LETTURA DEL CANTO XIII
DELL’INFERNO
di Dante Maffia
Nessun poeta mai mi ha
intimorito e reso quasi impotente alla scrittura se non Dante e mi ha molto
consolato apprendere , in tempi recenti, che lo stesso effetto ha prodotto
su Osip Mandel’stam che, una volta
liberatosi dal timore riverenziale, anzi
dallo stordimento, è entrato nella Commedia con una profondità che nessun dantista mai ha dimostrato.
Io non credo di poter fare
altrettanto, ma proverò almeno a cercare di individuare qualcosa sfuggito alle
tante letture. Quindi il mio approccio sarà quello del detective che va alla
scoperta di ciò che non è stato preso in considerazione.
Ad ogni lettura della Commedia, anche
parziale, mi perdo in una miriade di mondi che si sciolgono l’uno nell’altro e
si ricompongono all’apparenza capricciosamente, ma in realtà seguendo il filo
sottile di un divenire che dilata il senso delle cose e lo rende imprendibile.
Dante è la sostanza umana che si sfalda e si ricompone in nuova sostanza, è la
vita che si rinnova nel viaggio continuo, terribile e meraviglioso , attraverso
le tre cantiche: è la sostanza divina che tenta l’approccio all’umano, ed è il
viaggio come raggiungimento massimo dell’essere. Non l’approdo, non la catarsi,
ma il ricongiungimento alle sfere celesti attraverso l’umano. “La poesia di
Dante fa proprie tutte le forme di energia note alla scienza moderna: l’unità
di luce, suono e materia costituisce la sua intima natura”.
Durante questo viaggio ogni incontro con le
ombre è da un lato il peccato da scontare, e dall’altro l’ammonimento a non
persistere nella “ via del sonno”, quella che porta dritto nella selva oscura.
E le ombre a me sembrano tutte a immagine e somiglianza di Dante stesso che
oggettivizza il suo io in un percorso travagliato e intricato, ma sempre
rispecchiandosi, punendosi, passando dentro le pene e uscendone indenne,
purificato. Eppure non c’è nulla di soggettivo, perché non del suo viaggio si
tratta, ma di quello di tutti gli esseri umani che avendo perduto l’amore si
rendono conto di quanto sia prezioso e importante e compiono il viaggio della
purificazione per rincontrarlo. Beatrice dunque non è solo pura immagine
trasparente che vola per i cieli, ma approdo della tensione umana, sfida per
dimostrare a se stessi che spinti dalla forza del sentimento della sublimità si
può riconquistare la persona amata. Se poi la persona rifuggirà lontano avrà
poca importanza, perché ciò che conta è la tensione, l’investimento che si fa,
il “progetto” nel suo insieme.
Ma forse il personaggio che maggiormente
possiamo leggere come l’alter ego dantesco è Pier della Vigna ( o delle Vigne )
, poeta e ministro di Federico II di Svevia, suicidatosi in carcere a causa del
peso insopportabile dei sospetti di Federico e delle calunnie pesanti a suo
carico. Infatti Dante ha per Piero, lo scrive Enrico Malato nella sua recente
biografia, un’ “affettuosa e premurosa attenzione”.
Siamo nel canto XIII, nel girone dei
suicidi, ancora l’imbuto infernale ha larga la circonferenza e tuttavia la
desolazione regna sovrana. Virgilio e Dante , attraversato il Flegetonte a
guado in groppa al centauro Nesso,
subito entrano in un bosco privo
di viottoli, con alberi contorti e intrecciati, velenosi. Si respira
un’atmosfera di pericolo, incombe una sorta di maleficio ma non si sa bene da
cosa provenga.
Dante, per rendere l’assenza di vita, la
negazione della vita realizzata dai suicidi, si compenetra nel silenzio da loro
desiderato, e ci porta in un clima rarefatto, direi metafisico, in cui balza con evidenza il paesaggio ( a questo canto
hanno dedicato opere indimenticabili i maggiori illustratori della Commedia e i
maggiori pittori di tutto il mondo )
descritto per negazioni ( “Non era ancor di là Nesso arrivato”, “Non fronda verde”, “non rami schietti”, “non
pomi v’eran”, “non han sì aspri sterpi” ). I cinque non ( quattro dei quali in fila e il primo a
inizio del canto )sembrano colpi di tamburo che deliberano il sempre del gesto
inesorabile e ineluttabile compiuto dai suicidi. E se si pensa che su cento canti soltanto il XXIV del
Purgatorio comincia con né, ci si può rendere conto dell’importanza che
assumono i cinque non tesi a imitare il gesto dei suicidi.
