Anche Bruegel giocava al cerchio
Carmine De Luca*
Una volta ho avuto un cerchio col quale facevo baldanzose scorribande su e giù per il paese.
Lo chiamavamo solo e sempre “ruollo”; non avevamo consapevolezza che si potesse chiamare anche con l’italiano “cerchio”.
Erano anni, gli anni quaranta e cinquanta, di totale dominio del dialetto. L’italiano era lontano dalla nostra esperienza di vita quanto lo era una lingua straniera, quanto lo era il francese o l’inglese o l’arabo. Chi usava l’italiano era diverso, estraneo. Se forestiero, era depositario di un fare superiore, aveva qualcosa di più; se paesano, coriglianese, il suo parlare italiano appariva un’inconcludente ostentazione e frutto di sconfinata vanità. Ci si sentiva autorizzati a canzonarlo e sbeffeggiarlo. Parla come mangi, si diceva. Oppure: parla come t’ha fatto màmmeta. La lingua italiana aveva qualcosa di innaturale ai nostri occhi, tanto è vero che solo a scuola, per esercizio, per finta si poteva avere con essa una qualche frequentazione. A scuola, l’italiano era come la storia, come la geografia, come la matematica. Cose astruse, e estranee al nostro orizzonte esistenziale.
Non ricordo di preciso a che età ho posseduto il cerchio. Certamente dopo i sette-otto anni e prima dei tredici. Prima dei sette-otto anni credo non si avesse ancora la perfetta autonomia di coordinazione della guida del cerchio; a tredici anni cominciavamo a sentirci fuori dall’infanzia e dai suoi giochi, eravamo alla soglia di un’età che maliziosamente preferiva prestare attenzione alle ragazze, alle donne piuttosto che ai giochi e giocattoli, l’età dei primi malesseri e delle sconvolgenti fantasie erotiche che agitavano anima e corpo. Il cerchio a tredici anni era un’incongruenza, roba da bambini.
A tredici anni portavamo in genere ancora i calzoni corti, d’estate e d’inverno, secondo un costume familiare che non si curava dei possibili effetti delle temperature fredde o che – chissà – riteneva che il freddo invernale desse forza, consolidasse il fisico. C’era chi invece a quell’età cominciava ad indossare, d’inverno, i pantaloni alla zuava con i calzettoni colorati. Ed erano figli di famiglie benestanti. Nelle famiglie benestanti ci si preoccupava che i figli non prendessero freddo alle gambe. I genitori benestanti non pensavano che le temperature fredde dessero forza e rinsaldassero il temperamento.
Non ricordo come venni in possesso del cerchio. I cerchi – i “ruolli” – si cedevano, si compravano, si trovavano per caso in qualche discarica. Fonte primaria per cessioni, acquisti e abbandoni in discariche dovevano essere i “meccanici” di biciclette: Labonia, Policastri, Le Pera. Il ricambio di invecchiati – anche arrugginiti – cerchi soddisfaceva la domanda dei ragazzini. Quando ne venivi in possesso ti deliziavi a farlo ruotare per vicoli e strade, discese e salite, in corse che desideravi interminabili e che invece si concludevano, nel sudore, con un inevitabile fiatone che ti rinsecchiva la gola.
Il cerchio era di due tipi. Il cerchio da bicicletta normale e – più raro, più apprezzato, più ricercato – il cerchio da bicicletta da corsa (sottile e leggero). Il secondo comportava nel gioco, durante la corsa, un maggiore transfert di fantasia (ci si sentiva un po’ come ciclisti). Ma il primo a conti fatti funzionava meglio perché il rapporto tra peso, diametro e spinta trovava più agevolmente il punto di equilibrio. Soprattutto in discesa e nelle curve il cerchio normale era preferibile. Il maggior peso rispetto all’altro e il più largo scartamento tra i due bordi gli facevano tenere meglio il terreno, la corsa era più controllabile.
