lunedì 24 maggio 2021

La sfida era il suo sogno di Giovanni Pistoia

 



Alle soglie d’autunno

in un tramonto

muto

 

scopri l’onda del tempo

e la tua resa

segreta

 

come di ramo in ramo

leggero

un cadere d’uccelli

cui le ali non reggono più.

Antonia Pozzi

 

 

I sogni non muoiono all’alba né al tramonto; semplicemente non vanno mai via. Muoiono i sognatori, a qualunque età, in qualunque momento. In quel frangente vi sono sogni che restano orfani, persi sotto un cielo disorientato, smarrito, impaurito. È necessario che qualcuno li faccia propri, se ne impossessi perché il sognatore che non c’è più, riprenda a vivere, perché la sua morte non sia vana, perché non si può morire per poca cosa, o per nulla. Francesco Tarantino era un sognatore; non aveva sogni nel cassetto, vibravano attorno a lui, ne faceva partecipe gli amici e i conoscenti, o i lettori attraverso le sue poesie, rifugio e collane di parole in combattimento. Che fare, dunque? Lasciare che i suoi sogni, come poveri diavoli calpestati vaghino senza meta? Francesco non merita tanto oltraggio, e i suoi sogni, robusti, e alti, e nobili, devono riprendere a volare, continuare il viaggio che non cessa. E, quindi, anche con questa pubblicazione, si alzino le vele, l’oceano attende. Riprenda Francesco la sua voce, mentre chi resta rispetterà il suo silenzio. E mi risuonano i versi di Shelley:

 

Spingi i miei pensieri morti sopra l’universo,

come foglie secche a ravvivare una nuova nascita!

E con l’incantesimo di questo verso,

 

spargi, come da un inestinto focolare

cenere e scintille, le mie parole fra gli uomini!

Sii attraverso le mie labbra per la Terra torpida

la tromba d’una profezia! O Vento,

se Inverno viene, più forse Primavera essere lontana?[1]

 

«Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta» afferma Philip Roth[2], e Tarantino ha segnato e seminato solchi belli, partendo dal suo sconsiderato amore per le proprie radici, per il suo paese che, pur vivendolo in modo conflittuale, come manifesta in tanti suoi scritti[3], ne ha fatto l’architrave della sua vita, il nido, la tela di ragno dove ha intessuto cocciutamente la propria esistenza, talentuosa e insofferente. Ben si addicono per lui le parole di Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo.[4]»

Ha gridato la sua collera e l’amarezza profonda quando si è visto tradito, ferito (si pensi ai suoi accorati versi sugli alberi recisi nel camposanto del suo paese[5]), o nei momenti dello sconforto, non rari nei sentieri calpestati:

 

«Morire della solitudine più nera abbarbicato alla rocca, ad un mondo chiuso in se stesso, dove lo sguardo non raggiunge che i monti e paesi vicini, qualche camion in autostrada e la statale con una vettura ogni tanto, un paio di cavalli e ciminiere, senza una donna da immaginare, o, forse, pensata irraggiungibile e castrante, al punto da sentirsi indegno, inadeguato, inadempiente senza forza congiungente se non confusa-mente impotente. Morire lontano da ogni-ben-di-dio, dalla bottiglia e dalle sigarette tra un cortile, un orto e le campane ad ogni quarto d’ora, quelle domenicali, festive, serali e mattutine e, le ben più lente, funerarie: le campane a morto, quelle che non senti l’ultima volta nonostante i rintocchi segnino l’abbandono della posizione eretta e della casa che t’ha accudito i giorni, i mesi, gli anni che hai contato e le solitudini in cui ti sei dimenato.[6]»

 

Eppure di quel paese ne ha sempre coltivato un sogno, auspicato un civile e moderno progresso, un villaggio, Mormanno, non sperduto tra le amenità di colli, ma Borgo d’eccellenza d’umanità e cultura, sempre e comunque aperto sul mondo. E cittadino del mondo, in fondo, era Tarantino con i piedi conficcati fra le dorsali del Monte Vernita e della Costa, come la piccozza del Pascoli che riflette le stelle dell’Orsa[7].