Come è nelle scenografie
sinfoniche dantesche, poi appaiono le
Arpie, le figlie di Posidone e di Gea che avevano la testa femminile con lunghe
chiome e corpo d’avvoltoio con ali di vampiro e unghioni alle zampe, secondo
alcuni, e che invece, secondo la versione dantesca, erano le figlie di Taumante
e di Elettra, col volto di donna e il corpo d’uccelli rapaci.
Si accetti la versione omerica, quella
virgiliana o quella di Dante, certo è che queste figure orribili, che
sporcarono di sterco perfino le mense dei compagni di Enea alle isole Strofadi,
mettono paura e soggezione e sembrano infestare l’aria di qualcosa di troppo
appiccicoso e fastidioso, di presagi e di ammonimenti. Dante non ha mezzi
termini nel presentarcele:
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto il gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
Avvertiamo una ambiguità che
scorre rapida e si diffonde ovunque, al punto che gli alberi, prima osservati
nella loro nodosità e nella loro miseria, vengono ribattezzati“strani” ( ma
Natalino Sapegno vuole che “strani” sia riferito a lamenti ) , cioè diversi da
come solitamente sono, inusitati e difformi così tanto dalla norma che destano,
oltre a curiosità, stupore, sospetto,
timore e turbamento, come dice Gianfranco Folena.
Le consonanti, in questo
incipit, sembrano ergersi e diventare esse stesse arbusti, “stecchi con tosco”.
Naturalmente, ve ne siete già accorti, la
mia lettura non sarà canonica,dovrei ripetere ciò che hanno detto meglio di me
dantisti e filologi, da De Sanctis a Michele Barbi, da Singleton a Bachtin, da
Petrocchi a Bosco, da Croce a Sapegno, da Spitzer ad Auerbach, da Porena a
Sanguineti, da Petronio a Scartazzini, eccetera eccetera. Io non sono un
filologo e ho terrore dei filologi a cui
vanno le medesime considerazioni del mio conterraneo Tommaso Campanella. Un Dante letto e riletto in chiave
storicistica ritengo che sia un lavoro improbo e inutile; allontana dal senso
profondo della sua poesia, alza muri insormontabili, anche perché non tutti i
personaggi sono universalmente conosciuti e Firenze sarebbe ristretta a un
piccolo borgo ingombrato da figure senza rilievo. Perciò mi preme soprattutto mettere in
evidenza il mio rapporto con le emozioni che questi versi di Dante mi danno e
che cosa si può trarre da una visione così “realistica” e insieme “metafisica”
della condizione post-mortem dei suicidi.
E’ vero che una
interpretazione impressionistica può prestare al Poeta “sentimenti e idee che
potrebbero essere alieni da quelli che furono realmente i suoi”, ma voglio proprio assorbire e trasportare nel
mio mondo e nei miei interessi una poesia che sento straripante di musica, di
spazi infiniti, di verità assolute e,
nello stesso tempo, pronta a divincolarsi dalla contingenza e assumere nuova
dimensione, diventare ogni volta la verità.
Silvio Pasquazi ha notato e sottolineato che qualche volta è avvenuto
questo tipo di rapporto e, pur essendo egli un filologo ortodosso, non si è mai
scandalizzato più di tanto, al punto che in un suo saggio, Dante oltre il
Medioevo, afferma che questo “modo di avvicinare la poesia dantesca, pur con
tutte le sue pecche, costituisce tuttavia una riprova della universalità del
Poeta, al quale si è applicato, e non poteva essere diversamente, quel
principio che venne formulato dalla filosofia del suo tempo: ‘quidquid
recipitur, ad modum recipientis recipitur’ ( qualunque cosa venga ricevuta,
viene ricevuta secondo le possibilità di chi la riceve).
Nel 1986 Enrico Malato, pubblicando una
lettura del V Canto dell’ Inferno, propose “una interpretazione del ben noto
episodio di Paolo e Francesca in cui si offre una plausibile spiegazione
dell’apparentemente contraddittorio, certo ambiguo atteggiamento di Dante, il
quale mostra una profonda solidarietà ( e provoca la solidarietà dei suoi
lettori ) per la peccatrice di Rimini, nel momento stesso in cui la presenta…
Al punto che, in età romantica … Ugo Foscolo e Francesco De Sanctis
immaginarono un inverosimile atteggiamento assolutorio di Dante verso i due
amanti, scrivendo il primo che ‘La colpa
è purificata dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la
confessione della libidine’, e il secondo di ‘un sentimento che purifica e un
pudore che rivergina; talché a tanta gentilezza di linguaggio mal sai
discernere se hai innanzi la colpevole Francesca o l’innocente Giulietta’ “.
