La stoppa e Dante Alighieri
Carmine De Luca*
La stoppa (o come si diceva una volta, stuppa) è gioco d’azzardo che, secondo alcuni giocologi (o giocologhi?), deriverebbe dalla primiera. Della primiera conserva il valore delle carte: il sette – la carta di valore massimo – vale ventuno punti, il sei diciotto punti, l’asso sedici, le figure dieci punti ciascuna, il cinque quindici, il quattro quattordici, il tre tredici, il due dodici. È diffusa soprattutto nelle regioni meridionali e, secondo quel che informa l’esperto di giochi Sebastiano Izzo, si hanno testimonianze della sua esistenza già nel 1695. La stoppa è articolata su due livelli: un primo livello è la distribuzione delle carte con la vincita di una parte del piatto per ciascuna mandata; un secondo livello è la stoppa vera e propria, cioè lo scarto in sequenza progressiva di numerazione da uno a dieci. Di giochi a due livelli ce ne son pochi. I giochi di carte hanno in gran parte un solo livello: scopa, briscola, tressette sono basati su un unico giro di distribuzione di carte; si fa a chi accumula più carte e una maggiore quantità di punteggio.
Le regole della stoppa sono complicate a spiegarle, semplici nel gioco. Non abbiamo spazio sufficiente per descriverle. Potete leggere, se volete conoscerle o verificarle, il libro di Sebastiano Izzo, I giochi di carte.
I piaceri che offre la stoppa possono essere dei più raffinati e sottili. Vuoi mettere quando nei giri di distribuzione delle carte (tre alla volta) hai tre carte dello stesso colore, magari con un sette? O quando hai un sette e un sei dello stesso colore e aspetti che si completi il punto con un asso e ottenere un tondo cinquantacinque? Vuoi mettere quando, alla fine, si stoppa e disponi di una lunga sequenza e puoi calarla, mentre altri hanno magari ancora dieci carte in mano? Ma i piaceri sono legati soprattutto – antica, antichissima voluttà – al danaro, al piatto.
I giocologi (o giocologhi?)… Consentite una forse non inutile digressione. Lo Zingarelli non registra il termine giocologo. Neppure altri vocabolari correnti. Ma sulla sua diffusione non mancano documenti lessicografici autorevoli. Luca Serianni nella sua Grammatica italiana (Utet, Torino 1988) tra i “composti scientifici con elementi greco-latini” registra giocologo nel senso di esperto di giochi matematici (perché solo matematici?) e fornisce come prima attestazione un titolo del quotidiano “la Repubblica” del 31.8.1986, Da questa sera sette lezioni del giocologo Ennio Peres”. L’origine di giocologo si può retrodatare almeno di cinque anni. Già nel novembre 1981 sul settimanale “Noi Donne” Sandra Onofri aveva coniato e usato il termine: “Tempo fa ho incontrato un tipo, si chiama Ennio Peres e fa il giocologo”. Oggi il solito Ennio Peres sul suo biglietto da visita si fregia, con sublime ironia, del titolo di giocologo. Fermiamoci qui. E torniamo al gioco della stoppa.
Facevamo il liceo e quasi quotidianamente giocavamo alla stoppa. Con Enzo Palma e Vittorio Scagliano. Spesso una quarta sedia era occupata da Peppino Marrazzo. La posta in gioco era qualche soldo. Poche decine di lire, sufficienti per le sigarette e, a volte, per il cinema (Comunale o Moderno). Erano gli ultimi anni cinquanta – i bui e tristi anni cinquanta. Giocare a stoppa era diventato un rituale al quale senza rammarico si sacrificava qualsiasi altro possibile diversivo. Anche il biliardo nel quale Enzo era maestro. Anche il bar. Se era domenica, anche lo struscio (su e giù, su e giù, avanti e indietro, avanti e indietro…) Un rituale, quello della stoppa, che si rinnovava di giorno in giorno; e ogni giorno trovava alimento nel mancato pareggio dei conti: chi aveva perso sperava di rifarsi, chi aveva vinto sperava di vincere ancora.
Ma la stoppa bisognava conciliarla con lo studio. Un rigido controllo familiare, moltiplicato per tre, non ci consentiva di trascurare la scuola. L’avessimo fatto, non avremmo più avuto spazio per la stoppa. Riuscivamo perfettamente a far coesistere le due cose. Prima lo studio, poi le carte. Mettevamo prima lo studio non perché si nutrissero fervidi sensi di responsabilità, e, dunque, prima – come si dice – il dovere e poi il piacere. Prima si poneva lo studio soltanto perché bisognava sbrigarsela e avere più tempo per la stoppa.
