Staccia, barattolo e carburo
Carmine De Luca*
Il gioco del barattolo e del carburo era tra i giochi proibiti del dopoguerra. Con carburo e barattolo ho avuto a che fare tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta.
Quel gioco era pericoloso. Lo sapevamo. E i grandi facevano di tutto per vietarcelo. A un ragazzo saltò per errore una parte della mano. Era stato incauto nel momento dell’accensione. L’accensione era il momento più delicato; per riuscire bisognava tenere presente e imitare i movimenti dei fuochisti quando avvicinano la fiamma alla miccia dei fuochi d’artificio.
Barattoli se ne trovavano quanti se ne voleva. Carburo no. Bisognava procurarselo il più delle volte rubacchiandolo. Mille pretesti per entrare in tre-quattro nel negozio dove il carburo stava in un grosso bidone; altri pretesti per distogliere l’attenzione del bottegaio; furtivamente si riusciva a trafugarne qualche pezzetto. Era grigio, a sassi più o meno grossi che si sfaldavano facilmente. Lo usavano per la saldatura autogena e per le lampade ad acetilene. Anche per quelle lampade che, in primavera, a Pasqua, accompagnavano la sera del venerdì santo la processione del Gesù morto, una processione ciondolante per vicoli e strade.
Dunque, il gioco. Si fa una buca a terra, vi si versa un po’ d’acqua, poi il carburo; il barattolo, al quale si è praticato un forellino sul fondo, rovesciato, li si incassa nel terreno a chiudere la buca, dove intanto il carburo a contatto con l’acqua sublima e libera acetilene. Si produce nel barattolo una specie di camera di scoppio per l’addensarsi del gas prodotto dalla reazione chimica.
Uno di noi avvicinava la fiamma di una torcia, fatta di un foglio di giornale arrotolato, al foro del barattolo. Uno scoppio, e il barattolo diventava un proiettile. Si faceva a gara a chi riusciva a spedirlo più in alto.
Il gioco comportava alcune abilità. Prima, l’abilità di individuare il terreno giusto per la buca. Un terreno non troppo permeabile: doveva trattenere l’acqua per un tempo sufficiente alla reazione chimica. Ma prima ancora l’abilità di riuscire a procurarsi il carburo: ai bambini non si vendeva, si sapeva dell’uso pericoloso che ne avrebbero fatto.
Terza abilità: la buca di dimensioni giuste, né troppo ampia né troppo piccola. Meglio profonda e stretta.
Quarta abilità: le dimensioni del barattolo. Soccorrevano i residui della cucina. A quei tempi i migliori barattoli erano quelli della “conserva” di pomodoro, stretti e lunghi, credo da due etti e mezzo. Delle stesse dimensioni più o meno degli attuali barattolini per succhi di frutta. Qualcuno di noi aveva scioccamente immaginato che a barattolo grande corrispondesse scoppio più forte e più lunga gittata del proiettile. Ci si provò con un barattolone di pomodoro, di quelli addirittura da cinque chili. Un fallimento. Ne sortì un rumore sordo e slabbrato e un salto storto e basso.
Quinta e più difficile abilità era quella di riuscire ad avere la giusta cautela e attenzione al momento dell’accensione. Chinati, ginocchia a terra, a distanza tale da proteggersi dagli scoppi falliti (quelli che spruzzavano tutt’intorno acqua, carburo e fango).
Il fascino del gioco era dato anche dalla sua pericolosità. Lo sanno benissimo i bambini.
Un altro gioco. Quello che chiamavamo della “staccia”. Qui cade a proposito un riferimento storico-linguistico. Il “Glossario latino italiano” di Piero Sella, nel volume dedicato a Stato della Chiesa, Veneto e Abruzzo, enumera sotto la voce “ludus” il nome di numerosissimi giochi ricavati dagli statuti di varie città. “Ad staczellas” cioè “gioco delle piastrelle” è ricavato dallo statuto di Teramo del 1440. La parentela morfologica tra staczella e staccia è evidente. Fine della citazione.
Per noi la staccia era un pezzo di mattone più o meno ben levigato per meglio afferrarlo e lanciarlo. Io trovavo straordinariamente adatta al gioco la staccia di mattone di argilla, sulle due facce ugualmente ruvida. Altri preferivano un pezzo di piastrella che per me aveva l’inconveniente di presentare una faccia ruvida e l’altra liscia. Al momento del lancio una parte ti scivolava dalla mano, l’altra esercitava maggiore resistenza. Ma era questione di gusti, anche.