Il gioco del cerchio è antico. Il banchiere tedesco Andreas Schwarz vissuto nel XVI secolo, scrisse una sorta di autobiografia nella quale ricorda in forma di didascalie a episodi illustrati anche i giochi della sua infanzia. Nel libro (A. Schwarz, Tachtenbuch, in Ph. Braunstein (a cura di), Un banquier mis à nu, Gallimard, Paris 1992) appare l’immagine di un bambino con il cerchio. “Documento singolarissimo – annota Egle Becchi in I bambini nella storia (Laterza, Roma-Bari 1994, p. 278) – di un individuo, una società, un modo di essere nel mondo, il Libro dei costumi di Andreas Schwarz consente di cogliere momenti di vita infantile agli inizi del XVI secolo e di vederli dall’ottica di chi li ha vissuti, li ricorda, fa tradurre in immagine la sua memoria”.
Ancora dal Cinquecento giunge un’altra suggestiva testimonianza sul gioco del cerchio. Nel 1560 il pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio creava quello straordinario dipinto Giochi di fanciulli, babelico e rutilante catalogo dei giochi infantili. Tra una folla di bambini impegnati a giocare con i dadi, a cavalcare una botte o una staccionata, fare capriole, lanciare trottole, arrampicarsi su alberi, saltare l’uno addosso all’altro, ne appaiono in primo piano due che fanno a gara a far correre il cerchio dando colpi con un bastoncino.
Di che materia saranno stati quei cerchi del Cinquecento? Saranno stati di legno, un legno flessibile, ritorto su se stesso e fissato da legacci.
Noi, negli anni quaranta, negli anni cinquanta, il cerchio non dovevamo costruircelo, ce l’avevamo già bell’e fatto, era il cerchio della ruota da bicicletta, privato di camera d’aria e di raggi. Dovevamo invece rimediare uno strumento per guidare e spingere il cerchio: poteva essere, sì, un semplicissimo bastoncino che, incastrato nell’incavo del cerchio, servisse a spingere. Ma poteva risultare pericoloso. Se, durane la corsa, per caso il bastoncino si fosse impigliato con la punta in uno dei fori dei raggi del cerchio, erano dolori: il rinculo poteva finanche slogare il braccio. Meglio del bastoncino risultava una guida metallica, un vero e proprio manubrio che avvolgeva i bordi del cerchio.
Il manubrio si costruiva così: fil di ferro abbastanza robusto piegato a forma di elle; la parte più lunga, adibita a manico, la si rinforzava aggiungendo un bastoncino e attorcendo altro fil di ferro; la parte più corta la si piegava a semicerchio con l’arco più o meno ampio secondo i gusti. Questo arco faceva da guida al rotolarsi del cerchio.
Il gioco del cerchio ha come antenato il gioco della ruzzola. Anche il nome dialettale – “ruolo” – attesta la discendenza. Il Glossario latino italiano di Pietro Stella, che ho avuto già occasione di citare, registra un ludus ruelle (gioco della ruzzola, appunto) praticato verso la fine del 13° secolo ad Alessandria e un ludus ad rundulum seu rollum di cui si parla nel secolo successivo a Noto, in Sicilia.
La ruzzola era un cerchio piccolo e veniva giocata anche da adulti in gara. Non col bastoncino si faceva rotolare, ma con un lungo spago avvolto. Un po’ come la trottola. Di norma la ruzzola bisognava costruirsela in metallo o in legno. Levigarla con pazienza e perizia per farne uno strumento di vittoria. Come un’arma: una spada, una lancia. Si sa, una gran parte di giochi simula scontri in battaglie.
Si è anche data nei tempi come ruzzola casereccia la forma di formaggio. Ho vaga memoria di questo gioco tra adulti. Si faceva, a squadre, sulla via per Rossano e bisognava seguire rigorosamente, pena la squalifica, il percorso a curve superando avvallamenti e dossi. Si formavano di bocca in bocca, di discussione in discussione classifiche dei più bravi, dei campioni, si magnificavano le imprese di chi con un sol colpo riusciva a tagliare una curva a gomito superando una collinetta. Gli incontri pare avessero una conclusione conviviale nelle ‘cantine’ o, più signorilmente, in casa. Ovviamente, il formaggio, a pezzi, sulla tavola. I vinti pagavano l’onnipresente vino.
*Nota. L’articolo “Anche Bruegel giocava al cerchio” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta. Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.
Cliccare l’immagine per ingrandirla.