Si contrapponevano in quei pomeriggi due mondi, entrambi vissuti ludicamente: il “gioco” dello studio che vedeva una piena e perfetta sintonia fra noi tre studentelli (Enzo, Vittorio e me) – tre intelligenze che funzionavano in completa sintonia per fare i compiti – e il “gioco” delle carte (della stoppa) nel quale dominava una totale, impietosa competitività - le tre intelligenze funzionavano ciascuna per conto proprio, ognuno faceva per sé. A dividerci c’era la posta in gioco, le poche decine di lire. Intorno al tavolo, per ore, ciascuna aveva un proprio modo d’essere, secondo la propria indole. Enzo esercitava un impassibile spirito geometrico fatto di ordine nelle cose materiali (le carte, i mucchietti di monete, ecc.) e di complicati conteggi mentali delle carte uscite e distribuite. Vittorio metteva in gioco un certo suo atteggiamento ironico e burlone che spesso sconcertava. Io, fra i tre, avevo meno confidenza con le carte. E se vincevo era solo per caso. Dipendevo dalle carte e facevo ogni scongiuro in attesa di buone combinazioni. Non riuscivo nel bluff.
Nella prima parte del pomeriggio, ci si applicava a temi e riassunti, si risolvevano problemi, si facevano versioni dal francese e in francese, dal latino e in latino (a turno si cercavano i termini esatti sul vocabolario). Un giorno fummo impegnati in un tema o commento del sesto canto dell’Inferno (quello di Ciacco e della “piova etterna, maledetta, fredda e greve”). La cosa andava per le lunghe per le difficoltà dei versi. Riuscimmo a mettere insieme, uno alla volta, i tre testi di commento con l’aiuto delle note di numerose edizioni della Divina Commedia (sette-otto commenti diversi: Scartazzini-Vandelli, Sapegno, Grabher, Steiner, …). Neppure Ciacco era riuscito a incrinare l’intesa fra i tre. Poi, fu la liberazione. Qualcuno fece una pila di libri alta così e, a sfogo della propria e altrui tensione, la lanciò per aria. Qualcun altro riuscì ad agguantarla prima che rovinasse a terra. E fummo pronti per la stoppa.
Nella seconda parte, il tavolo dove prima avevano incrociato e si erano sfogliati libri di ogni genere, diventava arengo di surrogati di conflitti e battaglie all’utimo sangue: nessuna pietà per l’avversario. Ancora non esistevano i cosiddetti giochi di ruolo, ma già le contese con la stoppa erano dure e spietate.
Alla fine qualcuno aveva perso tutto quel che aveva in tasca. I soldi vinti non potevano essere restituiti neppure in minima parte. Si credeva portasse male. Tuttavia, non mancavano forme di solidarietà: frequente quella di fornire qualche sigaretta. Il giorno dopo, chissà, sarebbe andata meglio.
*Nota. L’articolo “La stoppa e Dante Alighieri” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta. Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.
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Carmine De Luca*
La stoppa (o come si diceva una volta, stuppa) è gioco d’azzardo che, secondo alcuni giocologi (o giocologhi?), deriverebbe dalla primiera. Della primiera conserva il valore delle carte: il sette – la carta di valore massimo – vale ventuno punti, il sei diciotto punti, l’asso sedici, le figure dieci punti ciascuna, il cinque quindici, il quattro quattordici, il tre tredici, il due dodici. È diffusa soprattutto nelle regioni meridionali e, secondo quel che informa l’esperto di giochi Sebastiano Izzo, si hanno testimonianze della sua esistenza già nel 1695. La stoppa è articolata su due livelli: un primo livello è la distribuzione delle carte con la vincita di una parte del piatto per ciascuna mandata; un secondo livello è la stoppa vera e propria, cioè lo scarto in sequenza progressiva di numerazione da uno a dieci. Di giochi a due livelli ce ne son pochi. I giochi di carte hanno in gran parte un solo livello: scopa, briscola, tressette sono basati su un unico giro di distribuzione di carte; si fa a chi accumula più carte e una maggiore quantità di punteggio.
Le regole della stoppa sono complicate a spiegarle, semplici nel gioco. Non abbiamo spazio sufficiente per descriverle. Potete leggere, se volete conoscerle o verificarle, il libro di Sebastiano Izzo, I giochi di carte.
I piaceri che offre la stoppa possono essere dei più raffinati e sottili. Vuoi mettere quando nei giri di distribuzione delle carte (tre alla volta) hai tre carte dello stesso colore, magari con un sette? O quando hai un sette e un sei dello stesso colore e aspetti che si completi il punto con un asso e ottenere un tondo cinquantacinque? Vuoi mettere quando, alla fine, si stoppa e disponi di una lunga sequenza e puoi calarla, mentre altri hanno magari ancora dieci carte in mano? Ma i piaceri sono legati soprattutto – antica, antichissima voluttà – al danaro, al piatto.
I giocologi (o giocologhi?)… Consentite una forse non inutile digressione. Lo Zingarelli non registra il termine giocologo. Neppure altri vocabolari correnti. Ma sulla sua diffusione non mancano documenti lessicografici autorevoli. Luca Serianni nella sua Grammatica italiana (Utet, Torino 1988) tra i “composti scientifici con elementi greco-latini” registra giocologo nel senso di esperto di giochi matematici (perché solo matematici?) e fornisce come prima attestazione un titolo del quotidiano “la Repubblica” del 31.8.1986, Da questa sera sette lezioni del giocologo Ennio Peres”. L’origine di giocologo si può retrodatare almeno di cinque anni. Già nel novembre 1981 sul settimanale “Noi Donne” Sandra Onofri aveva coniato e usato il termine: “Tempo fa ho incontrato un tipo, si chiama Ennio Peres e fa il giocologo”. Oggi il solito Ennio Peres sul suo biglietto da visita si fregia, con sublime ironia, del titolo di giocologo. Fermiamoci qui. E torniamo al gioco della stoppa.