Queste le regole del gioco. Ciascun giocatore dispone di una staccia da lancio; un altro pezzo di mattone fa da birillo. Lo si pone in verticale, ad una certa distanza, diciamo dieci metri circa. A turno si lancia. Bisogna colpire e far cadere il birillo.
L’analogia con le bocce è evidente. La staccia era le bocce dei bambini, trenta-quarant’anni fa (forse ancora oggi qualche ragazzino lo gioca) e nel medioevo.
Noi lo si integrava con la posta delle figurine o di monete fuori corso. Sulla staccia-birillo si collocavano delle figurine (quelle di Tarzan-Weissmuller; quelle dei giocatori del Torino: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti…; quelle degli attori hollywoodiani: sopra tutti il fascino erotico di Jane Russell). Si vincevano quelle che, colpito e abbattuto il birillo, si trovavano più vicine alla propria staccia.
Uno degli effetti dei continui colpi era quello di ridurre a brandelli le ormai irriconoscibili figurine. Quale fosse il limite della loro perdita di valore d’uso e di scambio era sempre oggetto di accese discussioni.
Se erano monete al posto di figurine, si montava sul birillo un mucchietto di soldini che facilmente si trovavano in casa, conservati dai tempi della riforma monetaria con il passaggio della monarchia alla Repubblica. In bilico stavano una sopra l’altra monetine diverse, di diverso valore –cinque o dieci i venti centesimi – ma tutte con il profilo e la pelata di Vittorio Emanuele III, re sciaboletta, com’era detto, e dall’altra parte l’immagine di un’aquila (un’aquila imperiale?) del tutto inadeguata all’Italia stracciona o l’immagine di una spiga un tantino più plausibile a dare idea della fame. Ma per noi ragazzini quelle monetine avevano comunque un che di prezioso. Simulavano una prosperità che era solo nei sogni.
Anche questo era un gioco.
*Nota. L’articolo “Staccia, barattolo e carburo” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta.
Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come i disegni.
Cliccare le immagini per ingrandirle.
Hai una esperienza in merito a questo o ad altri giochi da raccontare? Se vuoi, scrivimi: giovannipistoia@libero.it
(20 aprile 2008)
Carmine De Luca*
Il gioco del barattolo e del carburo era tra i giochi proibiti del dopoguerra. Con carburo e barattolo ho avuto a che fare tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta.
Quel gioco era pericoloso. Lo sapevamo. E i grandi facevano di tutto per vietarcelo. A un ragazzo saltò per errore una parte della mano. Era stato incauto nel momento dell’accensione. L’accensione era il momento più delicato; per riuscire bisognava tenere presente e imitare i movimenti dei fuochisti quando avvicinano la fiamma alla miccia dei fuochi d’artificio.
Barattoli se ne trovavano quanti se ne voleva. Carburo no. Bisognava procurarselo il più delle volte rubacchiandolo. Mille pretesti per entrare in tre-quattro nel negozio dove il carburo stava in un grosso bidone; altri pretesti per distogliere l’attenzione del bottegaio; furtivamente si riusciva a trafugarne qualche pezzetto. Era grigio, a sassi più o meno grossi che si sfaldavano facilmente. Lo usavano per la saldatura autogena e per le lampade ad acetilene. Anche per quelle lampade che, in primavera, a Pasqua, accompagnavano la sera del venerdì santo la processione del Gesù morto, una processione ciondolante per vicoli e strade.
Dunque, il gioco. Si fa una buca a terra, vi si versa un po’ d’acqua, poi il carburo; il barattolo, al quale si è praticato un forellino sul fondo, rovesciato, li si incassa nel terreno a chiudere la buca, dove intanto il carburo a contatto con l’acqua sublima e libera acetilene. Si produce nel barattolo una specie di camera di scoppio per l’addensarsi del gas prodotto dalla reazione chimica.
Uno di noi avvicinava la fiamma di una torcia, fatta di un foglio di giornale arrotolato, al foro del barattolo. Uno scoppio, e il barattolo diventava un proiettile. Si faceva a gara a chi riusciva a spedirlo più in alto.
Il gioco comportava alcune abilità. Prima, l’abilità di individuare il terreno giusto per la buca. Un terreno non troppo permeabile: doveva trattenere l’acqua per un tempo sufficiente alla reazione chimica. Ma prima ancora l’abilità di riuscire a procurarsi il carburo: ai bambini non si vendeva, si sapeva dell’uso pericoloso che ne avrebbero fatto.