Carmine De Luca*
Una volta ho avuto un cerchio col quale facevo baldanzose scorribande su e giù per il paese.
Lo chiamavamo solo e sempre “ruollo”; non avevamo consapevolezza che si potesse chiamare anche con l’italiano “cerchio”.
Erano anni, gli anni quaranta e cinquanta, di totale dominio del dialetto. L’italiano era lontano dalla nostra esperienza di vita quanto lo era una lingua straniera, quanto lo era il francese o l’inglese o l’arabo. Chi usava l’italiano era diverso, estraneo. Se forestiero, era depositario di un fare superiore, aveva qualcosa di più; se paesano, coriglianese, il suo parlare italiano appariva un’inconcludente ostentazione e frutto di sconfinata vanità. Ci si sentiva autorizzati a canzonarlo e sbeffeggiarlo. Parla come mangi, si diceva. Oppure: parla come t’ha fatto màmmeta. La lingua italiana aveva qualcosa di innaturale ai nostri occhi, tanto è vero che solo a scuola, per esercizio, per finta si poteva avere con essa una qualche frequentazione. A scuola, l’italiano era come la storia, come la geografia, come la matematica. Cose astruse, e estranee al nostro orizzonte esistenziale.
Non ricordo di preciso a che età ho posseduto il cerchio. Certamente dopo i sette-otto anni e prima dei tredici. Prima dei sette-otto anni credo non si avesse ancora la perfetta autonomia di coordinazione della guida del cerchio; a tredici anni cominciavamo a sentirci fuori dall’infanzia e dai suoi giochi, eravamo alla soglia di un’età che maliziosamente preferiva prestare attenzione alle ragazze, alle donne piuttosto che ai giochi e giocattoli, l’età dei primi malesseri e delle sconvolgenti fantasie erotiche che agitavano anima e corpo. Il cerchio a tredici anni era un’incongruenza, roba da bambini.
A tredici anni portavamo in genere ancora i calzoni corti, d’estate e d’inverno, secondo un costume familiare che non si curava dei possibili effetti delle temperature fredde o che – chissà – riteneva che il freddo invernale desse forza, consolidasse il fisico. C’era chi invece a quell’età cominciava ad indossare, d’inverno, i pantaloni alla zuava con i calzettoni colorati. Ed erano figli di famiglie benestanti. Nelle famiglie benestanti ci si preoccupava che i figli non prendessero freddo alle gambe. I genitori benestanti non pensavano che le temperature fredde dessero forza e rinsaldassero il temperamento.
Non ricordo come venni in possesso del cerchio. I cerchi – i “ruolli” – si cedevano, si compravano, si trovavano per caso in qualche discarica. Fonte primaria per cessioni, acquisti e abbandoni in discariche dovevano essere i “meccanici” di biciclette: Labonia, Policastri, Le Pera. Il ricambio di invecchiati – anche arrugginiti – cerchi soddisfaceva la domanda dei ragazzini. Quando ne venivi in possesso ti deliziavi a farlo ruotare per vicoli e strade, discese e salite, in corse che desideravi interminabili e che invece si concludevano, nel sudore, con un inevitabile fiatone che ti rinsecchiva la gola.
Il cerchio era di due tipi. Il cerchio da bicicletta normale e – più raro, più apprezzato, più ricercato – il cerchio da bicicletta da corsa (sottile e leggero). Il secondo comportava nel gioco, durante la corsa, un maggiore transfert di fantasia (ci si sentiva un po’ come ciclisti). Ma il primo a conti fatti funzionava meglio perché il rapporto tra peso, diametro e spinta trovava più agevolmente il punto di equilibrio. Soprattutto in discesa e nelle curve il cerchio normale era preferibile. Il maggior peso rispetto all’altro e il più largo scartamento tra i due bordi gli facevano tenere meglio il terreno, la corsa era più controllabile.
