Guidi ai sondaggi prefettizi sullo stato morale della popolazione: rassegnata alla sofferenza. «Non era un
lamento né voleva essere una dichiarazione di malcontento. Al contrario: la
rassegnazione alla sofferenza era esattamente ciò che la prefettura – il cane
da guardia del potere centrale – sperava e desiderava di sentirsi dire», chiosa
lapidariamente Adriano Prosperi.
È inutile
negarlo: la lettura di questo libro riporta molti di noi a ricordi della
propria famiglia, alle nostre case e alle nostre miserie spesso vissute, altre
volte testimoniate da nonni e amici. Un mondo che sembra remotissimo, eppure
non lontano se contato in anni, decenni. Sembra che Prosperi racconti in alcuni
momenti la storia di ognuno di noi, quantomeno la storia di chi ha sofferto sacrifici,
ha faticato e ha conosciuto la fame. Oltre a darci, ovviamente, uno spaccato di
un lungo, tormentato e anche speranzoso periodo storico con il quale non
abbiamo ancora fatto i conti. Varie sono le domande che l’autore si pone, ma
alla base ve n’è una molto semplice ma pesante: «Quali erano state le
condizioni di vita dei lavoratori della terra in quel secolo XIX della
formazione dell’unità nazionale?» Il tema non è nuovo. Molti testi di storia, e
non solo, hanno raccontato delle miserabili esistenze dei contadini e, in
genere, di chi non ha avuto la fortuna
di appartenere alla minoranza dei possidenti. Opere che ne descrivono la
pesantezza della fatica, la scarsa e malsana alimentazione, le abitazioni
fatiscenti, a volte semplici capanne, le malattie, le morti in giovanissime
età, l’alta percentuale dei morti bambini. Si pensi, per fare solo qualche
citazione, a Carlo Levi, a Ignazio Silone, ricordati nell’istruttiva recensione
di Giovanni Cerro[3].
Ma l’elenco potrebbe allungarsi di molto: voglio qui ricordare solo Vito Teti
che, in più lavori, dedica lucide analisi alle condizioni alimentari delle
classi subalterne[4],
oltre ai numerosi studiosi citati dallo stesso Prosperi. Quali erano le
condizioni dei lavoratori della terra lo testimonia lo stesso autore, che così
si racconta:
«Grazie al
prolungarsi della vita individuale lo scrivente è un testimone del tempo remoto
in cui nelle campagne si viveva in case di due stanze, una era per la famiglia
e l’altra era la stanza della mucca o – per chi l’aveva – del maiale, che era a
un passo dalla camera da letto o dalla cucina. Come nella ninna nanna famosa:
«La notte s’avvicina / la fiamma traballa / La mucca è nella stalla / La mucca
e ‘l vitello / la pecora e l’agnello / La chioccia e ‘l pulcino». La fiamma che
traballava era quella del lume a petrolio o della candela; e gli animali erano
i compagni di vita e di fatica dei contadini. I più fortunati avevano anche
l’asino, animale sacro e conosciuto nel mondo per merito di Collodi oltre che
per il presepe del racconto evangelico. Gli attrezzi da lavoro raccolti nella
capanna di canne e paglia erano gli stessi raffigurati nei calendari di bronzo
o di marmo dei portali delle cattedrali altomedievali dove Adamo ed Eva erano
contadini, come nel portale del Duomo di Modena; così come erano rimasti
immutabili rispetto a quelle immagini i tempi e i modi del lavoro e della vita
quotidiana: dicembre, scaldarsi al focolare; gennaio, uccisione del maiale;
marzo, la potatura delle viti e degli alberi da frutto; giugno, la falce in
pugno; luglio, il correggiato per battere le sementi; e così via. E chi ricorda
ancora quando non fu più ovvio misurare la cesura del giorno come il momento in
cui «la mosca cede alla zanzara?». L’igiene fece un passo decisivo con lo
sterminio delle mosche, quando con l’esercito americano arrivò il DDT».
