Empito lirico per un
Neo-Romanticismo
di Daniela Fabrizi
Lasciateci in riva al sentimento, all’empito, al travaglio interiore che,
se è tormento, è vitale nutrimento.
Lasciateci alle fronde come vento, perché possiamo stordire l’enfasi
esteriore che non è dell’anima né più le rassomiglia, nel rumore di fondo di
ciò che precipita nel vuoto di valori di un mondo ormai sepolto.
Lasciateci l’impeto e l’assalto, perché possiamo collocarli nella
ribellione e nel silenzio di un’emozione che trascina l’uomo contro i mulini a
vento senza muoverli di punto.
Lasciateci carpire gli occhi pieni di vetri taglienti appesi alle
derivazioni del cervello, perché non si distraggano più nei cieli artificiali
delle parole vuote e radioattive che provocano il cancro delle menti.
La nostra solitudine non è senza senso, è premura di strappare alle cose il
sentimento, di recuperare legni brevi atti ad attraversare oceani di parole
lasciate ad ammarare su spiagge di sproloqui dove non c’è pensiero né lamento,
ma solo il correre di un tempo che non appartiene già più all’uomo né sicura
del buio suo fermento.
Lasciateci vocaboli e sistemi più vicini al vero e non a ciò che ha ridotto
il linguaggio vano nel suo finire inerte nel cielo depredato di significato.
Romantico non è ciò che commuove, e neppure ciò che lo scompone in contesti
personali di amore e di dolore che non sono condivisi. È riappropriarsi della
fonte di vita interiore dando voce a ciò che conta per l’uomo nel suo viaggio
nell’umanità lacerata, lasciata alla deriva di una globalità che è distruzione
della ricchezza dell’individualità che, condivisa, diviene comunità.
Lasciateci la vita, non quello che si chiama data, millennio, notte senza
riva e calma confusiva. Non lasciateci treni che non conoscono più evocative
stazioni perché da tempo hanno dimenticato i nomi delle banchine vuote. Non
lasciateci i campi che sorreggono mostruose altalene di colture destinate a
corpi senza cure, e che lasceranno il grano e il miglio nelle discariche
allusive di chi non ha bisogno di premure.
Il tempo interiore è l’intenzione, l’atto, il coacervo di concordanze unite
per iperbole alle rimembranze, con l’umana essenza denudata finalmente da
votive apparenze deputate alle lingue, all’allitterazione spenta, alla
disattesa sofferenza.
Nei numeri della poesia, gli archetipi si sposano con gli incipit primitivi
e divengono teoremi universali originali e fecondi, mai succedenti.
Lasciateci l’impegno della costruzione di una civiltà viva, di una lettura
lirico- soggettiva che divenga realtà e bisogno di universalità oggettiva.
Lasciateci un Neo-Romanticismo che abbia bisogno di condivisione e non più
di solipsismo, con versi capaci di creare nuovi linguaggi i cui significati
siano concepibili, e verbi coniugabili all’unisono da chi ha coscienza
dell’infinita potenza della creativa conoscenza e della libertà di divergenza.
Lasciateci l’amore da coltivare per dare cibo giusto a mente e cuore!
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