giovedì 4 novembre 2021

Edith Bruck, Il pane perduto, La nave di Teseo, 2021, letto da Giovanni Pistoia

 

Quel pane lievita ancora

di Giovanni Pistoia

 

La storia

quella vera

che nessuno studia

che oggi ai più dà soltanto fastidio

(che addusse lutti infiniti)

d’un sol colpo ti privò dell’infanzia.

Nelo Risi

 

L’ultimo libro, in ordine di tempo, di Edith Bruck, ha come titolo «Il pane perduto» (La nave di Teseo, 2021). Anche se è stato ampiamente recensito e l’autrice è ben nota, non credo sia un libro che vada sintetizzato, accennato nelle sue grandi linee. Non è il frutto della fantasia di chi scrive, è la vita di chi scrive. È la sua adolescenza rapita, è la sua amarissima esperienza, appena tredicenne, nei vari campi e sotto campi di concentramento; la conoscenza della violenza e cattiveria dei fascisti ungheresi, poi dei nazisti e, poi, ancora, dell’indifferenza che la avvolse, come tutti gli altri e le altre, nel dopo-concentramento, a guerra finita. È la tragedia per aver perso la mamma, il papà, il fratellino Jonas nei campi di sterminio, lì dove l’umanità scomparve, e incombeva il «Grande Silenzio» di Dio.

 

Quelle pagine grondano di ferite mai sopite, anche se riferite con parole serene, sia pure pensate, calibrate. Alcune pagine hanno il tono della favola. Ecco l’incipit del volume: «Tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no.» E nelle ultime righe del testo, l’autrice afferma: «E oggi, persino per me è inverosimile il mio lungo cammino, che sembra una favola nella selva oscura del Novecento, con la sua lunga ombra nera sul terzo millennio.» Edith si salva, sopravvivrà.

 

L’esperienza agghiacciante, e forse non del tutto riferibile, è uno spartiacque tra il “prima” e il “dopo”. “Prima” si viveva, nonostante la povertà della numerosa famiglia, “dopo” si sopravvive per tutta la vita. Gli amici e i parenti, che non hanno subito l’affronto della deportazione e delle conseguenze, non sono più quelli di prima. Non possono capire chi, invece, ha provato sulle proprie carni umiliazioni e dolori, squarci psicologici devastanti. «Solo chi è stato deportato può capire un deportato; anche se tua sorella non può immaginare assolutamente quello che abbiamo vissuto anche perché non è raccontabile oggi dopo tantissimi anni e c’è sempre qualcosa che non hai detto…», così la scrittrice in una bella e intensa intervista a Rai Cultura[1]. Edith Bruck è da anni impegnata nel racconto delle sue vicende e testimone di quel tempo, soprattutto nelle scuole. Lo farà ancora fino a quando le sue forze lo permetteranno. È faticoso raccontare e riraccontare, ma è necessario, è un dovere morale. Eppure non si può dire tutto ai ragazzi. Afferma Edith: «Come fai a dire a un ragazzo nella scuola che, tra l’altro, ho visto un tedesco che giocava a pallone con la testa di un bambino, non si possono raccontare queste cose perché sembrano impossibili, oppure dei bambini congelati per terra a centinaia… è molto difficile…»

 

«Il pane perduto» si legge in poche ore. È breve, lo stile è asciutto, essenziale, intenso. Ma va letto più volte. I fatti narrati, i concetti, le parole, anche le cose non dette, o dette frettolosamente ma che si intuiscono, vanno assorbiti, compresi nel loro significato profondo, meditati. È una testimonianza, e come tale preziosa, scandita con sofferta urgenza. È così. Si avverte nel linguaggio, nel precipitarsi delle pagine, l’impazienza di portare a compimento questo lavoro. La scrittrice si rende conto che, per l’età avanzata e per i malanni che non mancano, ha difficoltà nello scrivere e gli occhi sono ammalati.

