Il cavallo, che
era saggio e non stupido, capì. Comprese che era tempo di prendere
provvedimenti e si accinse alla bisogna con le migliori intenzioni. Ma cosa
avvenne? Che i provvedimenti non si lasciarono prendere. Saltarono sul tetto
della casa del parroco e invocarono il diritto d’asilo, e da lassù
bersagliarono i passanti con tegole marce e nidi di rondine. La gente si
assembrava sempre più sul sagrato, e chi patteggiava per il cavallo saggio e
chi si schierava a favore dei provvedimenti. Ma ben presto i cittadini
cominciarono a schierarsi contro di loro. Così cominciò la caccia ai
provvedimenti che più nessuno ormai osava difendere; erano in realtà
provvedimenti molto impopolari. I provvedimenti non si lasciavano prendere, il
cavallo saggio non riusciva più a salvare le vecchiette e a uccidere i microbi;
la confusione era sempre più triste. Il cavallo saggio non resse la tensione e
si ammalò gravemente.
Il suo grido di
dolore fu ascoltato dal fratello minore che, pur essendo lontano in altri
luoghi, capì cosa stesse succedendo e di quali famarci il saggio fratello avesse
bisogno. Si sarebbe sicuramente salvato, e con rinnovate energie ritornato alle
sue utili occupazioni. Ma bisognava recapitargli con urgenza il farmaco. I
cittadini informati si dettero subito da fare. Un ciclista si offrì di portare
le pastiglie, inforcò la biciletta a vela e il vento lo spinse veloce. Tutti
gli altri a fargli largo con impegno degno di onesta causa comprendendo l’importanza
degli avvenimenti, e servendosi degli strumenti che si trovavano a portata di mano
in quel tempo, spianarono montagne, gettarono ponti sui fiumi, insomma fecero
di tutto e di più per facilitare il compito del ciclista. Il risultato di
questo magnifico sforzo collettivo, come dire nessuno si salva da solo, fu che
il farmaco arrivò in tempo e il cavallo saggio, recuperate le forze, catturò i
provvedimenti, li costrinse a bere le pozzanghere e così le vecchiette poterono
attraversare la strada all’asciutto e non intasare più la foce del Po. Ma,
soprattutto, il saggio cavallo poté continuare a uccidere i microbi. Li
uccideva uno alla volta, schiacciandoli tra i due zoccoli; morendo essi
pronunciavano frasi storiche ma sconnesse e facevano addirittura testamento a
favore della città.
Questo
importante volumetto ha fatto conoscere, e non poco, anche alcuni aspetti poco
noti di Rodari: lo scrittore satirico e irriverente, paradossale e surreale. Quel
testo del 1990 non è più in commercio. Ma nel 2011 l’Editore Einaudi riprese
quel lavoro curato da Carmine e lo ripropose mantenendo anche la prefazione di
Sanguineti. Una ulteriore occasione per far conoscere anche a nuovi lettori
quel filone satirico e grottesco degli scritti di Rodari; filone che, in
verità, non era mai sfuggito a De Luca, e che aveva tenuto a mettere in rilievo
ancor prima, nel lontano 1982. Conviene, quindi, fare un piccolo passo
indietro.
«Rodari
satirico», continua De Luca, «presenta il suo biglietto da visita fin
dall’inizio con il gioco di parole «lepido/lapide»: il primo termine produce il
titolo Poesia lepidaria, il secondo dà il titolo a quattro dei cinque
componimenti (Lapide seconda, Lapide tredicesima, Lapide quattordicesima, Lapide
quindicesima). Ma la coppia può suggerire anche alcune riflessioni: sono
lepidezze sulla morte; sono lepidezze sul morto linguaggio delle lapidi; ecc.».