C’è un obbligo doveroso per chi resta nel ridare ali ai suoi sogni, perché Francesco sarà in futuro quello che vorranno e sapranno fare i suoi amici e conoscenti; sarà, parafrasando Luis Borges, nuvola, mare, oblio, rosa che si tramuta in altra rosa[8].

 

Noi siamo tutto quello che abbiamo smarrito, tutto quello che abbiamo perso. Ognuno di noi, ne sia cosciente oppure no, si porta in sé, il dolore, l’amore, la bellezza, il canto dei tanti che abbiamo lasciato andare senza aver potuto frenare quell’addio. Tarantino sarà, ancora una volta, canto sereno, brezza di mare, voce robusta e feroce contro il malaffare e le ingiustizie del mondo, acuminato urlo contro i guerrafondai di turno. Lo so, non è un compito facile per chi resta, ma lo si deve al poeta e alle sue scelte di vita; vita austera, rigorosa, di utopista sincero e appassionato, pur confrontandosi, senza timori, col fango della quotidianità. Una quotidianità che non ama gli spiriti liberi, ribelli, non omologati e non omologabili. Quella realtà del quotidiano che non ama chi è ai margini della società; società spesso indifferente, che rifiuta i poveri cristi, i diseredati della terra; uomini e donne senza nomi, con la dignità calpestata, denudata, offesa.

 

La sua è, di conseguenza, anche, e in maniera rilevante, poesia della resistenza; resiste e sfida il disfacimento delle relazioni umane, denuncia la disumanizzazione dell’uomo, la perdita delle emozioni e dei sentimenti più puri, l’ipocrisia e il falso perbenismo.

Polemizza, urla, impreca, si indigna, si irretisce. E lo fa, a volte, con linguaggio crudo e diretto, e senza mediazioni lessicali. Il verso diventa, in queste occasioni, la frusta che il poeta usa per manifestare la sua rabbia. Non tace, per esempio, dinnanzi allo squallore di chi usa l’ingegno per fottere un popolo bastonato; denuncia chi fa della chiesa opera di mercimonio, i taccagni spilorci e avari, le lerce canaglie che hanno prodotto e producono guerre, i miserabili e strafottenti che per soldi calpestano la dignità della povera gente. Non si rassegna nel vedere l’indifferenza verso gli indifferenti. In tanti dei suoi testi, in versi o in prosa, sono sviluppati temi a sfondo sociale. La poesia è per Tarantino un rifugio dinamico, non l’abbandono del mondo ma un mezzo per stare vigile nel mondo. Autodifesa e vendetta, per citare Kutilov:

 

La poesia non è una posa o un ruolo.

È una lotta eterna, come la vita sotto il sole,

la poesia è la mia reazione al dolore,

la mia autodifesa e la mia vendetta![9]

 

È il dolore più che la memoria il filo conduttore dell’intera raccolta che abbiamo nelle mani. Di certo la memoria di quei nomi, oscurati in vita per tanti motivi, coniuga i vari ritratti ritagliati dal poeta, ma quegli uomini e quelle donne sono attraversati dal dolore, i loro giorni non hanno conosciuto che una vita di sofferenza e di solitudini; presenze sanguinanti, eppure invisibili a molti. Di quella umanità Tarantino ne vuole respirare l’alito, sente di farne parte; è come se volesse condividerne il calvario quotidiano e esistenziale. Sa che se dimentichiamo il dolore degli altri, siamo tutti condannati. E mi vengono in mente le parole di Guido Ceronetti: «Se dimentichiamo il dolore siamo perduti. La disumanità, l’astratta, l’orribile disumanità, ha le sue reti in ogni vacanza intellettuale del problema del dolore. Non capire che tutto soffre equivale a non capire.[10]» Ma Francesco Tarantino, come uomo e come poeta, lo ha sempre saputo. Questa raccolta di versi ne è ampia documentazione, altro testamento che ci affida, altra traccia da seguire. Il poeta, pur sensibile ai problemi religiosi e soprattutto spirituali, non teme l’inferno di un mondo altro, che si pone oltre l’orizzonte della vita terrena. Teme l’inferno che è sulla terra, e guarda con occhio ostile chi impedisce qui, sulla terra, una vita dignitosa, un angolo di paradiso. Scrive Italo Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.[11]» Tarantino non accetta l’inferno, lo denuncia. Ed è quello che fa in Memorie oblique dando spazio a quella umanità sensibile e tradita.

