Mutus dedit… e venti carte
Carmine De Luca*
Avrò avuto dodici-tredici anni quando qualcuno mi addestrò al gioco delle venti carte e dello schema combinatorio mutus dedit nomen cocis. Erano serate d’inverno e si stava intorno a un tavolo, si giocava a carte. Le interruzioni erano numerose perché numerose erano le interruzioni della corrente elettrica. Nella “cabina”, lì dietro Sant’Antonio, saltava qualche valvola, o chissà quale altro diavolo di guasto faceva piombare il paese nel buio. Non c’era ancora l’Enel. L’erogazione dell’energia elettrica era ancora privata. O più probabilmente era in concessione dallo Stato. Ma era come se fosse di un privato. A volte la luce mancava per ore, si andava a letto e la mattina dopo poteva capitare che non fosse ancora tornata. Se il guasto era appena appena serio, mancava anche per qualche giorno. Si mandava allora qualche improperio, ora irripetibile, ai responsabili della “cabina”.
Di norma non ci si preoccupava granché del buio. Non c’era il pericolo che andassero a male i cibi in frigorifero. Gli anni del frigorifero e degli altri elettrodomestici erano di là da venire. Neppure la televisione. La radio, sì. E la radio era importante, teneva compagnia, come si dice, dava il notiziario, trasmetteva il pomeriggio “ballate con noi”, ripeteva ogni giorno la sigla Delicado, suonato alla chitarra. Diffondeva le canzoni di Luciano Tavoli, di Ernesto Bonino, di Natalino Otto, del trio Lescano.
Convenite che erano canzoni più allegre di quelle di oggi?
Papaveri e papere, per esempio. Sbarazzina, brillante, ilare. Diventò da subito uno scanzonato gioco musicale fondato, alla maniera degli scioglilingua, su un fitto intreccio di divertenti allitterazioni (“…La Papera al Papero disse. Papà, pappare i papaveri come si fa?” “Non puoi tu pappare i papaveri disse papà”). Ebbe anche risvolti politici. C’era chi sosteneva che i papaveri fossero i caporioni democristiani dell’epoca. Per le elezioni del 1952 il partito comunista fece propria la canzone per la campagna elettorale e in un manifesto rappresentò gli “alti papaveri” (democristiani) spazzati via dal vento della Rivoluzione.
Sarà nata allora l’espressione un po’ ironica, un po’ ingiuriosa “gli alti papaveri”? No. È molto più antica. Il dizionario Battaglia informa che deriva “da un aneddoto secondo il quale Tarquinio il Superbo avrebbe abbattuto col bastone i papaveri del giardino per significare al figlio che il modo più facile per impossessarsi della città di Gali era quello di eliminarne i cittadini più importanti e autorevoli”.
Il buio, dicevo, e le interruzioni del gioco a carte. Memorizzai, quelle sere, le quattro parole del gioco e imparai a disporre le carte – 20 carte, 10 copie – sul tavolo, secondo lo schema delle quattro parole. Senza incertezze, con sicurezza. Nessuno doveva pensare che stessi adottando per il gioco uno schema mentale.
Lo schema del gioco appariva ai miei occhi di ragazzino una strana contaminazione del latino che andavo appena studiando e, per via di quel cocis, i fumetti western, con in più le connotazioni misteriose di una formula magica. (Kocis era il protagonista di un diffuso giornaletto a fumetti. Quando doveva vendicare qualche torto – gli eroi dei western sono quasi sempre paladini di giustizia – indossava una maschera con tante rughe e le corna. Le corna, per apparire diabolico. Kocis appartiene alla stessa generazione di Pecos Bill, del primo Tex. Cino e Franco, eroi dei tempi fascisti, non c’erano più. Mandrake aveva ripreso il suo nome con la kappa e non era più il Mandrache italianizzato imposto dal fascismo, stupidamente autarchico anche nella lingua).
Scoprii che lo schema delle quattro parole mutus dedit nomen cocis possiede una perfetta simmetricità combinatoria fondata sulla presenza di dieci copie di lettere. Alle coppie di lettere si fanno corrispondere, nel gioco, dieci coppie di carte. Il che rende possibile conoscere perfettamente la loro collocazione e indovinarle.
