Ha fatto bene Giuseppe
Trebisacce, nella sua Introduzione, a richiamare il momento in cui la
microstoria ha assunto un ruolo non più marginale rispetto alla grande storia.
Prima si consideravano gli imperatori e i condottieri, i regnanti e al massimo
i generali, come se la gestione di un popolo o il combattimento di una guerra
fossero merito solo e soltanto di una persona. Finalmente giustizia è fatta,
direbbe un grande amico scrittore, ma è fatta soprattutto perché studiosi della
profondità e della serietà di Giuseppe
Trebisacce non hanno mai abbandonato la ricerca per ridisegnare gli
eventi nella loro essenza, nella loro verità spicciola, periferica.
Prova ne è
la scoperta, come altrimenti chiamarla?, di questa vicenda rimasta sepolta per
quasi un secolo e mezzo, anche se nelle dicerie paesane, nei racconti dei nonni
e dei bisnonni si vociferava di Francescantonio Mazzario come difensore della giustizia, uomo colto che
conosceva non solo la “Commedia” di Dante Alighieri, ma anche le opere di
Orazio, di Seneca, di Campanella e di Alfieri.
Pesco
queste reminiscenze di notizie nella vaghezza di ciò che raccontava mia nonna o
Zi Mingo Capitano che quasi settanta anni fa mi teneva fermo per ore davanti al
camino in ininterrotte trame di vicende variegate e colorate di un acceso e
ingenuo romanticismo che ripercorreva gli accadimenti e i personaggi di Roseto.
Ma torniamo
al libro che Giuseppe Trebisacce ci ripropone illustrandone, nella sua
illuminante introduzione, i pregi, quelli obiettivi, e proprio per evitare che
sia solo e soltanto amor di patria.
Ma prima
dello scritto di Trebisacce ci sono delle pagine di Rosanna Mazzia, Sindaco di
Roseto Capo Spulico, che spiegano che cosa significa recuperare la memoria, che
cosa sono le radici di un popolo e a che
valgono.
“Gli
scritti che si è scelto di ripubblicare, arricchiti da
note esplicative delle
parti di minore comprensione, offrono al
lettore la riproposizione di
tutti i mali che contraddistinguono da sempre la politica (con la minuscola) al
punto che gli scritti appaiono contemporanei, infarciti come sono di
riferimenti alla corruttela, al clientelismo, al trasformismo, al
collateralismo, alla compravendita di voti, ma anche al rampantismo, al
qualunquismo e all’approssimazione”.
Attualità a
parte, i documenti sono la prova lampante che niente nasce per caso e niente si
evolve se in una società, piccola o grande che sia, non ci sono uomini che
seminano fermenti, idee che circolano, proposte che tentano di rinnovare la
maniera di vivere, l’organizzazione delle istituzioni.
Mi pare che
Francescantonio Mazzario sia stato un uomo che aveva una saggezza e una visione
della comunità con vedute di vera democrazia. Non si era arroccato sui
privilegi che la sua condizione economica e sociale gli dava, ma si era messo
in gioco presentandosi alle elezioni a deputato nel collegio di Matera nel
1967.
Non aveva
vinto, non era un facinoroso, un intrigante
e così la “Penisoletta”, come
Zanotti Bianco chiamò l’Alto Jonio, la “Cenerentola”, come lo definì Don Pietro
De Tomamso, senza un fautore convinto, senza un difensore che conosceva le
piaghe dilaganti di Roseto e degli altri paesi, rimase indietro,
abbandonata ai capricci e ai soprusi di
dispotici proprietari di terre, baroni o delinquenti.
Non entro
assolutamente nella questione apertasi tra Francescantonio Mazzario e Nicola
Franchi, nella loro dialettica che pure ha dei momenti di sana lezione politica
intensa nella più umana ed equilibrata accezione, ma affermo che questa
operazione culturale, saggiamente culturale, aperta di Giuseppe Trebisacce,
possa avere un seguito sempre più agguerrito e fattivo. Non è casuale che le
note esplicative siano puntuali e precise per fare in modo che la lettura sia
agevolata e non fraintesa.
Si vedono
segni di studio di microstoria a Cassano Jonio, a Corigliano Calabro, a Morano,
a Rossano e quindi la fioritura è cominciata. E non è fioritura che deve
accendere soltanto l’orgoglio campanilistico, deve semmai dare la
consapevolezza che non siamo figli di nessuno neppure quando siamo cresciuti
sulle falde del Pollino, nei Sassi di Matera, nella malaria di Sibari. Le
radici hanno un senso straordinario per darci la dignità, non la superbia di
essere apparentati a Pitagora, ma la
convinzione che ci fu un seme che germogliò, poi fu seminato e riseminato e se
ne sono avute diversità, ma sempre in cammino.
Grazie
Rosanna Mazzia, grazie Giuseppe Trebisacce di questa lezione di storia che, se
sarà letta con pacata adesione diventerà
fermento etico ed estetico, coscienza di fare parte di una identità di
uomini veri.
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