Alla domanda,
Prosperi risponde con esporre una notevole mole di documenti forniti dalla
statistica -una scienza alla quale si guarda con particolare attenzione, come
se dalla sola conoscenza delle realtà potesse automaticamente scaturire la soluzione
dei problemi di fondo-, dalle descrizioni e tabelle e dati derivanti dalle
numerose inchieste ministeriali e prefettizi, dalla lettura delle topografie sanitarie. E, soprattutto,
dai resoconti, spesso minuziosi, dei medici condotti. Da questo impegnativo
lavoro di ricostruzione, il mondo dell’Ottocento contadino è scandagliato in
profondità. Non solo: non ne deriva solo la conoscenza di una lunga pagina di
storia, che nonostante i tanti scritti non ha mai avuto la visibilità dovuta,
ma si propone come un laboratorio, un osservatorio per leggere il nostro
presente, per riannodare fili di un passato che troppo rapidamente abbiamo
voluto dimenticare, ma che, in fondo, è appena dietro l’angolo. La distanza
culturale e lo stile di vita attuale è remoto rispetto a quei tempi riportati
alla luce da Prosperi, ma vicino a noi in termini di anni, tanto che ancora
molte generazioni possono essere testimoni di quella che appare preistoria. La
stessa Unità d’Italia, che torna spesso nelle pagine del volume, e non potrebbe
essere diversamente, pur apparendo sfumata nel tempo, continua ad avere
ricadute notevoli sul nostro presente. Un’Italia ancora frammentata, divisa, a
più velocità, traspare evidente nella penna dello storico; una storia
incompiuta che è ancora cronaca quotidiana. Quelle condizioni di vita
dell’Ottocento -povertà diffusa, malattie mortali, fame- sembrano interrogarci,
a volte, se davvero quel tempo appartiene alla storia contemporanea, oppure è da
relegare ad altre poche. Anche questo interrogarsi continuo compare nello
studio e la risposta è complessa. Le domande che si pongono sono tante, le
risposte non definitive; certamente la lettura del libro è una fonte preziosa
per arricchirsi, e non di poco. Pagine, frasi, commenti sono meritevoli di
attenzione. (Ho cercato di rilevarne i passaggi più importanti, il risultato è
un testo evidenziato e ferito ripetutamente).
Non è raro
ascoltare “sospiri” sul vecchio mondo
antico, vaghe nostalgie di campagne con contadine donzelle allegre e
contadini immersi beati nella natura incontaminata. Chi non ha sofferto la fame
e non ha visto la morte rapire a man basso in età ancora giovanile, può dire
questo e altro. Altri ancora raccontano un mondo ovattato per la vergogna di
doverne riferire le assurde ingiustizie e il cinismo di una minoranza adusa
allo sfruttamento. Sin dall’inizio Prosperi ricorda Pierre Bourdieu e la
definizione da lui coniata per i contadini: classe
oggetto. Concetto breve e incisivo. Un popolo subalterno e senza voce.