Il gioco del cerchio è antico. Il banchiere tedesco Andreas Schwarz vissuto nel XVI secolo, scrisse una sorta di autobiografia nella quale ricorda in forma di didascalie a episodi illustrati anche i giochi della sua infanzia. Nel libro (A. Schwarz, Tachtenbuch, in Ph. Braunstein (a cura di), Un banquier mis à nu, Gallimard, Paris 1992) appare l’immagine di un bambino con il cerchio. “Documento singolarissimo – annota Egle Becchi in I bambini nella storia (Laterza, Roma-Bari 1994, p. 278) – di un individuo, una società, un modo di essere nel mondo, il Libro dei costumi di Andreas Schwarz consente di cogliere momenti di vita infantile agli inizi del XVI secolo e di vederli dall’ottica di chi li ha vissuti, li ricorda, fa tradurre in immagine la sua memoria”.
Ancora dal Cinquecento giunge un’altra suggestiva testimonianza sul gioco del cerchio. Nel 1560 il pittore fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio creava quello straordinario dipinto Giochi di fanciulli, babelico e rutilante catalogo dei giochi infantili. Tra una folla di bambini impegnati a giocare con i dadi, a cavalcare una botte o una staccionata, fare capriole, lanciare trottole, arrampicarsi su alberi, saltare l’uno addosso all’altro, ne appaiono in primo piano due che fanno a gara a far correre il cerchio dando colpi con un bastoncino.
Di che materia saranno stati quei cerchi del Cinquecento? Saranno stati di legno, un legno flessibile, ritorto su se stesso e fissato da legacci.
Noi, negli anni quaranta, negli anni cinquanta, il cerchio non dovevamo costruircelo, ce l’avevamo già bell’e fatto, era il cerchio della ruota da bicicletta, privato di camera d’aria e di raggi. Dovevamo invece rimediare uno strumento per guidare e spingere il cerchio: poteva essere, sì, un semplicissimo bastoncino che, incastrato nell’incavo del cerchio, servisse a spingere. Ma poteva risultare pericoloso. Se, durane la corsa, per caso il bastoncino si fosse impigliato con la punta in uno dei fori dei raggi del cerchio, erano dolori: il rinculo poteva finanche slogare il braccio. Meglio del bastoncino risultava una guida metallica, un vero e proprio manubrio che avvolgeva i bordi del cerchio.
Il manubrio si costruiva così: fil di ferro abbastanza robusto piegato a forma di elle; la parte più lunga, adibita a manico, la si rinforzava aggiungendo un bastoncino e attorcendo altro fil di ferro; la parte più corta la si piegava a semicerchio con l’arco più o meno ampio secondo i gusti. Questo arco faceva da guida al rotolarsi del cerchio.
Il gioco del cerchio ha come antenato il gioco della ruzzola. Anche il nome dialettale – “ruolo” – attesta la discendenza. Il Glossario latino italiano di Pietro Stella, che ho avuto già occasione di citare, registra un ludus ruelle (gioco della ruzzola, appunto) praticato verso la fine del 13° secolo ad Alessandria e un ludus ad rundulum seu rollum di cui si parla nel secolo successivo a Noto, in Sicilia.
La ruzzola era un cerchio piccolo e veniva giocata anche da adulti in gara. Non col bastoncino si faceva rotolare, ma con un lungo spago avvolto. Un po’ come la trottola. Di norma la ruzzola bisognava costruirsela in metallo o in legno. Levigarla con pazienza e perizia per farne uno strumento di vittoria. Come un’arma: una spada, una lancia. Si sa, una gran parte di giochi simula scontri in battaglie.
Si è anche data nei tempi come ruzzola casereccia la forma di formaggio. Ho vaga memoria di questo gioco tra adulti. Si faceva, a squadre, sulla via per Rossano e bisognava seguire rigorosamente, pena la squalifica, il percorso a curve superando avvallamenti e dossi. Si formavano di bocca in bocca, di discussione in discussione classifiche dei più bravi, dei campioni, si magnificavano le imprese di chi con un sol colpo riusciva a tagliare una curva a gomito superando una collinetta. Gli incontri pare avessero una conclusione conviviale nelle ‘cantine’ o, più signorilmente, in casa. Ovviamente, il formaggio, a pezzi, sulla tavola. I vinti pagavano l’onnipresente vino.
*Nota. L’articolo “Anche Bruegel giocava al cerchio” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta. Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.
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Hai una esperienza in merito a questo o ad altri giochi da raccontare? Se vuoi, scrivimi: giovannipistoia@libero.it
(10 maggio 2008)
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