Lo stesso può accadere leggendo il XIII.
Per Pier della Vigna Dante “mostra una
profonda solidarietà”, anche se è ferma la sua condanna per chi ha fatto
violenza contro se stesso. E io credo che l’eccesso di implicazioni retoriche
di questo canto non sia dovuto a un adeguamento di Dante allo stile elegante,
aulico, forbito e retorico di Piero,
burocrate e poeta di corte, ma alla rarefazione di vita respirata nel
girone. Lo Spitzer insiste, e con lui Jacomuzzi, Dughera, Ioli, che ci troviamo
dentro una disarmonia morale per cui il Poeta
infittisce la messe di figure retoriche fino all’esasperazione. Ma per
dare questa idea non sarebbe bastato il ricorso all’onomatopeica senza abbondare in annominazioni, paranomasie,
iterazioni, antitesi, parallelismi, metafore arditissime?:
… e
voi non gravi
perch’io un poco a ragionar m’inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi
Del cor di Federigo, e che le volsi
Serrando e diserrando, sì soavi
Che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
Credo invece che l’animo di
Dante, uomo d’azione, fortemente legato alla vita nella pienezza di tutte le
azioni, situazioni, ideali e quotidianità, abbia subito un momentaneo e
immediato crollo al cospetto del bosco senza “neun sentiero”, con gli alberi
“nodosi e ‘volti” e gli “stecchi con tòsco”. Non c’è in giro un’anima, è
proprio il caso di dirlo, tutto è spento, silenzio. Così lo smarrimento si
dilata e immediatamente il paesaggio esteriore diventa quello interiore. Di
conseguenza le parole, le espressioni, il ritmo si fanno irti, spinosi,
impraticabili. Non si tratta dunque soltanto di onomatopeica del suono, ma
anche di “onomatopeica” delle sensazioni. Ecco perché Dante non è, come ancora
sento affermare, soltanto il più grande poeta del Medioevo, ma il più grande in
assoluto, perché la coscienza e la consonanza della sorte umana sono ritratte fuori
da ogni situazione storica, in una totalità spirituale mai inficiata da
accadimenti di qualsiasi genere.
“Se sapessimo ascoltare Dante riusciremmo a
percepire il nascere del clarinetto e dell’oboe, il trasformarsi della viola in
violino e l’allungarsi dei pistoni del corno: sentiremmo formarsi
nebulosamente, intorno al liuto e alla tiorba il nucleo della futura, omofona
orchestra tripartita.
Se sapessimo ascoltare Dante, ci troveremmo
immersi in quel flusso di energia che nel suo insieme costituisce la
composizione, nei suoi particolari la metafora, e che, nella sua elusività, è
similitudine generatrice di definizioni destinate a essere assorbite dal flusso
stesso, ad arricchirlo di sé, a perdere ben presto la primogenitura, non appena
abbiano guadagnata la prima gioia del divenire, per aderire alla materia che
irrompe tra i significati e li sommerge”.
Non so se Gianfranco Contini conoscesse il Discorso su Dante scritto da Mandel’stam
probabilmente negli anni trenta, ma in Un’idea di Dante egli sembra arieggiare
i giudizi del poeta russo, tenerli in grande considerazione, infatti cita, nel
capitolo intitolato Dante come personaggio-poeta, una frase di Novalis, poi
ripresa da Benn: “Arte come antropologia progressiva”e un po’ dopo: “io
qualunque, da rappresentare adeguatamente l’umanità intera”.
Naturalmente non mi soffermo
sui saggi arcinoti di De Santis e di Croce, o sulle posizioni di Bettinelli e
di Gaspare Gozzi: finirei per confutare o aderire, condividere o negare. Per
esempio lo scritto di Montale non porta nessuna novità, e tutto sommato neanche
quelli di Pound e di Eliot (diversamente dalle interpretazioni di Maria
Zambrano e di Jorge Luis Borges) ma hanno il pregio di vedere l’uomo in Dante,
l’uomo di ogni tempo, “che fa la propria esperienza concreta nella sua epoca,
ma la supera e rende testimonianza dell’umanità che è in lui, per mezzo
dell’espressione più duratura di cui l’uomo è capace: la poesia” ( Pasquazi).
Se questi poeti del nostro tempo non si
fossero messi nella condizione di abbandonarsi a Dante interamente, con
dedizione, non avrebbero potuto cogliere quel seme del divenire che nella
Commedia è il dato più limpido e più segreto.