Teme, questo il suo cruccio ancora più grande, che la memoria possa abbandonarla. «Forse mi urge mettere sulle pagine ciò che ho accumulato nella mente perché il destino mi sta privando della vista. Già faccio fatica a decifrare la mia scrittura sghemba e le righe ubriache ma ho fretta, il tempo stringe.» E lei avverte, ora come ieri, come sessant’anni fa, come nei decenni trascorsi, come appena fuori dai campi del dolore e della morte, che deve raccontare, raccontare, raccontare, perché lo deve a se stessa, a quanti non hanno potuto farlo. Perché bisogna conoscere, sapere, tramandare, perché la barbarie di ieri non sia mai più, perché mai la dignità debba essere calpestata, e l’uomo ridotto a «meno di un numero». Ha raccolto gli appunti di questa sua odissea, del lungo peregrinare nel tentativo di essere ascoltata (lei che aveva tanto bisogno di carezze, di sicurezza) in diversi paesi del mondo, fino a stabilirsi definitivamente in Italia, dove ha scritto i suoi libri in italiano, lingua che lei considera «il paradiso terrestre».

 

Perché questo titolo? «Dio… Dio… il pane… il pane… »: è l’ultima invocazione della mamma di Edith, ripetuta ossessivamente lungo il suo calvario, da quando, prelevata insieme ai suoi familiari con forza, è portata prima nella sinagoga e poi spinta sul treno dai gendarmi e da giovani croci frecciate, e infine gettata nella fila «sinistra», che significava, nel codice di Auschwitz, «camera a gas immediata». Quel pane abbandonato, quasi tradito, offeso, nella casa vuota e sfregiata, aveva un significato dolorosissimo per quella mamma: la certezza dell’annientamento della sua famiglia, il terrore per la giovanissima Edith, che riceveva dalla madre coccole inusuali. Il presagio della fine di tutto. E davvero fu la fine di tutto.

 

Era la settimana della Pasqua ebraica. La famiglia seguiva il rituale festivo ma l’atmosfera non poteva essere gioiosa, non solo per le minacce che si abbattevano sulle famiglie ebraiche del paese, ma anche per la povertà che mordeva. «I figli», si legge nel libro, «sopportavano meglio anche lo stomaco semivuoto per la mancanza del pane e con l’azzimo scarso che doveva durare otto giorni.» Eppure la famiglia di Edith riceve in dono della farina dai vicini di casa. Di buon mattino, dopo averlo fatto lievitare durante la notte, la mamma stava per infornare quel pane, quando i fascisti ungheresi piombarono sulla loro casa per strapparli tutti dal loro nido.

 

«Ma la buona vicina di casa Lidi aveva donato subito la farina per il pane alla fine della festa, che cadeva quasi sempre in aprile, e le mani amate della madre con gioia visibile stavano lavorando nella madia, dando pugni e schiaffi alla pasta. Nelle grandi ciotole di legno, durante la notte, sarebbero ben lievitate per essere infornate all’alba.

La madre era già semisveglia per preparare il fuoco quando bussarono forte alla fragile porta, e si svegliarono di colpo tutti.

Prima che potessero chiedere “Chi è?”, ai successivi colpi, sempre più violenti, la porta cedette. Nel vano apparvero due gendarmi che urlavano di uscire entro cinque minuti, con un solo ricambio di abiti, lasciando valori e denari a casa.

“Il pane, il pane!” gridava la madre.

“Svelti, svelti!” ripetevano loro.»

 

Quel pane perduto non è andato perduto del tutto, è stato ritrovato negli anfratti della memoria, dove si era celato perché fosse riafferrato, reimpastato, lievitato nuovamente e finalmente consumato per alimentare la nostra mente. Quel pane è la memoria che si conserva, è il ricordo che non va cancellato, è il racconto di un orrore che si fa fatica ancora a credere. È un monito per i tempi di oggi, per quelli di domani. È un urlo di dolore e di forte denuncia verso quanti, ancora oggi, si mostrano spavaldamente con svastiche e rituali di un tempo atroce, che mai deve essere dimenticato o sminuito, né mai deve essere richiamato in vita.

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