 

Francesco crede nell’amore, pur se l’amore lo ha segnato per tutta la vita, crede nella verità, nella poesia e nella verità che la poesia tenta di esprimere. Scrive Ritsos:

 

Disse: credo nella poesia, nell’amore, nella morte,

perciò credo nell’immortalità. Scrivo un verso,

scrivo il mondo; esisto, esiste il mondo.

Dalla punta del mio mignolo scorre un fiume.

Il cielo è sette volte azzurro. Questa purezza

è di nuovo la prima verità, il mio ultimo desiderio.[12]

 

Ed è questa verità che Tarantino cerca soprattutto tra i sofferenti, e i ritratti che ci consegna, attraverso la sua scrittura poetica, sono l’espressione di questo scavo e di questo amore.

 

Molti dei centoventicinque testi contenuti in questa opera esprimono lo stato d’animo alla notizia della morte di qualcuno di questi amici o semplici conoscenti. Apparentemente potrebbero essere intesi come l’omaggio del poeta che accompagna, con i suoi versi, chi non c’è più, un conforto per i parenti, se mai il deceduto ha lasciato qualcuno che pianga per lui. Non è proprio così, certamente c’è anche ciò, ma non è l’essenziale. Qui la poesia non sanziona una dipartita, ma una ripartenza, sia pure nella memoria finché memoria dura. A volte non è neanche questo; non si può parlare di ripartenza per chi ha attraversato la vita senza averla vissuta. Tarantino si fa raccoglitore di ombre, ma ombre che ritornano luce e, molto spesso, per la prima volta luce senz’ombra. Si fa cantore di morti strappati alla tomba, perché almeno sulla carta, che dura nel tempo, abbiano una qualche visibilità, uno sprazzo di dignità loro negata. Abbiano un nome. Non poche volte una certa sociologia spicciola definisce in più modi questi soggetti: ultimi, indifesi, emarginati, invisibili, matti, dementi, esclusi, dimenticati, fragili e, perché il paniere sia più pieno, anche donne, vecchi e bambini. Si costruiscono stereotipi, etichette, cliché, anche quando si è in perfetta buona fede. Il risultato è la sostituzione dei numeri, usati dalla statistica, con categorie-ghetti. Tutto si spersonalizza e si fa amalgama fumoso.

 

I soggetti di Tarantino sono veri, i personaggi sono in carne e ossa, e la loro storia è irripetibile; potrà avere analogie con tante altre ma è unica; unica la vicenda narrata, e porta quel nome, e quel nome non può essere confuso con altri. Piaccia o no, ognuno di noi è unico al mondo.

 

Il lettore, che avrà la bontà di scorrere queste pagine, potrà conoscere Giacomo, che fu bollato matto senza pietà; Zan Gogh, che suonava il clarino con una musica incomprensibile a molti; Pino, lacerato da un pugno, benvoluto e sfottuto con un poco di vino, icona da filmare ed esportare, rimasto solo con l’amico cane; Nancy, emancipata e perdente; Renato, che spiccò l’ultimo volo oltre i gradini; Rolando, al quale diagnosticarono il cervello contorto e fu bollato pazzo perché lo rinchiudessero dentro; Maggie, che chiamavano strega e non vestiva alla moda e parlava con i morti al suono di violino; Ibrahim Laaraj, migrante in tempi non sospetti, venuto con un carico di sogni e invece un giorno riconsegnò la pelle e ora giace nel camposanto senza fiori e senza famiglia;  Falk, perfino punito dalla chiesa per quel suo ultimo volo, e se ne andò senza estrema unzione; Zu Peppe, che sapeva parlare soltanto con la musica del suo organetto, vestiva una giacca color grigioverde ma non amava l’esercito e la battaglia e aveva nella testa il rimbombo della mitraglia; Rosina, che era un sussurro il suo lamento, nascosto all’assillo di sciacalli compiacenti; Raf, che era l’assillo del suo cervello; Vincent, che fece della sua sedia, dove era costretto a vivere, la sua arena; Lady H, un balordo ha tranciato la sua bellezza.