Perché a scuola il nostro Sommo è stato
sempre mal digerito? Chi non ricorda i
famosi sesti canti fitti di annotazioni, di postille, di cavilli, di inutili
astruserie? Come si sarebbe potuto amare e comprendere l’orchestrazione
dantesca e la sua spinta perenne a guardare dentro il flusso degli eventi che
non hanno requie e si spiegano costantemente soltanto se prescindiamo dai dati
sordamente esibiti e ne prendiamo soltanto l’atteggiamento umano e spirituale,
in una parola, il metodo?
Come avremmo potuto
comprendere le indicazioni e le spinte al futuro di una poesia che da dentro le
cose ricostruisce ogni giorno, ogni attimo il senso dell’uomo, se i professori
ci giravano il capo all’indietro e pretendevano il “riassunto” dei canti, le
biografie di ogni personaggio incontrato? Così i più attenti, ma soltanto i più
attenti e interessati, diventavamo, a nostra insaputa, bettinelliani e
crociani; gli altri mettevano da parte la Commedia, subito dopo aver pagato la
pena delle interrogazioni.
Che cosa potrebbe dire Pier
della Vigna a noi uomini del duemilaecinque se ci soffermassimo soltanto ai
suoi dati biografici, al suo essere stato ministro di Federico, fedele o meno,
al suo essere stato un discreto poeta della Scuola Siciliana? Questa è cronaca
del Duecento e se non entra nel circuito di un rapporto col nostro tempo,
meglio leggere “Il Messaggero”, “Repubblica” o “Il Corriere della Sera”.
I protagonisti della
letteratura ( romanzesca o poetica ) sono fantasmi che popolano la mente e il
cuore dei lettori se la loro umanità e le loro tensioni ideali riescono a
diventare lievito del nostro percorso, altrimenti sono soltanto stereotipi di
un mondo lontano e inerte, privo di qualsiasi ragione. Figuriamoci se i
fantasmi sono già fantasmi di per sé e non trovano la via del cuore e quella
della parità anagrafica con chi legge.
Pier della Vigna, dunque, ci
interessa perché è figura e controfigura
di un’intera corte imperiale ripetibile all’infinito; perché è il simbolo di
una civiltà che non muore mai; perché è la voce di una coscienza che non si è
arresa all’offesa e pretende il riscatto; perché è il dolore della perdita
della vita nella ineluttabilità dell’eternità; perché è il tragico epilogo di
un’esistenza dilaniata dalla vergogna per colpe non commesse; perché è l’accusa perenne contro le
delazioni, le invidie, i misfatti, le orribili trame del potere; perché è la
vittima di una condizione che col passare dei secoli non ha mutato di un
millimetro la sua oggettività; perché è il rimprovero alla cecità di chi non sa
guardare dentro la verità e si lascia andare alle brame degli adulatori e dei
fedifraghi; perché è il grido dell’onestà che rivendica giustizia e
gratitudine.
Potrei continuare a specificare ancora molto
altro. Piero resterà sempre immerso nell’anonimo albero spinoso e tosco e col
passare dei millenni la vita negata non gli sarà restituita, ma avrà facoltà,
perennemente, di vivere , passatemi il bisticcio, nel suo essere assenza della
grazia e del palpito umano. Ha la parola, non gli è stata negata neppure sotto
quelle vesti vegetali orribilmente serrate nella uniformità del bosco.
E quando le trombe squilleranno per riavere
i corpi, i suicidi, e quindi Piero, vedrà penzolare dai pruni il suo corpo e
non potrà riconquistarlo, ma non sarà un’aggiunta di condanna, perché il suo
esempio continuerà a restare imperituro.
Qui Dante, com’è noto a tutti, si discosta
dai dettati della Bibbia, ma non poteva fare diversamente se voleva continuare
nella ferrea condanna di chi ha deciso di finire i giorni prima del tempo
stabilito. La vita è un dono. E poi il Poeta voleva con estrema immediatezza
rappresentare il contrappasso e renderlo un dato efficace ed esemplare, quasi a
voler stemperare la sua simpatia per Piero.
Eppure non leggiamo una sola parola di
condanna o di dubbio nei riguardi di Federico che fu accecato dai cortigiani e
ridusse alla gogna il suo ministro prediletto. E dalla bocca di Piero in fondo
non escono parole di condanna o comunque cattive neppure nei confronti dei
traditori e degli invidiosi. Tutto è concentrato su se stesso, come una
fatalità a cui non ha saputo sottrarsi e che l’ha portato alla decisione
orribile.
Ma dicevo che Dante ha simpatia per Piero.