Un vecchio manuale di giochi (Ph. De Frank, Le carte magiche, Hoepli, Milano 1921) spiega così il gioco: “ Prendete 20 carte e, dopo averle mescolate, mettete a due a due sul tavolo. Avrete così 10 coppie di carte. Pregate allora una prima persona di ricordarsi due di quelle carte, purché esse siano contenute nella stessa coppia; rivolgete la medesima preghiera a 3 o 4 altre persone. Quando ognuno avrà scelto la sua coppia di carte, ritirate le 10 coppie di carte. L’ordine col quale le ritirate non ha nessuna influenza; l’importanza è di non separare mai le carte che si trovano insieme. Indi riponete sul tavolo le carte (scoperte) in quattro file di 5 carte ciascuna, ricordandovi le quattro parole latine:
M U T U S
1 2 3 4 5
D E D I T
6 7 8 9 10
N O M E N
11 12 13 14 15
C O C I S
16 17 18 19 20
Ciascuna lettera, in queste quattro parole, è rappresentata due volte; due carte corrispondenti si metteranno sempre su lettere uguali. Così le due carte della prima coppia si posano al primo e tredicesimo posto, dove sono le due M, quelle della seconda coppia al secondo e quarto posto, dove sono i due U; e così via fino che si abbiano collocate al loro posto tutte le venti carte. Disposte dunque le carte, in questo modo, chiedete ad uno degli spettatori di indicarvi in quale fila o in quali file si trovino le sue carte; vi sarà facilissimo di indovinarle”.
Un altro manuale (A. Adrion, L’arte della magia, Mazzotta, Milano 1979) informa che “in questo gioco si sono cimentati molti dei più abili prestigiatori, tra cui Harry Houdini e Alexander Hermann”.
A me capitava di proporre il gioco a scuola, durante gli intervalli (o anche durante le ore di lezione?). Ovviamente, suscitavo stupefatte curiosità e pressanti ma insoddisfatte domande di disvelamento del trucco. Perché il trucco doveva esserci. Nessuno ne dubitava. Erano i miei compagni maschi a essere assillanti e curiosi come scimmie. E io avrei voluto che fossero le compagne belline e moinose ad avvicinarsi, a chiedermi, a pregarmi. Niente da fare. Stavano sulle loro. E noi le armi della seduzione non le avevamo ancora apprese.
Quel gioco, quell’indovinare coppie di carte senza mai sbagliare, quel che doveva apparire forse a qualcuno (nelle classi, come in molte famiglie almeno uno sciocco, un credulone c’è) come un leggere nel pensiero, diventava un fattore di compiaciuta rivalsa. Se avessi ceduto e spiattellato il sistema del gioco sarebbe crollato tutto il mio piedistallo di rivincita. Ogni gioco rivelato e spiegato appare stupido e banale; quando non se ne conosce il trucco ha connotati di magicità, di prestigio.
Col tempo il gioco mi abbandona, lo dimentico, smarrisco la memoria dello schema; si allontana dai miei interessi.
Dopo anni, parecchi anni, quando insegno latino al liceo scientifico di Anzio me ne ritorna alla superficie dei ricordi qualche brandello. Sarà stato stimolato da qualche parola latina: un dedit, un nomen. Chissà.
Tento di ritrovarlo e recuperarlo. Mi sfugge; riesco a recuperare solo dei frammenti di parole (il cocis per via dell’eroe del fumetto, l’idea che le altre parole sono latine; c’è un verbo… ) e qualche posizione (la “s” di cocis ha una corrispondenza perfetta, “è di angolo”; mi pare che anche la “o” abbia la gemella in una seconda posizione; ma in quale fila sarà? la prima? la seconda? la terza? eccetera). Un po’ alla volta, da pieghe quasi mai esplorate con tanta pervicacia, riemerge lentamente lo schema, fino a completarsi.
Tra amici, dopo cena il gioco oggi continua a suscitare curiosità e interesse. Ha sempre successo.
Si può anche un tantino complicare. Passare da dieci a quindici coppie. Basta aggiungere alle quattro parole 5 coppie di numeri da 1 a 5, disposti in verticale sul lato sinistro e in orizzontale giù in fondo. Buon divertimento.
*Nota. Questo testo “Mutus dedit… e venti carte” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta. Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.
Cliccare l’immagine per ingrandirla.
