Una Prefazione di sedici pagine fa
immediatamente pensare di essere al cospetto di un’opera importante, specie se
è a firma di uno studioso e scrittore di grande valore come Giovanni Pistoia. Ma
avrò modo di tornare sullo scritto di Pistoia. Intanto leggiamo i quattro anni
di poesia offerta da Stanislao, entriamo nel suo giardino fiorito e vediamo di
individuare il “qualcosa, o qualcuno, che dentro vuole disperatamente essere”.
Partiamo da un testo intitolato “Poesia del pane”, per una ragione semplice,
per me la poesia deve essere pane, fatta con la semplicità con cui s’impasta il
pane. L’ho detto e ridetto mille volte e devo constatare che Stanislao Donadio
agisce proprio come le massaie dei nostri paesi (le poche rimaste), impasta
idee, immagini, parole dense e vive con acqua e sale e niente più. Da cui la
forza della sua poesia che ha radici pure e che poi diventano, ahimè, radici
impure. Nel contatto col mondo.
La densità del libro ha troppa forza
contundente, Donadio (mi piace che ogni poesia sia “Poesia del… per ribadire
che siamo dentro un luogo, direbbero i giapponesi, in cui ormai contano le
misure dell’anima, i profumi del cielo) si è calato in una dimensione che ha
qualcosa di magico ed è per questo che riesce a scrivere versi di estremo
interesse e carichi di tenerezza. Valga per tutti “Poesia dell’alloro in
movimento”, in cui il poeta riesce a creare una misura universale di emozioni
coinvolgendo sé stesso, gli animali e le piante. Non è casuale il mio
riferimento al Giappone.
Ma torniamo allo scritto, di rara
bellezza e profondità, di Giovanni Pistoia. A parte la disamina, quel suo
raccontare facendo critica, come ci ha insegnato Francesco De Sanctis, Pistoia
a un certo punto sente la necessità di avvisare il lettore che non si può
leggere Donadio a cuor leggero, come passeggiando distrattamente: “Non pensi il
lettore di attraversare queste poesie come si può fare con un campo di musco;
qui il cuore non fa rima con amore, e il cielo azzurro non sempre è azzurro, la
pioggia non sempre bagna, e il vissuto dell’autore, e attraverso l’autore il
vissuto di chi in quei versi si ritrova, non è una danza primaverile; spesso è
un intricato inverno. E lo stesso codice linguistico del poeta è, non poche
volte, un percorso a ostacoli, dove il reale e l’irreale, il paradosso e il
surreale, il fisico e il metafisico, si incontrano e si scontrano, si ritrovano
per poi perdersi ancora”.
Pistoia è riuscito a fotografare la
sostanza vera, intima, direi segreta della poesia di Stanislao focalizzando il suo
fare, rivelandoci la valanga di interessi che ha intravisto e mettendo in
rilievo la necessità interiore di una inquietudine che “pretende” quasi di
possedere il mondo e di cancellarlo e ricostruirlo.
Infatti “Alla Radice Impura” è una summa
di intendimenti, di progetti, di sogni, di cadute a picco nel mistero e
nell’angoscia, una resurrezione che poi però perde la sua grazia, un viaggio
infinito nel visibile e nell’invisibile, proprio come ha sempre pensato che si
debba fare Rainer Maria Rilke se si vuole ottenere grande poesia.
Sì, Donadio è un poeta che bisogna
leggere e rileggere, nelle sue corde ci sono molti interessi e molte fioriture
sempre in atto ecco perché la sua parola è, a un tempo, delicata e possente,
profumo di pane appena sfornato e accetta luccicante che anela a trovare la
fessura del mistero per rubargli le essenze e le ragioni della vita e della
morte.
Insomma, a dirla apertamente, Stanislao
Donadio è un poeta a tutto tondo, autentico, accorto, con le stimmate nelle
mani e nel cuore, ma anche con le finestre della sua anima spalancate per
suggere la brezza della speranza, la bellezza di ogni alba nuova.
Roma, novembre 2022
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