Quali le ragioni? Perché è poeta? O perché al tempo in cui fu bandito da
Firenze ( e quindi accusato ) anch’egli pensò in un attimo di debolezza di
farla finita? E’ certo che la descrizione del bosco è fatta con una mirabile
misura narrativa che riesce a contemperare magistralmente il sentire e il
vedere:
Io sentia d’ogni parte trarre guai
e non vedea persona che ‘l facesse;
perch’io tutto smarrito m’arrestai.
Siamo in un bosco, cioè in una
selva. Proprio come all’inizio del primo canto. E poiché Dante non lascia mai
niente al caso e mai niente orchestra per distrazione, è chiaro che la selva
dei suicidi simboleggia, per sineddoche, tutto l’inferno, che nella sua
accezione più lata è proprio negazione della vita.
E si badi che Dante non parla
direttamene con Piero. Invita Virgilio a farlo. Egli agisce spezzando il ramo
che sanguina e parla, egli è fautore del dolore, ma senza parole né dette né
ricevute direttamente. Anche ciò fa pensare alla goffaggine di Dante che quasi
sempre ha la balia che lo accompagna, Virgilio o Beatrice. In questo caso come
avrebbe potuto, lui vivo, essere parte attiva di una conversazione, di una
delle tante “interviste” fatte ai vari protagonisti incontrati girone dopo
girone?
Perché riscatta Piero dalle
accuse che gli erano state mosse?
Anche in questo caso io vedo
una difesa della gestione politica di Dante, il se stesso Priore della
città che viene guardato e giudicato.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Si noti come gli ossimori (appannaggio indiscusso della poesia
contemporanea ) vengono utilizzati da Dante e come egli appoggia due infiniti
su un gerundio, quasi per rendere la situazione precaria. Simili accorgimenti
linguistici, che seguono l’andamento psicologico e si snodano con una sorta di
pacata pudicizia, il Poeta li adopera spesso, rendendo così le atmosfere sempre
vive e palpitanti, sempre sospese e immerse in un’azione continua.
E’ stato notato comunque che in questo canto
c’è un’accentuazione di carattere linguistico molto forte e che è dovuta
proprio alla condizione dei suicidi. Ho detto prima che Dante non ha un
rapporto diretto con Piero e questa neutralità crea una sorta di spaesamento in
lui ( e anche nel lettore, naturalmente ), al punto che per un istante
ritorna ( è una difesa per
allontanare la comprensione, per non
lasciarsi imbrigliare nel patetico, come ha osservato De Sanctis ) al
linguaggio provenzale o, forse, al linguaggio delle rime petrose, aguzze, irte.
Quindi, se da una parte egli si difende, dall’altra “simpatizza”
linguisticamente e si adegua al fuoco spento, alla mancanza di luce, di amore.
Il bosco è un quadro rarefatto, con mancanza
di colori ( eppure non si dimentichi che Dante è un colorista esperto e
dovizioso, ricco e cromaticamente eccelso, amico di Giotto e conoscitore della
pittura di Cimabue ). In tutto il canto, se si esclude bruno, due volte il verde ( il primo riferito
a sangue e gli altri due alle piante, quindi naturalmente tali ) e il nero dei
cani, non c’è una sola pennellata. L’aria è asfittica, intrisa di quel vuoto
che sembra nascere dalle stesse parole e raggelarsi nei “guai”, nei lamenti .
Su
“usciva insieme / parole e sangue” si è scritto molto, ma forse in questo caso
Dante voleva semplicemente far reggere a usciva le parole e poi il sangue. Ma
le congetture sono tutte lecite in
poesia, soprattutto quando si tratta di parole che escono dalla pianta,
mischiate al sangue. Ecco, non si avverte in questa espressione nessun tipo di
rigetto, di disgusto, di irritazione. E’ un fatto naturale che il sangue sia
misto alle parole di Piero, ed è naturale che tracce di vita terrena restino
nei dannati, altrimenti sarebbero soltanto anime prive di sensibilità e di
ardori. Tutta la Commedia si muove in questa terrestrità ricca di ricordi, di
indignazioni, di amore, di furori, e se Piero può discolparsi dinanzi al mondo
lo deve all’aura di vita che Dante si trascina con sé e che “invischia” Piero
nella confessione, senza tergiversazioni.
Ha scritto Eliot : “La contemplazione
dell’orrido o del sordido o del disgustoso da parte di un artista è l’aspetto
necessario e negativo dell’impulso che porta alla ricerca della bellezza”. Poi
Eliot cita Sidgwick: “Nell’incontro con Ulisse, come in quelli con Pier delle
Vigne e con Brunetto Latini, il predicatore e il profeta si perdono nel poeta”.
