Quel pane lievita ancora
di Giovanni Pistoia
La storia
quella vera
che nessuno
studia
che oggi ai più
dà soltanto fastidio
(che addusse
lutti infiniti)
d’un sol colpo
ti privò dell’infanzia.
Nelo Risi
L’ultimo libro, in ordine di tempo, di
Edith Bruck, ha come titolo «Il pane perduto» (La nave di Teseo, 2021). Anche
se è stato ampiamente recensito e l’autrice è ben nota, non credo sia un libro
che vada sintetizzato, accennato nelle sue grandi linee. Non è il frutto della
fantasia di chi scrive, è la vita di chi scrive. È la sua adolescenza rapita, è
la sua amarissima esperienza, appena tredicenne, nei vari campi e sotto campi
di concentramento; la conoscenza della violenza e cattiveria dei fascisti
ungheresi, poi dei nazisti e, poi, ancora, dell’indifferenza che la avvolse,
come tutti gli altri e le altre, nel dopo-concentramento, a guerra finita. È la
tragedia per aver perso la mamma, il papà, il fratellino Jonas nei campi di
sterminio, lì dove l’umanità scomparve, e incombeva il «Grande Silenzio» di Dio.
Quelle pagine
grondano di ferite mai sopite, anche se riferite con parole serene, sia pure
pensate, calibrate. Alcune pagine hanno il tono della favola. Ecco l’incipit
del volume: «Tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con
le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida.
Nella viuzza del villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la
salutava e chi no.» E nelle ultime righe del testo, l’autrice afferma: «E oggi,
persino per me è inverosimile il mio lungo cammino, che sembra una favola nella
selva oscura del Novecento, con la sua lunga ombra nera sul terzo millennio.»
Edith si salva, sopravvivrà.
L’esperienza
agghiacciante, e forse non del tutto riferibile, è uno spartiacque tra il “prima”
e il “dopo”. “Prima” si viveva, nonostante la povertà della numerosa famiglia, “dopo”
si sopravvive per tutta la vita. Gli amici e i parenti, che non hanno subito
l’affronto della deportazione e delle conseguenze, non sono più quelli di
prima. Non possono capire chi, invece, ha provato sulle proprie carni umiliazioni
e dolori, squarci psicologici devastanti. «Solo chi è stato deportato può capire
un deportato; anche se tua sorella non può immaginare assolutamente quello che
abbiamo vissuto anche perché non è raccontabile oggi dopo tantissimi anni e c’è
sempre qualcosa che non hai detto…», così la scrittrice in una bella e intensa
intervista a Rai Cultura[1].
Edith Bruck è da anni impegnata nel racconto delle sue vicende e testimone di
quel tempo, soprattutto nelle scuole. Lo farà ancora fino a quando le sue forze
lo permetteranno. È faticoso raccontare e riraccontare, ma è necessario, è un
dovere morale. Eppure non si può dire tutto ai ragazzi. Afferma Edith: «Come
fai a dire a un ragazzo nella scuola che, tra l’altro, ho visto un tedesco che
giocava a pallone con la testa di un bambino, non si possono raccontare queste
cose perché sembrano impossibili, oppure dei bambini congelati per terra a
centinaia… è molto difficile…»
«Il pane perduto»
si legge in poche ore. È breve, lo stile è asciutto, essenziale, intenso. Ma va
letto più volte. I fatti narrati, i concetti, le parole, anche le cose non
dette, o dette frettolosamente ma che si intuiscono, vanno assorbiti, compresi
nel loro significato profondo, meditati. È una testimonianza, e come tale
preziosa, scandita con sofferta urgenza. È così. Si avverte nel linguaggio, nel
precipitarsi delle pagine, l’impazienza di portare a compimento questo lavoro.
La scrittrice si rende conto che, per l’età avanzata e per i malanni che non
mancano, ha difficoltà nello scrivere e gli occhi sono ammalati.