De Luca ci
informa che in una sola occasione due di questi componimenti (Lapide quattordicesima e Lapide quindicesima) «sono stati
riproposti e considerati per quello che in effetti sono». Cesare Vivaldi, in
effetti, le inserisce nell’antologia «Poesia satirica d’oggi» (Guanda, Parma
1964). Scrive ancora De Luca: «Nell’introduzione al volume Vivaldi colloca
questa attività di Rodari all’interno di un filone satirico e grottesco della
nostra poesia al cui capo sta Palazzeschi. E questa «linea palazzeschiana» dove
Rodari sta in ottima compagnia insieme con Nelo Risi, Sanguineti, Fratini,
Vollaro, ecc., è caratterizzata – secondo quando dice Sanguineti citato in
Vivaldi – dal fatto che «il margine d’ironia sia ritornato ad essere […] come
già lo fu, nel nostro secolo, in altre decisive e critiche svolte, condizione
indispensabile per sfuggire ad un gioco precostituito di forme e motivi».
Nelle «lapidi» è
da notare, insieme al divertito gioco degli incastri di troppo usati stereotipi
linguistici, più in generale la dissacrante trasgressione del rigido codice
linguistico commemorativo (quello delle lapidi ufficiali), che, eredità di
un’Italia patriotticamente savoiarda e fascista, ha attraversato i tempi
conservando forme lessicali e sintattiche di assoluta fissità e conformismo.
Nell’altro
scherzo umoristico-ironico, Metamorfosi, risultano prevalenti gli accenti di
satira politica».
Nella stessa
raccolta, De Luca inserisce le venti poesie che vanno sotto il titolo Materia prima. Nel commento, come al
solito breve ma acuto, De Luca scrive: «Che dire di queste poesie? Ancora una
volta evidente è il gioco delle parole. Un gioco che libera la fantasia e rende
più comprensibile il mondo e le sue storture. In alcuni di questi componimenti
la satira si fa amara. Dettata da una forte amarezza è, ad esempio, Un sogno:
sono aggredite le abilità camaleontiche messe in atto dalla diffusa pratica
dell’arrivismo sociale. La forza trasgressiva dei versi sta anche nel
ribaltamento totale dello stereotipo poetico che annette ai sogni soltanto
qualità idilliche. Qui la dignità del sogno è progressivamente svenduta fino
alla resa finale e allo spregevole ghigno conclusivo: l’abietta volontà di
toccare i «parapetti della vita» produce incubi e fascismi. In Fucilazione, al
contrario, al sapore amaro della violenza non cedono l’ottimismo e la speranza;
la «dolcezza che non si può perdere» è la soluzione di ogni «smorfia di
felicità»: all’infanzia è affidato il messaggio salvifico per l’umanità».
De Luca, in
sostanza, ha riconosciuto, in tempi lontani, in Rodari uno scrittore notevole
del Novecento. Un tempo nel quale Rodari era visto, da un certo mondo
accademico -non tutto, è noto- e non solo, sicuramente come bravissimo e famoso
scrittore ma per bambini, quindi letteratura per l’infanzia, considerata come è
noto, letteratura di seria b. Sul posto di Rodari nella letteratura del
Novecento, e per citare solo studi più recenti, rinvio a «Non solo
filastrocche» di Mariarosa Rossitto (Bulzoni, 2011), a «Lezioni di Fantastica.
Storia di Gianni Rodari» di Vanessa Roghi (Laterza, 2020) e al saggio di
Daniela Marcheschi Gianni Rodari: parole,
giochi e scritture per grandi e piccoli, che appare come introduzione al
testo da lei stesso curato «Gianni Rodari - Opere» (Mondadori, Collana I
Meridiani, 2020).
C’era una volta
un cavallo molto saggio.
Fumava la pipa,
uccideva i microbi, aiutava le vecchine
ad attraversare
la strada nei giorni di pioggia.