Facevamo il liceo e quasi quotidianamente giocavamo alla stoppa. Con Enzo Palma e Vittorio Scagliano. Spesso una quarta sedia era occupata da Peppino Marrazzo. La posta in gioco era qualche soldo. Poche decine di lire, sufficienti per le sigarette e, a volte, per il cinema (Comunale o Moderno). Erano gli ultimi anni cinquanta – i bui e tristi anni cinquanta. Giocare a stoppa era diventato un rituale al quale senza rammarico si sacrificava qualsiasi altro possibile diversivo. Anche il biliardo nel quale Enzo era maestro. Anche il bar. Se era domenica, anche lo struscio (su e giù, su e giù, avanti e indietro, avanti e indietro…) Un rituale, quello della stoppa, che si rinnovava di giorno in giorno; e ogni giorno trovava alimento nel mancato pareggio dei conti: chi aveva perso sperava di rifarsi, chi aveva vinto sperava di vincere ancora.
Ma la stoppa bisognava conciliarla con lo studio. Un rigido controllo familiare, moltiplicato per tre, non ci consentiva di trascurare la scuola. L’avessimo fatto, non avremmo più avuto spazio per la stoppa. Riuscivamo perfettamente a far coesistere le due cose. Prima lo studio, poi le carte. Mettevamo prima lo studio non perché si nutrissero fervidi sensi di responsabilità, e, dunque, prima – come si dice – il dovere e poi il piacere. Prima si poneva lo studio soltanto perché bisognava sbrigarsela e avere più tempo per la stoppa.
Si contrapponevano in quei pomeriggi due mondi, entrambi vissuti ludicamente: il “gioco” dello studio che vedeva una piena e perfetta sintonia fra noi tre studentelli (Enzo, Vittorio e me) – tre intelligenze che funzionavano in completa sintonia per fare i compiti – e il “gioco” delle carte (della stoppa) nel quale dominava una totale, impietosa competitività - le tre intelligenze funzionavano ciascuna per conto proprio, ognuno faceva per sé. A dividerci c’era la posta in gioco, le poche decine di lire. Intorno al tavolo, per ore, ciascuna aveva un proprio modo d’essere, secondo la propria indole. Enzo esercitava un impassibile spirito geometrico fatto di ordine nelle cose materiali (le carte, i mucchietti di monete, ecc.) e di complicati conteggi mentali delle carte uscite e distribuite. Vittorio metteva in gioco un certo suo atteggiamento ironico e burlone che spesso sconcertava. Io, fra i tre, avevo meno confidenza con le carte. E se vincevo era solo per caso. Dipendevo dalle carte e facevo ogni scongiuro in attesa di buone combinazioni. Non riuscivo nel bluff.
Nella prima parte del pomeriggio, ci si applicava a temi e riassunti, si risolvevano problemi, si facevano versioni dal francese e in francese, dal latino e in latino (a turno si cercavano i termini esatti sul vocabolario). Un giorno fummo impegnati in un tema o commento del sesto canto dell’Inferno (quello di Ciacco e della “piova etterna, maledetta, fredda e greve”). La cosa andava per le lunghe per le difficoltà dei versi. Riuscimmo a mettere insieme, uno alla volta, i tre testi di commento con l’aiuto delle note di numerose edizioni della Divina Commedia (sette-otto commenti diversi: Scartazzini-Vandelli, Sapegno, Grabher, Steiner, …). Neppure Ciacco era riuscito a incrinare l’intesa fra i tre. Poi, fu la liberazione. Qualcuno fece una pila di libri alta così e, a sfogo della propria e altrui tensione, la lanciò per aria. Qualcun altro riuscì ad agguantarla prima che rovinasse a terra. E fummo pronti per la stoppa.
Nella seconda parte, il tavolo dove prima avevano incrociato e si erano sfogliati libri di ogni genere, diventava arengo di surrogati di conflitti e battaglie all’utimo sangue: nessuna pietà per l’avversario. Ancora non esistevano i cosiddetti giochi di ruolo, ma già le contese con la stoppa erano dure e spietate.
Alla fine qualcuno aveva perso tutto quel che aveva in tasca. I soldi vinti non potevano essere restituiti neppure in minima parte. Si credeva portasse male. Tuttavia, non mancavano forme di solidarietà: frequente quella di fornire qualche sigaretta. Il giorno dopo, chissà, sarebbe andata meglio.
*Nota. L’articolo “La stoppa e Dante Alighieri” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta. Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.
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Hai una esperienza in merito a questo o ad altri giochi da raccontare? Se vuoi, scrivimi: giovannipistoia@libero.it
(1 maggio 2008)
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