E’ vero, si tratta sicuramente di “una falsa esemplificazione”, e tuttavia
sento che il critico inglese abbia colto il senso profondo di certi
atteggiamenti danteschi miranti a
riportare ogni cosa nella dimensione e nella realtà della poesia
servendosi dell’orrido o del disgustoso.
Perché se predica o profezia si incontrano sparse lungo il tragitto di
tutta l’opera è perché Dante è capace di
trasformare la filosofia in visione. Se così non fosse il Poema perderebbe la
sua aura mistica e sarebbe un trattato di teorie. Invece noi percepiamo la sua
dottrina, che illumina e spiega con una serie di immagini vertiginose, ne seguiamo lo “scolpire” continuo dentro
riflessi di idee diventate immagini. Egli pensa per immagini, l’annotazione è
ancora di Mandel’stam, “mediante una proprietà della materia poetica” che il
Poeta russo propone “di chiamare reversibiltà o convertibilità” o , se
volete, duttilità, quella che permette
di far diventare Dante coetaneo di ogni epoca, gazzettiere delle coscienze,
modello che sa leggere gli eventi anche del futuro.”Non è possibile leggere i
canti di Dante senza rivolgerli all’oggi: sono fatti apposta, sono proiettili
scagliati per captare il futuro, ed esigono un commento futurum”.
Chi ha seguito, per fare un solo esempio,
l’uragano abbattutosi sulla politica al tempo di mani pulite, ha potuto leggere
spessissimo sui quotidiani, o ascoltare alla radio e alla televisione, che si
trattava di un inferno dantesco e i personaggi messi sotto accusa sembravano
essere usciti dalle bolge di Satana. Molti politici furono paragonati ( a torto
o a ragione ) a Pier della Vigna. Si sprecarono le citazioni, quelle ormai
proverbiali che, nonostante l’uso e il logorio, non hanno perduto la loro
efficacia. E’ evidente che nelle figure dantesche e nei suoi versi, anche
singolarmente presi, fluisce la verità della vita. Piero non è l’uomo
medioevale , ma un rito che si è ripetuto e si ripeterà , è il ritratto di una condizione con la quale l’uomo si
troverà quale che sia il mutare delle stagioni e dei tempi. Ecco perché molti
studiosi si sono soffermati su questo (
vile o coraggioso ? ) essere che ingiusto fece sé contro sé giusto.
Molto si è detto anche su il fiorentino
senza nome incontrato tra i suicidi. Interpretazioni affascinanti e
coinvolgenti e, come al solito, troppo erudite. Forse l’interpretazione di Boccaccio e di Benvenuto è quella che convince di più,
sostengono che Dante volutamente abbia lasciato questo dannato nell’anonimato
“perché tutti i violenti di Firenze avessero tale infamia”. Io credo comunque che egli abbia inserito
questa piccola digressione per ragioni puramente tecnico-narrative. Il canto, è
stato ripetuto più volte, è perfetto, è uno dei più unitari di tutta la
Commedia e va letto nella sua totalità se non si vuole perdere la bellezza e la
carica di drammaticità e di finezza psicologica emersa durante il colloquio con
Piero..
Alcuni commentatori si sono addirittura
stupiti invece che nel girone dei suicidi siano stati messi anche gli
scialacquatori, puniti ancor più severamente. Ma non bisogna dimenticare che la
classe borghese e mercantile ( si veda il bellissimo testo di Vittore Branca
sulla epopea dei mercanti nel medioevo ) aveva bisogno d’essere sferzata e
fronteggiata da rigore morale e doveva accollarsi doveri molto precisi aiutando
lo sviluppo economico della patria, facendo carità, dovendo essere solidale con
i non abbienti. Tuttavia ciò non dovrebbe indurre in errore e far dire, per
esempio a Ezra Pound, che “Dante è più il culmine di un’epoca che l’inizio di
un’altra”. ( Naturalmente non va detto neppure che Dante è artista che anticipa il Rinascimento ). In questo modo ogni poeta diventerebbe solo e
soltanto documento di una civiltà e perderebbe la sua portata non appena la
civiltà muta il suo modo d’essere e si espande in altre direzioni. Invece ogni
poesia non è mai né definita né definitiva e si arricchisce col tempo ( se
poesia vera è ), “di nuovi toni e di nuovi colori”. L’espressione è di Mario
Fubini, ma non è il caso di insistere sui caratteri generali del poema sacro.