Terza abilità: la buca di dimensioni giuste, né troppo ampia né troppo piccola. Meglio profonda e stretta.
Quarta abilità: le dimensioni del barattolo. Soccorrevano i residui della cucina. A quei tempi i migliori barattoli erano quelli della “conserva” di pomodoro, stretti e lunghi, credo da due etti e mezzo. Delle stesse dimensioni più o meno degli attuali barattolini per succhi di frutta. Qualcuno di noi aveva scioccamente immaginato che a barattolo grande corrispondesse scoppio più forte e più lunga gittata del proiettile. Ci si provò con un barattolone di pomodoro, di quelli addirittura da cinque chili. Un fallimento. Ne sortì un rumore sordo e slabbrato e un salto storto e basso.
Quinta e più difficile abilità era quella di riuscire ad avere la giusta cautela e attenzione al momento dell’accensione. Chinati, ginocchia a terra, a distanza tale da proteggersi dagli scoppi falliti (quelli che spruzzavano tutt’intorno acqua, carburo e fango).
Il fascino del gioco era dato anche dalla sua pericolosità. Lo sanno benissimo i bambini.
Un altro gioco. Quello che chiamavamo della “staccia”. Qui cade a proposito un riferimento storico-linguistico. Il “Glossario latino italiano” di Piero Sella, nel volume dedicato a Stato della Chiesa, Veneto e Abruzzo, enumera sotto la voce “ludus” il nome di numerosissimi giochi ricavati dagli statuti di varie città. “Ad staczellas” cioè “gioco delle piastrelle” è ricavato dallo statuto di Teramo del 1440. La parentela morfologica tra staczella e staccia è evidente. Fine della citazione.
Per noi la staccia era un pezzo di mattone più o meno ben levigato per meglio afferrarlo e lanciarlo. Io trovavo straordinariamente adatta al gioco la staccia di mattone di argilla, sulle due facce ugualmente ruvida. Altri preferivano un pezzo di piastrella che per me aveva l’inconveniente di presentare una faccia ruvida e l’altra liscia. Al momento del lancio una parte ti scivolava dalla mano, l’altra esercitava maggiore resistenza. Ma era questione di gusti, anche.
Queste le regole del gioco. Ciascun giocatore dispone di una staccia da lancio; un altro pezzo di mattone fa da birillo. Lo si pone in verticale, ad una certa distanza, diciamo dieci metri circa. A turno si lancia. Bisogna colpire e far cadere il birillo.
L’analogia con le bocce è evidente. La staccia era le bocce dei bambini, trenta-quarant’anni fa (forse ancora oggi qualche ragazzino lo gioca) e nel medioevo.
Noi lo si integrava con la posta delle figurine o di monete fuori corso. Sulla staccia-birillo si collocavano delle figurine (quelle di Tarzan-Weissmuller; quelle dei giocatori del Torino: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti…; quelle degli attori hollywoodiani: sopra tutti il fascino erotico di Jane Russell). Si vincevano quelle che, colpito e abbattuto il birillo, si trovavano più vicine alla propria staccia.
Uno degli effetti dei continui colpi era quello di ridurre a brandelli le ormai irriconoscibili figurine. Quale fosse il limite della loro perdita di valore d’uso e di scambio era sempre oggetto di accese discussioni.
Se erano monete al posto di figurine, si montava sul birillo un mucchietto di soldini che facilmente si trovavano in casa, conservati dai tempi della riforma monetaria con il passaggio della monarchia alla Repubblica. In bilico stavano una sopra l’altra monetine diverse, di diverso valore –cinque o dieci i venti centesimi – ma tutte con il profilo e la pelata di Vittorio Emanuele III, re sciaboletta, com’era detto, e dall’altra parte l’immagine di un’aquila (un’aquila imperiale?) del tutto inadeguata all’Italia stracciona o l’immagine di una spiga un tantino più plausibile a dare idea della fame. Ma per noi ragazzini quelle monetine avevano comunque un che di prezioso. Simulavano una prosperità che era solo nei sogni.
Anche questo era un gioco.
*Nota. L’articolo “Staccia, barattolo e carburo” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta.
Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come i disegni.
Cliccare le immagini per ingrandirle.
Hai una esperienza in merito a questo o ad altri giochi da raccontare? Se vuoi, scrivimi: giovannipistoia@libero.it
(20 aprile 2008)
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