Per loro gettava
ponti di barche sulle pozzanghere,
le sue
intenzioni erano lodevoli, nondimeno
talune vecchine
per goffaggine o impazienza
cadevano dai
ponto, la piena le trascinava
dal Ticino al
Po, dal Po all’Adriatico
che così veniva
lentamente riempiendosi di vecchine,
ce n’erano
migliaia da Cervia a Cesenatico,
se ne stavano
nell’acqua fino al piloro
facendo la calza
e borbottando continuamente
in tono nasale
come le sirene dei mercantili
che partono da
Porto Corsini per Patrasso.
Le gente, chiusa
nelle case per ripararsi dal malocchio,
sentiva le
sirene e diceva: Sentite le sirene,
sentite come si
sentono le sirene quando piove
e tutti questi
bastimenti ne approfittano
per fuggire in
Grecia con le stive piene
di cervello
fritto e di funghi arrostiti sulla brace.
Verrà la
carestia, i nostri bambini piangeranno,
chi chiederanno
pane e dovremo dare loro code di gatto,
colpa di quelle
maledette vecchiacce
che ostruiscono
la foce del Po con le loro sottogonne.
Bisogna mandare
una petizione al cavallo saggio
che fuma la pipa
e uccide i microbi.
Un vecchio
pescatore che in gioventù sapeva scrivere
mandò al cavallo
un uovo sodo, due mele cotogne
e una fiasca di
sangue di bue romagnolo.
Il cavallo
ricevette il messaggio e lo interpretò rettamente:
l’uovo sodo
significava pace e benedizione,
le due mele, che
non ti manchi avena né bastone,
il sangue di bue
romagnolo
significava: Che
tu possa sputare il pancreas,
che cosa ti
viene in mente di rifilarci quelle vecchie balorde,
con le loro
chiacchiere hanno avvelenato il mare
da una sponda
all’altra,
fanno tanta pipì
che i pescherecci sbandano a babordo,
abbiamo già
perduto sette mozzi nel fiore degli anni
e tutti di nome Gioachino,
provvedi, saggio
cavallo, che la pipa ti strozzi,
abbi compassione
dell’Adriatico, figlio di una fogna.
Il cavallo
comprese che era tempo di prendere provvedimenti
e si accinse
alla bisogna con le migliori intenzioni,
ma i
provvedimenti non si lasciarono prendere,
saltarono sul
tetto della casa del parroco
invocando il
diritto d’asilo
e di lassù
bersagliavano i passati
con tegole marce
e nidi di rondine.
Gran folla si
adunò sul sagrato,
taluni
parteggiando per il cavallo saggio,
altri pronunciandosi
a favore dei provvedimenti,
e dicevano:
Basta con queste persecuzioni,
sono venticinque
anni che questo cavallo li tormenta.
I provvedimenti
si sporgevano dal tetto
approvando con
grandi cenni del capo,
spalancavano la
bocca per mostrare le gengive prive di denti:
Ecco che cosa ci
ha fatto il cavallo a colpi di zoccoli,
e a quanti di
noi ha rubato l’ernia con l’inganno?
Siamo figli di
mamma, orfani di padre,
noi stessi siamo
padri di poveri orfanelli,
e che la smetta
di fumare quella pipa pestilenziale
caricandola con
lombrichi seccati al sole!
Giusto in quel
momento dal fornello della pipa
si sporse un
lombrico puntando l’indice minaccioso,
mentre con
l’altra mano si pettinava la barba.
Menzogna, disse
il lombrico, non siamo stati seccati
né al sole né
alla luna, ché il saggio cavallo
ci fuma vivi
allo scopo di liberare i bambini dai vermi,
egli è un
benefattore dell’infanzia,
voi siete dei
bastardi! Cittadini,
acchiappateli,
ci hanno seccati abbastanza,
se vale la pena
di sprecare per loro una metafora…
Così cominciò la
caccia ai provvedimenti
che più nessuno
oramai osava difendere,
erano in realtà
provvedimenti molto impopolari…
Il sindaco mise
sulla loro testa una taglia
di dodici
quintilioni di centimetri quadrati.