Vediamo piuttosto se il tredicesimo dell’Inferno possa essere considerato ( un
paio di volte ho fatto riferimento all’orchestrazione dantesca ) una suonata
sinfonica , un concerto d’organo, o
altro.
Quando Dante giunge alla selva dei suicidi è
subito avvisato da Virgilio delle sorprese che avrà. Ma pur aguzzando lo sguardo non riesce a
discernere nulla, se non alberi e alberi molto particolari. Intanto si odono
lamenti arrivare da chissà dove.
Non sembra una scena del teatro di Samuel
Beckett?
E la scena si dilata e diventa
sempre più assurda e incredibile, disorientante. Appena strappa un rametto il
tronco geme e s’imbratta di sangue. Così il Poeta percepisce insieme il “fiotto
di sangue parlante” e le “grida sanguinose”, come nota Spitzer, “orribile
rivelazione dell’ibrido”, che crea uno stato di maggiore confusione in modo che
il paesaggio surreale e chiuso nelle linee fitte dei tronchi e degli alberi
diventa all’inizio il protagonista principale , in cui a un certo punto
troneggia Pier della Vigna.
La scena ha un alone di misteriosa attesa:
sembra che una maledizione incomba su gesti e immagini, su tutto, ma dopo
essere stato spezzato il rametto l’umano entra in gioco e s’impasta
all’atmosfera infernale provocando una serie di reazioni che hanno via via una
maggiore tensione di paura.
Teatro dell’assurdo e subito dopo immagini e
scene da cinema dell’horror. In Dante sono contenuti tutti i generi letterari e
artistici di là da venire, e non sembri una esagerazione. Egli sa entrare con
prepotenza in ogni ragione poetica e trarne sviluppi spesso imprevedibili. Si è
fatto mai caso, per esempio, che Dante opera una demitizzazione costante dei
personaggi, “facendo risaltare soprattutto come il peccato sia una forma di
cristallizzazione di un momento della vita ( l’amore, la politica, il prestigio,
ecc. ) che continua nell’aldilà, dove si fissa per sempre in forme emblematiche
e talora paradossali” ? ( Angelo Marchese ).
Una attenzione particolare va data al
linguaggio utilizzato in questo canto. Mi riferisco a linguaggio nell’accezione
di Leo Spitzer che non fa riferimento al linguaggio in sé quanto alla produzione del linguaggio dei
suicidi. Dante è esplicito a questo proposito, ma il dato è sfuggito a tutti i
commentatori prima di Spitzer. Le parole di Piero sono soffi improvvisi, note
aeree che danzano in una vischiosità irrisolvibile, e pur essendo dolore umano
quello da lui accusato, in effetti ha sincopi quasi astratte, un fruscio che
scorre non simile al vento, ma di vento.
Voce umana ed elemento atmosferico hanno
trovato un loro modo d’essere negli alberi, si sono fusi in un timbro sonoro
che ha dell’inaudito. Come si fa a sommare due cose diverse? L’una entra
nell’altra e la restringe o la dilata, certo è che diventa miscuglio
innaturale. Ed è questo miscuglio innaturale e improbabile che si fa voce dei
dannati. La loro colpa è così grande che hanno perduto persino la originaria
favella ( conservata intatta e riconoscibile da tutti i peccatori degli altri
gironi ) ); adesso sono prodotto anomalo del mondo vegetale e di quello umano.
Dante, a questo punto, non può che entrare
nella pienezza del clima venutosi a creare e, pur con titubanze e sempre
delegando il Maestro, sfodera un vocabolario fitto di consonanti, come ho già
ricordato, aspro, volutamente carico di suoni corposi e pesanti, in modo da
rendere l’idea delle mutilazioni, dello scempio, della degradazione più
abietta.
Spitzer chiama questo
procedimento “simbolismo fonico”, un adeguamento a ciò che vede e ascolta, a
ciò che prova, a ciò che non riesce a comprendere. Eppure non si avvertono
sussulti di stupore: il Poeta domina l’impatto con una maestria senza pari,
diluendo la possanza del dettato in tanti rivoli, in uno sparpagliamento che
tiene conto dell’andamento lirico-discorsivo senza disperdere la portata
evocativa e quella, direi, rivoluzionaria, addirittura scandalosa.
C’è chi ha parlato di disarmonia discutendo
di questo canto. In effetti si entra in una trama che sembra smagliarsi ad ogni
attimo, ma è soltanto un accorgimento retorico: Dante dosa immagini e idee,
artifici retorici e sensazioni e li adegua via via, calcando prima su intarsi
che sembrano sfaldarsi ad ogni rintocco di accentuazione semantica e poi su
analogie che coniugano i contrari e ne fanno quella suonata per organo che fa
rimbombare le arcate dell’esistere fuori e dentro l’Inferno.