 

Mi fermo qui. In queste pagine il tono del poeta è sommesso, pacato, commosso, discorsivo. Non è sempre così; ricompare, a volte, il Tarantino dal timbro polemico, caustico, aspro quando affida al ricordo chi non merita alcun ricordo. In questi ultimi casi, la sua parola è tombale, consegna alla terra chi in vita ha causato, con i suoi comportamenti, dolori agli altri. No, non si erge a giudice, ma anche in questo contesto la sua voce manifesta uno spirito guerriero, indocile, mentre la poesia cerca pur sempre la verità, costi quel che costi. Soprattutto in questi versi il poeta è immerso nel pantano quotidiano; la sua poesia non è rifugio nel metafisico, ma guarda in faccia il mondo. La poesia prende il mondo così come è:

 

Fuori esiste il mondo. Fuori, la splendida violenza

o gli acini d’uva da cui nascono

le minuscole radici del sole.

Fuori, i corpi genuini e inalterabili

del nostro amore,

i fiumi, la grande pace esteriore delle cose,

le foglie che dormono il silenzio

 – l’ora teatrale del possesso.

 

E la poesia cresce prendendo tutto nel suo grembo.

 

E ormai nessun potere distrugge la poesia[13].

 

Con Memorie oblique, Francesco Tarantino irrobustisce il suo già ricco patrimonio di liriche[14] e ritorna, dopo la parentesi di Getsemani o dell’inquietudine, alle sue amate quartine. Infatti, ben centoventuno componimenti, di questa antologia di volti e di affanni, sono quartine. La rima contraddistingue la struttura della sua poesia. Tremilacinquecentosettanta versi senza alcuna punteggiatura. Neanche un punto finale. Il poeta ha voluto affidarsi interamente all’efficacia della parola, senza distrarre il lettore da virgole e punti e virgola, lasciandogli piena libertà della scelta delle pause. Una tecnica usata in tutti i suoi scritti poetici, ad eccezione di Getsemani, dove i segni dell’interpunzione trovano un uso accorto, e in qualche altra poesia. Con quest’ultimo lavoro certamente Tarantino contribuisce a infoltire l’importante letteratura sugli esclusi e discriminati, che ha visto impegnati, ieri come oggi, non pochi autori, a prescindere, ovviamente, dalle analogie e diversità, dagli esiti stilistici e dai meriti letterari di ciascuno di loro.

 

Come non ricordare Pier Paolo Pasolini[15] e il suo mondo di reietti, di poveri economicamente ma ricchi di umanità e i suoi ragazzi delle borgate romane; Alda Merini[16], alla sua personale testimonianza di ospite degli istituti psichiatrici; Fabrizio De André[17], nella speranza che qualcuno non si scandalizzi per questa citazione. E ancora, Dante Maffia[18], che dà voce agli immigrati dei barconi, ai malati di mente, o presunti tali, di vecchi ospedali “per matti”. E come non pensare alla scrittrice Simona Vinci[19], al suo romanzo sugli abbandonati e dimenticati nell’isola maledetta, dove vengono custoditi soggetti non più persone ma ormai fantasmi.

 

La sua è anche poesia di alta spiritualità, e ne raggiunge il vertice nella raccolta Getsemani o dell’inquietudine. Versi impregnati di dolore, a volte angosciosi e angoscianti, ferite che sanguinano, ma in quelle pagine vi è altresì forza spirituale prodigiosa, ricerca spinosa di speranze. In quei versi, dove si rinnova una particolare via crucis, il poeta, non senza conflitti laceranti, contraddizioni non occultate, cerca disperatamente, con tutte le sue forze, il sole che non tramonta, ma lo vuole fare con occhi aperti, non vuole morire accecato. Il poeta non pensa solo a se stesso, ma anche a chi sente fratello nel misterioso e sudato viaggio, ai bistrattati e indifesi e, non potendo fare altro, vorrebbe consegnare loro parole, parole miracolose a quegli infelici perché comprendano che un incontro, anche un solo incontro, può cambiare la vita.