Carmine De Luca*
Avrò avuto dodici-tredici anni quando qualcuno mi addestrò al gioco delle venti carte e dello schema combinatorio mutus dedit nomen cocis. Erano serate d’inverno e si stava intorno a un tavolo, si giocava a carte. Le interruzioni erano numerose perché numerose erano le interruzioni della corrente elettrica. Nella “cabina”, lì dietro Sant’Antonio, saltava qualche valvola, o chissà quale altro diavolo di guasto faceva piombare il paese nel buio. Non c’era ancora l’Enel. L’erogazione dell’energia elettrica era ancora privata. O più probabilmente era in concessione dallo Stato. Ma era come se fosse di un privato. A volte la luce mancava per ore, si andava a letto e la mattina dopo poteva capitare che non fosse ancora tornata. Se il guasto era appena appena serio, mancava anche per qualche giorno. Si mandava allora qualche improperio, ora irripetibile, ai responsabili della “cabina”.
Di norma non ci si preoccupava granché del buio. Non c’era il pericolo che andassero a male i cibi in frigorifero. Gli anni del frigorifero e degli altri elettrodomestici erano di là da venire. Neppure la televisione. La radio, sì. E la radio era importante, teneva compagnia, come si dice, dava il notiziario, trasmetteva il pomeriggio “ballate con noi”, ripeteva ogni giorno la sigla Delicado, suonato alla chitarra. Diffondeva le canzoni di Luciano Tavoli, di Ernesto Bonino, di Natalino Otto, del trio Lescano.
Convenite che erano canzoni più allegre di quelle di oggi?
Papaveri e papere, per esempio. Sbarazzina, brillante, ilare. Diventò da subito uno scanzonato gioco musicale fondato, alla maniera degli scioglilingua, su un fitto intreccio di divertenti allitterazioni (“…La Papera al Papero disse. Papà, pappare i papaveri come si fa?” “Non puoi tu pappare i papaveri disse papà”). Ebbe anche risvolti politici. C’era chi sosteneva che i papaveri fossero i caporioni democristiani dell’epoca. Per le elezioni del 1952 il partito comunista fece propria la canzone per la campagna elettorale e in un manifesto rappresentò gli “alti papaveri” (democristiani) spazzati via dal vento della Rivoluzione.
Sarà nata allora l’espressione un po’ ironica, un po’ ingiuriosa “gli alti papaveri”? No. È molto più antica. Il dizionario Battaglia informa che deriva “da un aneddoto secondo il quale Tarquinio il Superbo avrebbe abbattuto col bastone i papaveri del giardino per significare al figlio che il modo più facile per impossessarsi della città di Gali era quello di eliminarne i cittadini più importanti e autorevoli”.
Il buio, dicevo, e le interruzioni del gioco a carte. Memorizzai, quelle sere, le quattro parole del gioco e imparai a disporre le carte – 20 carte, 10 copie – sul tavolo, secondo lo schema delle quattro parole. Senza incertezze, con sicurezza. Nessuno doveva pensare che stessi adottando per il gioco uno schema mentale.
Lo schema del gioco appariva ai miei occhi di ragazzino una strana contaminazione del latino che andavo appena studiando e, per via di quel cocis, i fumetti western, con in più le connotazioni misteriose di una formula magica. (Kocis era il protagonista di un diffuso giornaletto a fumetti. Quando doveva vendicare qualche torto – gli eroi dei western sono quasi sempre paladini di giustizia – indossava una maschera con tante rughe e le corna. Le corna, per apparire diabolico. Kocis appartiene alla stessa generazione di Pecos Bill, del primo Tex. Cino e Franco, eroi dei tempi fascisti, non c’erano più. Mandrake aveva ripreso il suo nome con la kappa e non era più il Mandrache italianizzato imposto dal fascismo, stupidamente autarchico anche nella lingua).
Scoprii che lo schema delle quattro parole mutus dedit nomen cocis possiede una perfetta simmetricità combinatoria fondata sulla presenza di dieci copie di lettere. Alle coppie di lettere si fanno corrispondere, nel gioco, dieci coppie di carte. Il che rende possibile conoscere perfettamente la loro collocazione e indovinarle.