Teme, questo il
suo cruccio ancora più grande, che la memoria possa abbandonarla. «Forse mi
urge mettere sulle pagine ciò che ho accumulato nella mente perché il destino
mi sta privando della vista. Già faccio fatica a decifrare la mia scrittura
sghemba e le righe ubriache ma ho fretta, il tempo stringe.» E lei avverte, ora
come ieri, come sessant’anni fa, come nei decenni trascorsi, come appena fuori
dai campi del dolore e della morte, che deve raccontare, raccontare,
raccontare, perché lo deve a se stessa, a quanti non hanno potuto farlo. Perché
bisogna conoscere, sapere, tramandare, perché la barbarie di ieri non sia mai
più, perché mai la dignità debba essere calpestata, e l’uomo ridotto a «meno di
un numero». Ha raccolto gli appunti di questa sua odissea, del lungo
peregrinare nel tentativo di essere ascoltata (lei che aveva tanto bisogno di
carezze, di sicurezza) in diversi paesi del mondo, fino a stabilirsi
definitivamente in Italia, dove ha scritto i suoi libri in italiano, lingua che
lei considera «il paradiso terrestre».
Perché questo
titolo? «Dio… Dio… il pane… il pane… »: è l’ultima invocazione della mamma di
Edith, ripetuta ossessivamente lungo il suo calvario, da quando, prelevata insieme
ai suoi familiari con forza, è portata prima nella sinagoga e poi spinta sul
treno dai gendarmi e da giovani croci frecciate, e infine gettata nella fila «sinistra»,
che significava, nel codice di Auschwitz, «camera a gas immediata». Quel pane
abbandonato, quasi tradito, offeso, nella casa vuota e sfregiata, aveva un
significato dolorosissimo per quella mamma: la certezza dell’annientamento
della sua famiglia, il terrore per la giovanissima Edith, che riceveva dalla
madre coccole inusuali. Il presagio della fine di tutto. E davvero fu la fine
di tutto.
Era la settimana
della Pasqua ebraica. La famiglia seguiva il rituale festivo ma l’atmosfera non
poteva essere gioiosa, non solo per le minacce che si abbattevano sulle
famiglie ebraiche del paese, ma anche per la povertà che mordeva. «I figli», si
legge nel libro, «sopportavano meglio anche lo stomaco semivuoto per la
mancanza del pane e con l’azzimo scarso che doveva durare otto giorni.» Eppure
la famiglia di Edith riceve in dono della farina dai vicini di casa. Di buon
mattino, dopo averlo fatto lievitare durante la notte, la mamma stava per
infornare quel pane, quando i fascisti ungheresi piombarono sulla loro casa per
strapparli tutti dal loro nido.
«Ma la buona
vicina di casa Lidi aveva donato subito la farina per il pane alla fine della
festa, che cadeva quasi sempre in aprile, e le mani amate della madre con gioia
visibile stavano lavorando nella madia, dando pugni e schiaffi alla pasta.
Nelle grandi ciotole di legno, durante la notte, sarebbero ben lievitate per
essere infornate all’alba.
La madre era già
semisveglia per preparare il fuoco quando bussarono forte alla fragile porta, e
si svegliarono di colpo tutti.
Prima che
potessero chiedere “Chi è?”, ai successivi colpi, sempre più violenti, la porta
cedette. Nel vano apparvero due gendarmi che urlavano di uscire entro cinque
minuti, con un solo ricambio di abiti, lasciando valori e denari a casa.
“Il pane, il
pane!” gridava la madre.
“Svelti, svelti!”
ripetevano loro.»
Quel pane
perduto non è andato perduto del tutto, è stato ritrovato negli anfratti della
memoria, dove si era celato perché fosse riafferrato, reimpastato, lievitato
nuovamente e finalmente consumato per alimentare la nostra mente. Quel pane è
la memoria che si conserva, è il ricordo che non va cancellato, è il racconto
di un orrore che si fa fatica ancora a credere. È un monito per i tempi di
oggi, per quelli di domani. È un urlo di dolore e di forte denuncia verso
quanti, ancora oggi, si mostrano spavaldamente con svastiche e rituali di un
tempo atroce, che mai deve essere dimenticato o sminuito, né mai deve essere
richiamato in vita.
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