 

Sono possibili altri sentieri sotto la luna, altri lidi sopra i cieli, oltre l’utopia della croce. E anche in questo suo racconto di vita interiore non mancano il sogno e la sfida. Pur di non ascoltare le ipocrisie di chi vende indulgenze a pagamento, vorrebbe addormentarsi sulla riva dei sogni e svegliarsi a conto pagato. Ma anche dialogando con la morte, la sfida è l’ultimo suo sogno. E pensando al giorno del ricongiungimento con compagni, amici, e finalmente con lei, sa già che la madre coi capelli bianchi è lì ad accoglierlo con una ninnananna: dormi, dormi, povero figlio mio, / che domani ricomincia la sfida. Francesco non ci consegna la pace rassegnata dei morti, ma la sfida, che affida a coloro i quali hanno il dovere di non far tacere chi, con i semi lasciati, le tracce segnate, i sogni agitati come aquiloni al vento bambino, è stato consegnato al silenzio che impera.

Spirito inquieto, irrequieto e non facile il Nostro, che sa scrutarsi, però, allo specchio, per interrogarsi sempre e comunque. Nei suoi versi, semplici nella loro crudezza e profondità, così come in quelli più ermetici, riluce il candore dell’uomo e del poeta: la sua innocenza fanciulla, la genuinità dei sentimenti, il senso unico e alto dell’amicizia, l’angoscia e la paura che hanno graffiato la sua anima. Francesco non era solo paroliere, musicista, cantastorie, aedo; era anche -chi lo ha davvero conosciuto può confermarlo- un burlone mattacchione, un amabile giocherellone.

 

A un certo punto, chissà per quale recondito motivo, decide di comporre dieci quartine. Il lettore le troverà nel volume che ha tra le mani con il titolo Scapigliato (a me stesso). È lui che, così come ha spesso fatto per gli altri, le scrive e le dedica a se stesso, morto. Forse sentiva vicino il giorno dell’addio: nessuno -pensò- si accorgerà della mia assenza, nessuno scriverà qualcosa per me, meglio, quindi, che mi canto da solo. Lascerà le rime tra tante altre carte, forse pensando, con un sorriso canzonatorio sulle labbra, agli amici che le avrebbero lette. A questo suo scherzetto, voglio rispondere con uno mio, timido timido.

 

Scriverò qualcosa per lui utilizzando le sue stesse parole, e con qualche accennata incursione tutta mia. Metterò in prosa le sue parole, inserirò anche un po’ di punteggiatura che lui lasciò a riposo. Come la prenderà per questa intromissione in un atto tanto privato, lo saprò osservando il volo di una farfalla, lo stormire di una fronda, l’incontro con un suo amico davanti a un bicchiere di vino, oppure passeggiando nella sua montagna, dove hanno nido e pace le stelle più belle, mentre il canto di Carpineta gela il vento e incendia la luna.

 

A Francesco M.T. Tarantino

 

È finita scapigliato dell’ultima ora. Incurante del tempo e delle contraddizioni, hai vissuto di una illusione che addolora, sfidando antiche credenze e superstizioni. Declinavi parole per raccontare le cose; descrivevi gioie emozioni e dolore. Non volevi la guerra e amavi le rose. Parlavi di terra di pane e di sudore. Hai scritto d’amore per una donna soltanto, si chiamava Maria Teresa; hai fatto del suo e del tuo un unico nome. L’hai amata davvero fino all’ultimo giorno, finché ti lasciò solo in un mare di pianto. Da allora non hai voluto nessuno intorno. Ci fu una sera, non c’ero ma so, che sopra una fossa, lacerasti il tuo cuore e ti feristi l’anima. Lasciasti che un fiore ne coprisse le ossa, e bagnasti la terra con l’ultima lacrima. Non bastarono i fiori le luci e gli incensi a consolare il tuo sguardo impaurito. Raccoglievi solitudini e fascini intensi in uno sconcerto dal frastuono inaudito. E la scrittura fu il tuo unico rifugio. Fra le essenze i fiori le nuvole e il tempo, scompaginavi i verbi senza alcun indugio, invertendo l’idioma riscritto nel contempo. Dicono che non conoscevi il sorriso; non so se fosse vero o un modo di dire. No, non era vero, era un modo di dire. Di certo i tuoi amici han visto il tuo viso inebriato di vino quando si doveva partire ma anche, in verità, quando con gli amici stavi in allegra compagnia a parlare di poesia. Chiudesti gli occhi fra la tua capigliatura onda di neve, che ben definiva la tua scapigliatura, tua eterna sognata primavera. Beffandoti della morte e della nostalgia, provvedesti perfino alla tua sepoltura ricomponendo un amore con la tua teologia.