La suonata non divaga però mai; note
roboanti si alzano, con echi misteriosi, attorno a Piero, grande pruno con una
sua individualità spiccata, e si placano
nel momento in cui l’anonimo fiorentino entra in scena. I cani che inseguono
gli scialacquatori creano un disastro , le fronde si spargono, e Dante “rauna”
le fronde sparte.
Nel finale la musica rallenta il suo ritmo.
L’inserimento della “caccia” ha tolto tensione alla cupezza e solennità della
confessione di Piero ( si noti che anche questa scena, molto usuale nel mondo medioevale, in Dante
acquista un vigore nuovo, forse perché straziatamente allusiva, forse perché
vibrata sulla metafora, ma forse soprattutto perché i versi hanno una
cristallina risonanza, sono scritti in una lingua “arrendevole”, ( cito ancora
Mandel’stam ) e hanno scatti lirici di straordinaria efficacia pur restando
fedeli a un realismo sorprendentemente legato alla quotidianità.
Ed ecco due dalla sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che della selva rompìeno ogni rosta.
Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte
le gambe tue alle giostre dal Toppo!”
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece groppo.
Di retro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.
In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Si noti come la musica si fa
ariosamente solenne. I veltri che escon di catena danno l’idea del divicolarsi
dalla staticità, ma quel che più fa pensare è che per la prima volta assistiamo
alla contaminazione di un peccato con un altro. I punitori degli scialacquatori
interferiscono nella sfera dei suicidi, sbranano il fiorentino e lo sminuzzano.
E sappiamo che orribile strazio è questo sminuzzarsi.
Perché mai avviene per opera
dei cani? Che cosa ha voluto significare Dante con questa scena? Che i due
peccati sono equivalenti? O che altro?
Che cos’è, comunque, “l’affascinante arrendevolezza” di cui parla
Mandel’stam? La fame versificatrice dell’italiano antico, il suo appetito
animalesco, da adolescente, per l’armonia, il suo desiderio sensuale di rima” ?
E’ la qualità della nostra lingua che si fa guidare docilmente dai poeti senza
sottrarsi ai capricci e alle trasformazioni. Nella lingua russa , invece, non è
possibile ottenere le rime servendosi delle parole così come sono registrate
nel vocabolario , perché le vocali conservano il loro valore fonetico tipico
solo quando sono accentate. E tuttavia non si tratta soltanto delle differenze
tra una lingua e l’altra; c’è di più, c’è la musica, che come uno scandaloso
banditore corre da un verso all’altro e accende vocali e consonanti, vivifica
le immagini, le scioglie in visioni, in un dinamismo pittorico e musicale che
non ha eguali nella poesia di tutti i tempi. Anche le idee, i sentimenti, le
emozioni, le tensioni interiori non si arroccano nell’apoteosi di una Verità
conquistata per sempre e rigidamente posta a guardia della coerenza sorda. Dante
lascia sempre uno spiraglio al suggerimento, al lettore che si rinnova secolo
dopo secolo.
Pier della Vigna, l’anonimo fiorentino, gli
scialacquatori così diventano ipotesi di una condizione e quindi materia sempre
in divenire.
Da ciò mi auguro risulti chiaro che “Il mio
modo di accostarmi alla materia è basato sul precetto di Matthew Arnoldo di
lasciar libero gioco al pensiero intorno a un tema che molti hanno indagato e
pochi hanno cercato di vedere in prospettiva”. ( Northrop Frye ). In tutti i
modi io oggi vi ho presentato, è chiaro, il mio Dante e il mio Pier della Vigna però tenendo ben i
tre requisiti di un buon critico suggeriti da Richards ne L’analisi di una poesia. Ho cercato di
rivivere fedelmente l’esperienza umana espressa nel canto tredicesimo, ho
cercato di distinguere le esperienze l’una dall’altra, “per ciò che concerne le
loro caratteristiche meno superficiali e infine ho cercato di essere un buon
giudice di valori.
Ma anche dopo questo corpo a
corpo tra Dante Alighieri e Dante Maffia io resto stupito e smarrito, anzi
maggiormente stupito e ancora più smarrito: la poesia di Dante , tutta, non
solo perché il Poeta è il maggior genio linguistico di tutti i tempi, come
sostiene Auerbach, è un immenso lampo che squarcia le tenebre dell’universo e
dà agli uomini un acconto di eternità.
Dante Maffia
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