Classe oggetto «… è una provocazione. Serve a ricordare un vuoto, a impedire
che la memoria del mondo contadino europeo d’antico regime si cancelli del
tutto. Altre definizioni se ne potrebbero forse immaginare, ma nessuna esprime
meglio la condizione di subalternità del contadino nella storia europea dei
secoli scorsi: ricorda a tutti una condizione di esseri umani destinati a
essere raccontati, descritti e rappresentati da altri, oggetto di
commiserazione o di derisione, di paura o di pietà, ma sempre e solo per
ribadirne la posizione subalterna», afferma Prosperi. E questa condizione è ben
documentata in Un volgo disperso. È
davvero tanta la letteratura sui lavoratori della terra, ma quasi mai i
contadini sono visti come classe, né come soggetti portatori di diritti. Il
paternalismo è diffusissimo. Una sorta di pietà pelosa invade tantissime
relazioni, inonda moltissime carte. Il prete, che è ben presente nello studio
di Prosperi, è il rappresentante di un cristianesimo che spesso non conosce la
compassione ma solo pietà[5]. E
non è un caso che nei momenti difficili per calmare certi brutti pensieri dei
contadini è a loro che chiedono aiuto i padroni e i proprietari. «Nell’Italia
preunitaria c’è un altro protagonista che opera nelle campagne. Il medico
condotto vi entra a fatica: le condotte non ricoprono tutti i comuni, in molte
zone il medico non c’è: per partorire le donne si affidano all’esperienza
empirica e ancestrale delle mammane. È il parroco che si prende cura dei
bisogni dei contadini. Li conosce benissimo: di loro sa tutto, vuoi perché non
di rado ne condivide la provenienza sociale, sia perché abita in mezzo a loro,
e infine perché li ascolta in confessione. Anche se non sempre lo rispetta, il
compito del parroco è quello di abituare i contadini alla obbedienza e alla
sopportazione di una vita di privazioni. Egli è di fatto l’alleato del
possidente che incatena i contadini alla loro miseria», come chiosa Matteo
Banzola[6]. Non
è un caso, come confermano i documenti evidenziati da Prosperi, che spesso c’è
conflitto tra il prete e il medico condotto. È il medico, che conoscendo la
vita materiale del contadino, ne tratteggia, nelle varie relazioni, le disumane
condizioni. Le contraddizioni non mancano nelle note dei medici ma spesso esse
sono redatte in modo coraggioso, con sincera passione, con amarezza e rabbia e,
soprattutto, soffermandosi sulle diagnosi e le conseguenti terapie da adottare.
E tra queste, il miglioramento delle condizioni di vita: la salubrità delle
abitazioni, cibo sano e sufficiente che alimenti il fisico e sconfigga la fame,
causa prima di tante sofferenze, malattie, epidemie, morti. Ma nulla sarà
possibile se non si sconfigge la povertà. In molte pagine dei medici appaiono
evidenti le colpe dello Stato, colpe spesso addossate, da non pochi
osservatori, agli stessi contadini: insomma al danno la beffa.
Pur avendo
scritto molto, si è detto poco o nulla. Non è il caso di riportare qualcosa di
più analitico sul viaggio di
Prosperi. Quel percorso va compiuto tutto, senza scorciatoie. L’invito al
lettore è di accostarsi a quelle fittissime pagine sapendo che non vi troverà
solo la storia di un secolo e più, ma tanta umanità. Cosa non facile nello
storico infarcito, spesso, di dati, numeri, cifre, battaglie, eventi, personaggi,
morti. Nella ricerca, si è già detto, s’incontrano molti medici. «La vita dei
lavoratori dei campi ha parlato attraverso la loro voce, si è fatta strada
attraverso il filtro della loro cultura e dei loro interessi. Con deformazioni
inevitabili: quelle dei tanti medici condotti che provarono a raccogliere il
frutto delle loro esperienze di persone e luoghi. Ciascuno di loro aveva qualcosa
di proprio da dire mentre contribuiva all’opera collettiva», così Prosperi. Il
primo incontro è con Bernardino Ramazzini (1633-1714) e poi con tanti altri,
fino ad Agostino Bertani (1812-1886), al quale dedica parole di riconoscenza
per la sua opera a favore dei contadini. E proprio la documentazione redatta
dai medici, evidenziata da Prosperi, contribuisce notevolmente a illuminare
anche quanto già noto -inchieste, statistiche, ecc.- su quel mondo scomparso. Scomparso,
forse, non è il termine appropriato: nelle campagne italiane, e non solo, vi
sono sempre lavoratori della terra, hanno un colore diverso il più delle volte,
parlano altre lingue, ma la loro voce continua a restare, chissà quante volte!,
muta[7].
[1] Antonio Gnoli, Adriano Prosperi: “Io ci provo, ma quello degli storici sta diventando un mestiere inutile”,
in:
https://www.repubblica.it/cultura/2015/06/29/news/adriano_prosperi_io_ci_provo_ma_quello_degli_storici_sta_diventando_un_mestiere_inutile_-117908267/
[2] Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900)
(1947), Einaudi, Torino 1968, p. 63.