 

«Mi canto da solo perché non c’è poeta che scriva di me e del mio lento morire» dicesti, ma non fu vero e non lo sarà; di te scriveranno poeti e scrittori, amici e lettori e del tuo lento morire lo hanno sempre saputo le rose e le spine. Dicesti, ancora, che non eri nessuno, tanto meno un profeta che dice alla gente dove andremo a finire. Nessuno è profeta e nessuno sa dire dove andremo a finire, ma poi che importa saperlo quando è tutto finito. Tu sei andato via, scapigliato dell’ultima ora, eppure sei ancora qui a parlare con me e io con te; quindi qualcuno, più di qualcuno sei stato per me, per tanti come me. La poesia non teme la morte, e per questa via ora ti consegna al domani e agli amici, scapigliato dell’ultima ora. Perdonami l’intrusione ma non provocarmi con le tue parole, e te lo dico con un nodo che mi piange la gola.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il testo appare come postfazione al volume postumo: Francesco M.T. Tarantino, Memorie oblique, a cura di Francesco Aronne, Apollo edizioni, Bisignano (Cosenza), 2019; e in: Giovanni Pistoia, Il vizio degli appunti, seconda edizione, luglio 2020.

 



[1] Percy Bysshe Shelley, Ode al Vento d’occidente; i versi sono tratti dal testo di Massimo Bacigalupo, Percy Bysshe Shelley. Dalla dimora dove abitano gli eterni, in Poesia, n. 342, novembre 2018.

[2] Philip Roth, La macchia umana, Einaudi 2005.

[3] Molti scritti di Francesco M.T. Tarantino su vari argomenti sono visionabili sul giornale on-line con il quale collaborò intensamente: faronotizie.it (cliccare sulla voce: autore).

[4] Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 1950.

[5] Francesco M.T. Tarantino, Memorie di alberi recisi, Edilazio Letteraria, Roma 2012.

[6] Francesco M.T. Tarantino, Morir di non amore, in faronotizie.it del primo febbraio 2016.

[7] Giovanni Pascoli, La piccozza, in Odi e inni: 1896-1905, Zanichelli, Bologna 1906.

[8] Jorge Luis Borges, Nubi, in I congiurati, Lo Specchio, Mondadori, Milano 1986.

[9] Arkadij Kutilov, Allegato al mio libretto del lavoro; i versi sono tratti dal testo a cura di Paolo Statuti, Arkadij Kutilov. Lo scheletro di una stella, in Poesia, n. 342, novembre 2018.

[10] Guido Ceronetti, La carta è stanca: Una scelta, Adelphi, Milano 2015.

[11] Italo Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993.

[12] Ghiannis Ritsos, Lascito, in Pietre Ripetizioni Sbarre, Crocetti editore, Milano 2004.

[13] Herberto Helder, La poesia; i versi sono tratti dal testo a cura di Giulia Lanciani, Herberto Helder. La macchina lirica, in Poesia, n. 340, settembre 2018.

[14] Francesco M.T. Tarantino, Cose mie, L’Autore Libri, Firenze 2006; Disturbi del cuore, L’Autore Libri, Firenze 2008; Noli me tangere, L’Autore Libri, Firenze 2012 (terza edizione); Orizzonti in divenire (“incontro” tra la poesia di Tarantino e la pittura di Rocco Regina), Edizioni Lepisma, Roma 2013; Getsemani o dell’inquietudine, Marco Saya edizioni, Milano 2015.

[15] Si pensi, per fare un esempio, al romanzo Ragazzi di Vita, pubblicato per la prima volta da Garzanti nel 1955.

[16] Alda Merini, Il suono dell’ombra. Poesie e prose (1953-2009), a cura di A. Borsani, Mondadori, Milano 2018.

[17] I testi del cantautore sono molto noti, si rinvia comunque al sito ufficiale www.fabriziodeandre.it.

[18] Dante Maffia, Lo specchio della mente, Crocetti editore, Milano 1999; Sbarco clandestino, Tracce, Pescara 2011.

[19] Simona Vinci, La prima verità, Einaudi, Torino 2016.

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