Un vecchio manuale di giochi (Ph. De Frank, Le carte magiche, Hoepli, Milano 1921) spiega così il gioco: “ Prendete 20 carte e, dopo averle mescolate, mettete a due a due sul tavolo. Avrete così 10 coppie di carte. Pregate allora una prima persona di ricordarsi due di quelle carte, purché esse siano contenute nella stessa coppia; rivolgete la medesima preghiera a 3 o 4 altre persone. Quando ognuno avrà scelto la sua coppia di carte, ritirate le 10 coppie di carte. L’ordine col quale le ritirate non ha nessuna influenza; l’importanza è di non separare mai le carte che si trovano insieme. Indi riponete sul tavolo le carte (scoperte) in quattro file di 5 carte ciascuna, ricordandovi le quattro parole latine:
M U T U S
1 2 3 4 5
D E D I T
6 7 8 9 10
N O M E N
11 12 13 14 15
C O C I S
16 17 18 19 20
Ciascuna lettera, in queste quattro parole, è rappresentata due volte; due carte corrispondenti si metteranno sempre su lettere uguali. Così le due carte della prima coppia si posano al primo e tredicesimo posto, dove sono le due M, quelle della seconda coppia al secondo e quarto posto, dove sono i due U; e così via fino che si abbiano collocate al loro posto tutte le venti carte. Disposte dunque le carte, in questo modo, chiedete ad uno degli spettatori di indicarvi in quale fila o in quali file si trovino le sue carte; vi sarà facilissimo di indovinarle”.
Un altro manuale (A. Adrion, L’arte della magia, Mazzotta, Milano 1979) informa che “in questo gioco si sono cimentati molti dei più abili prestigiatori, tra cui Harry Houdini e Alexander Hermann”.
A me capitava di proporre il gioco a scuola, durante gli intervalli (o anche durante le ore di lezione?). Ovviamente, suscitavo stupefatte curiosità e pressanti ma insoddisfatte domande di disvelamento del trucco. Perché il trucco doveva esserci. Nessuno ne dubitava. Erano i miei compagni maschi a essere assillanti e curiosi come scimmie. E io avrei voluto che fossero le compagne belline e moinose ad avvicinarsi, a chiedermi, a pregarmi. Niente da fare. Stavano sulle loro. E noi le armi della seduzione non le avevamo ancora apprese.
Quel gioco, quell’indovinare coppie di carte senza mai sbagliare, quel che doveva apparire forse a qualcuno (nelle classi, come in molte famiglie almeno uno sciocco, un credulone c’è) come un leggere nel pensiero, diventava un fattore di compiaciuta rivalsa. Se avessi ceduto e spiattellato il sistema del gioco sarebbe crollato tutto il mio piedistallo di rivincita. Ogni gioco rivelato e spiegato appare stupido e banale; quando non se ne conosce il trucco ha connotati di magicità, di prestigio.
Col tempo il gioco mi abbandona, lo dimentico, smarrisco la memoria dello schema; si allontana dai miei interessi.
Dopo anni, parecchi anni, quando insegno latino al liceo scientifico di Anzio me ne ritorna alla superficie dei ricordi qualche brandello. Sarà stato stimolato da qualche parola latina: un dedit, un nomen. Chissà.
Tento di ritrovarlo e recuperarlo. Mi sfugge; riesco a recuperare solo dei frammenti di parole (il cocis per via dell’eroe del fumetto, l’idea che le altre parole sono latine; c’è un verbo… ) e qualche posizione (la “s” di cocis ha una corrispondenza perfetta, “è di angolo”; mi pare che anche la “o” abbia la gemella in una seconda posizione; ma in quale fila sarà? la prima? la seconda? la terza? eccetera). Un po’ alla volta, da pieghe quasi mai esplorate con tanta pervicacia, riemerge lentamente lo schema, fino a completarsi.
Tra amici, dopo cena il gioco oggi continua a suscitare curiosità e interesse. Ha sempre successo.
Si può anche un tantino complicare. Passare da dieci a quindici coppie. Basta aggiungere alle quattro parole 5 coppie di numeri da 1 a 5, disposti in verticale sul lato sinistro e in orizzontale giù in fondo. Buon divertimento.
*Nota. Questo testo “Mutus dedit… e venti carte” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta. Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.
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Hai una esperienza in merito a questo o ad altri giochi da raccontare? Se vuoi, scrivimi: giovannipistoia@libero.it
(4 maggio 2008)
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