“e m’accorsi / che
ormai da sette giorni sotto il mio cuscino/ dormiva la morte”. Evidente,
dunque, che si tratta di un percorso che vive a dispetto del silenzio e della
morte, della cancellazione, e infatti verso dopo verso sentiamo una cadenza che
si apre e si adagia in lunghe pause, in strozzature eclatanti che preludono a
visioni in cui passato, presente e sogno s’intrecciano e ridisegnano la vita del
poeta nelle sue accensioni e nelle sue contraddizioni, con apparizioni che
sembrano banale quotidianità e invece sono strazio e dolore, perdita e
dissolvenza.
Del resto i titoli
delle quattro sezioni sono espliciti, la linea che corre dritta e si spezza, le
tappe d’un viaggio notturno senza romanticherie ed esaltazioni decadenti, i
dialoghi con le ore contate e addirittura l’aurora con il rasoio. Eppure non
c’è nulla di disperante, come se luci e ombre, miseria umana e gioia, dolore e
spiragli di sereno fossero un’unica matassa che si srotola soffermandosi a caso
su un aspetto o un altro, mettendo sul medesimo piano verità e bugia, realtà e
visioni, cose realmente accadute e cose che appaiono e sfumano in parole
neutre, dentro parole neutre, che però hanno la pretesa di significare: “E tu
cominci a sentire, nelle parole che hai detto, il respiro / di quelle taciute:
sono lì, bussano alla porta / non se ne vogliono andare, restano ferme fino a
sera, / ti sfiorano il viso e si allontaneranno solo all’alba / Restano lì e la
stanza diventa un’aula di tribunale e tu /
sei l’imputato. L’accusa è sempre la stessa: il silenzio. / Le attenuanti
non contano: dovevi parlare, dovevi / tirar fuori la bestia, esporre il demone
nero al pubblico giudizio, / mostrarlo alla primavera, spargerlo per il mondo,
guarire”.
Un esempio di come Milo
sa entrare e uscire dall’angoscia, domarla, ironizzando e coinvolgendo le cose
attorno in modo che tutto, ma proprio tutto, diventi occasione per decifrare il
senso primo e ultimo del vivere e del morire, per captare che cosa c’è dietro
il paravento delle giornate che scorrono nella plaga del silenzio e della
solitudine.
No, non c’è Franz
Kafka, ma semmai un’eco della lezione di Arthur Schnitzler e di Elias Canetti,
e c’è invece l’attenzione alle minuzie, spasmi, contorcimenti di ciò che appare
e non è, di ciò che sconfina nel sogno.
Il malessere che
circola nei versi ha qualcosa di assurdamente indecifrabile, come se scaturisse
da una fonte di cui non si conosce l’origine e dunque l’accatastamento delle
paure si sfalda nell’indistinto, non trova una ragione, non si spiega nulla.
E’come se Milo De Angelis navigasse su una nave priva di motori e di remi,
priva di marinai, che tuttavia va per i mari, perfino per i mari sconosciuti e
per i mari che un giorno si formeranno in qualche nuovo luogo, forse
dell’anima.
Alla base di tutto però
i ricordi esistono in una forma che ha qualcosa di dannatamente efficace e
pongono in essere un fluido misterioso che anticipa le emozioni, le spezza, le
butta nel cestino dei rifiuti.
Abilissimo Milo a
tessere la trama dell’impossibile, dell’indecifrabile, della violenza che non
trova lo spiraglio per far naufragare il mondo.
In questo sfasamento
della realtà parrebbe impossibile che il poeta possa camminare stilisticamente
e idealmente per una strada non accidentata e invece trova poesia dopo poesia
un rigore fermo, una facoltà labirintica di fermare il passo alla
disgregazione. Il risultato è un impasto linguistico comunicativo e vigile,
l’affascinante deriva d’un nuotatore che ha saputo districarsi dalle onde
furiose e arrivare alla riva per poter dire a s stesso a e al mondo: “La vita
continuerà altrove... / Il mondo continuerà altrove e io saluto tutti voi nella
corsa, / saluto la mia vita, breve, recisa, definitiva”.
Dante Maffìa
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