[3] Giovanni Cerro,
Un volgo disperso. Contadini d’Italia
nell’Ottocento, in:
https://www.fondazionesancarlo.it/recensione/un-volgo-disperso-contadini-ditalia-nellottocento/
[4] Qui si cita
solo: Il pane, la beffa e la festa. Cultura
alimentare e ideologia dell’alimentazione nelle classi subalterne, Guaraldi,
Firenze, 1976. È lo stesso Teti che dal suo Profilo Facebook con un post del 7 agosto 2019 invita a leggere
il «bello e importante studio di Adriano Prosperi», aggiungendo: «Leggere… Un volgo disperso… ha anche questa
conseguenza: riappropriarsi di una parte di storia che appartiene quasi a
tutti, e non solo come comunità nazionale, ma come qualcosa che può far parte
della nostra storia familiare profonda». E invia alla lettura «puntuale e
convincente» di Maurizio Sentieri. La recensione di Sentieri dal titolo I contadini, villani, terroni che siamo
stati appare in:
Interessante anche la nota di Giovanni
Falaschi Contadini che appare in:
https://www.doppiozero.com/materiali/contadini.
[5] «Il
cristianesimo, e in particolare il cattolicesimo, non ha mai conosciuto la
compassione». «La compassione è la piena accettazione dell’altro. Anche del
diverso. Il cattolicesimo conosce solo la pietà che è un gesto di
condiscendenza, un rapporto tra diseguali», così il perentorio giudizio di
Prosperi, sia pure nel contesto di una breve intervista come quella concessa ad
Antonio Gnoli e citata appena sopra. Prosperi è uno storico che ben conosce la
chiesa e il suo potere. Tra le sue opere: Tribunali
della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (1996, 2009); Storia moderna e contemporanea (con
Paolo Viola, 2000); Il Concilio di Trento:
una introduzione storica (2001); L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio
Siculo e della sua setta (2001, 2011); L’Inquisizione
Romana. Letture e ricerche (2003); Dare
l’anima. Storia di un infanticidio (2005); Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine (2008); Cause perse. Un diritto civile (2010); Eresie e devozioni. La religione italiana in
età moderna (2010); Il seme
dell’intolleranza. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492 (2011); Delitto e perdono. La pena di morte
nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana. XIV-XVIII secolo (2013,
2016); La vocazione. Storie di gesuiti
tra Cinquecento e Seicento (2016); Lutero.
Gli anni della fede e della libertà (2018).
[6] Matteo Banzola,
Recensione. Adriano Prosperi: Un volgo
disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, in: https://www.lostoricodelladomenica.com/recensione-adriano-prosperi-un-volgo-disperso-contadini-ditalia-nellottocento/; Banzola nello stesso istruttivo testo sottolinea
comunque che Prosperi da «storico
finissimo» non manca di rilevare significative eccezioni.
[7] Si rinvia, quali contributi alla lettura di Prosperi,
alle recensioni: Massimo Bucciantini, Il
mondo scomparso dei contadini, in: Il Sole 24 ore del 19 maggio 2019; Adriano
Sofri, Ci sono tanta carne e tante ossa
nel volgo disperso del 1° giugno 2019, in:
https://www.ilfoglio.it/piccola-posta/2019/06/01/news/ci-sono-tanta-carne-e-tante-ossa-nel-volgo-disperso-di-adriano-prosperi-258178/; Giovanni Cerro, Un
volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, in:
https://www.fondazionesancarlo.it/recensione/un-volgo-disperso-contadini-ditalia-nellottocento/; Francesco
Benigni, La scure dell’igiene sulla
classe oggetto, in:
https://ilmanifesto.it/la-scure-delligiene-sulla-classe-oggetto/; Edoardo
Castagna, Il saggio di Prosperi.
Contadini, dove siete finiti?, in:
https://www.avvenire.it/agora/pagine/contadini-dove-siete-finiti; Alberto
Baldasseroni, Le condizioni dei contadini
italiani nella letteratura ottocentesca, in:
http://www.epiprev.it/materiali/2019/EP5-6/RUB_Libri/RUB-Libri_43-5-6.pdf
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