Essi fuggivano
di tetto in tetto demolendo i comignoli,
inseguiti dal
cavallo saggio e da diecimila boyscouts.
Le vecchine, in
assenza del cavallo,
prive di ponti e
incapaci di costruirsi delle zattere,
non più osavano
attraversare le pozzanghere,
bensì si
assiepavano sulla sponda,
ben presto non
ci fu più posto per altre sul marciapiede,
le seconde
arrivate montarono sulle teste delle prime,
le terze si
arrampicarono sulle teste delle seconde,
si formò una
montagna di vecchine alta circa diciotto metri,
molte furono
schiacciate dalla calca
e per lo
spavento partorirono dei piccoli analfabeti
che infestarono
i dintorni con urla selvagge.
Dall’alto di una torre merlata il cavallo
saggio
osservava il
panorama succhiando stancamente la pipa
e una grande
tristezza penetrò nel suo cuore,
di orecchietta
in ventricolo si installò nell’aorta
provocandogli un
attacco di angina pectoris.
Il cavallo
saggio stramazzò su se stesso
lanciando
nitriti d’emergenza
che furono uditi
a Grande Distanza, in provincia di Lecce,
dove abitava suo
fratello, minore a lui d’anni ma non di saggezza.
I cittadini di
Grande Distanza, atterriti,
si nascondevano
in numerose ceste di fichi secchi
ma il cavallo
fratello li rassicurò:
Non sussiste
minaccia di movimenti sismici,
né si è destata
la piovra dai mille tentacoli
che ogni anno
richiede il sacrificio di un consigliere comunale,
è mio fratello
che mi chiama, fiutando odor di morte,
portategli
queste pastiglie, ditegli che ne prenda
due ogni morte
di vescovo con un sorso d’acqua minerale,
subito si
sentirà meglio, perfettamente in forma
e tornerà alle
sue utili occupazioni.
Un ciclista si
offrì di portare le pastiglie.
Egli inforca la
bicicletta a vela
e il vento lo
spinge alla velocità di novecento nodi.
Pedala con le
mani e con i piedi, con le unghie e con i denti,
ma soprattutto
col sudore della fronte,
mentre il
campanello collegato con le pedivelle
a mezzo di un
filo elastico di colore azzurrognolo
trilla
automaticamente per chiedere strada.
Tutti fanno
largo con impegno degno di onesta causa,
comprendendo
l’importanza degli avvenimenti
e servendosi
degli strumenti che si trovano a portata di mano,
zappe, vanghe,
bulldozer, ramaioli, picconi,
spianano le
montagne al passaggio del ciclista,
gettano ponti
sui fiumi e fiumi sotto i ponti,
torrenti dentro
i fiumi, ruscelli dentro i torrenti.
Risultato di
questo magnifico sforzo collettivo
in pochi anni il
ciclista reca le pastiglie a destinazione,
il vescovo sente
che è giunta la sua ultima ora
e muore
raccomandando al popolo di seguire i buoni esempi del cavallo.
Il cavallo sta
sempre sulla cima della torre merlata,
arrotolato su se
stesso, soffrendo di angina pectoris,
appena le
campane annunciano la morte del vescovo
inghiotte le
pastiglie con un sorso d’acqua minerale,
la tristezza
abbandona bestemmiando l’aorta
e per vie
traverse si getta alla boscaglia.
Il cavallo
saggio ritrova le sue formidabili energie,
cattura i
provvedimenti, li costringe a bere le pozzanghere,
le vecchine
attraversano la strada all’asciutto,
i piccoli sono
condannati all’ergastolo,
la foce del Po
si sgombra, le sue acque trionfali
spazzano
l’Adriatico con tutti i suoi delfini.
Dopo questa
terribile avventura il cavallo saggio
continuò a
fumare la pipa e a uccidere microbi,
li uccideva uno
alla volta, schiacciandoli tra due zoccoli,
morendo essi
pronunciavano frasi storiche ma sconnesse
e facevano
testamento a favore della città.
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