A colpi di monete
Carmine De Luca*
I giochi possono classificarsi utilmente secondo la stagione nella quale vengono praticati. Ma le stagioni dei giochi, a ben vedere, sono due, non quattro: si distinguono i giochi estivi, giochi all’aperto, e i giochi invernali o giochi domestici, tra quattro pareti. La primavera è assorbita dall’estate; l’autunno continua, in parte, l’estate, per il resto è risucchiato dall’inverno. A settembre ottobre, soprattutto dalle parti nostre, si protraggono i giochi estivi. Da novembre si è ormai in inverno.
Il discrimine fra le due stagioni era segnato, ai miei otto-dieci anni, nei primi anni cinquanta, dall’abitudine, non so quanto diffusa ma di ineffabile piacere, di portare o non portare le scarpe. Le scarpe, con i primi veri caldi – a giugno, a luglio – si toglievano e si rimettevano a settembre. Si usciva di casa doverosamente con le scarpe ai piedi, ma appena fuori dal tiro dei familiari ci si metteva scalzi. Gli inevitabili incidenti provocati da dolori e sanguinolenti incontri con schegge di vetro o con chiodi o con l’ortica erano compensati dalle delizie elargite dal sempre gradevole contato dei piedi con l’erba fresca, con il pastoso fango, con la sabbia tiepida.
Sapevo bene allora che andare in giro scalzi era inequivocabilmente segno di miseria, era indizio certo di bassa collocazione sociale. È per questo che i piedi scalzi osavano soltanto deserti campi, sentieri fuori dall’abitato, mai vie cittadine, per quanto queste fossero poco frequentate.
Nella stagione dei piedi scalzi si giocava a battimuro.
A battimuro si era autorizzati a giocare dai 12-13 anni in su. Autorizzati da chi e da che cosa? Dalle tacite norme che si formano e si istituzionalizzano col tempo nel collettivo di ragazzi. Per giocare a battimuro occorre disporre di una maturata coordinazione di movimenti (è abbastanza complessa la torsione del busto per la battuta), di una buona percezione delle distanze, di un sufficiente controllo della forza che va impressa alla moneta battuta al muro. E non è pensabile che prima dei dodici anni si sia capaci di tanto.
Si accedeva al gruppo di piccoli giocatori prima di tutto se si poteva contare sulla disponibilità di una congrua quantità di monete. Che venivano rintracciate con ansiose ricerche nei fondi di cassetti, in polverosi recipienti d’ogni genere dimenticati o abbandonati nelle zone meno in vista di casa (erano – che so – vasi che una volta avevano dignitosamente ospitato fiori e che, a seguito di chissà quali eventi, dispensati dalle originarie funzioni, erano adibiti a pigri contenitori di ogni cianfrusaglia).
Le monete disponibili, tra gli anni quaranta e cinquanta, erano diverse, tutte fuori corso, residui del sistema monetario dell’Italia dei Savoia e del fascismo. Sul davanti recavano tutto il profilo, volto a destra o a sinistra, di Vittorio Emanuele III (“Re e Imperatore”, era scritto lungo il bordo).
Sul retro avevano soggetti differenti.
Le due lire in acmonital (acronimo per “acciaio monetario italiano” che ad inizio della seconda guerra mondiale aveva sostituito il nichelio a causa dell’alto costo di questo metallo) recavano l’immagine dell’aquila imperiale con ali spiegate e nel basso lo stemma sabaudo. I 50 centesimi in nichelio avevano l’allegoria dell’Italia, con fiaccola nella sinistra, su carro trainato da quattro leoni; sui 20 centesimi in nichelio era indicato il valore della moneta inscritto in un esagono; i 20 centesimi in nichelio avevano la testa nuda dell’Italia rivolta a destra, con alla sinistra il fascio littorio; i 10 centesimi in rame un’ape su un fiore; i 5 centesimi in rame una spiga di grano.
La qualità del metallo determinava i risultati del gioco, l’agilità della traiettoria dal muro alla meta. Con i soldi di acmonital e di nichelio si avevano esiti esaltanti. Era più agevole afferrare tra le dita le due lire o i 50 centesimi. Rimbalzavano meglio, avevano una più efficace capacità balistica. A saperne regolare la battuta sembrava magica la loro abilità a accostarsi alla moneta dell’avversario.
Se scendevi in campo attrezzato di monetine di rame eri destinato a sicura sonora disfatta. Perdevi tutto. Dieci e cinque centesimi erano irreparabilmente divorate dalle monete più grosse.
Ogni tempo ha avuto le sue monete preferite per il battimuro. Fra fine Ottocento e inizio del secolo si giocava con i dieci centesimi di rame. Vasco Pratolini nelle Cronache di poveri amanti scrive di ragazzini che, ad inizio di secolo, “giocavano a battimuro coi diecioni di Re Umberto”.
Le regole del battimuro sono semplici. Si segna una riga per terra (la meta) ad una certa distanza dalla parete di un edificio. Bisogna avvicinarsi a essa con la moneta che colpisce il muro. Oppure accostarsi di una certa unità di misura – un palmo, poniamo, o lunghezza di un bastoncino oppure di uno spago – alla moneta che l’avversario ha precedentemente battuto. Questo secondo modo di regolare il gioco è materia dei versi del lucano Leonardo Sinisgalli:
I fanciulli battono le monete rosse
contro il muro. (Cadono distanti
Per terra con dolce rumore.) Gridano
a squarciagola in un fuoco di guerra.
Si scambiano motti superbi
e dolcissime ingiurie. La sera
incendia le fronti, infuria i capelli.
Sulle selci calda è come sangue.
Il piazzale torna calmo.
Una moneta battuta si posa
vicino all’altra alla misura di un palmo.
Il fanciullo preme sulla terra
la sua mano vittoriosa.
Se si voleva vincere occorreva avere pieno controllo delle componenti del gioco, soprattutto della traiettoria della moneta (angolata e con “effetto” oppure diritta o di piatto) e del tipo muro.
Per un lungo periodo si preferì adottare per i nostri giochi la porzione di muro tra il portale della chiesa di S. Antonio e l’ingresso dell’istituto Garopoli. Aveva un intonaco omogeneamente robusto e pieno. D’altronde quel luogo presentava la difficoltà di un acciottolato irregolare sul quale le monete rimbalzavano senza che se ne potesse prevedere il punto d’arrivo.
Capitava che si giocasse mentre in chiesa si svolgevano rituali funebri con lacrime più o meno sincere che potevano celare furenti liti su eredità da suddividere, oppure mentre si celebravano nozze: a volte matrimoni riparatori, con pance gravide nascoste da ampi abiti bianchi, matrimoni che esibivano felicità apparenti e forzate dopo spietate contese per doti sempre più consistenti pretese – come usa da noi – dalla famiglia di lui.
Insomma, tutto come oggi. Nulla è cambiato, se non che le monete non si battono più. I nostri ragazzi fanno giochi virtuali. Surrogati di battimuro sono offerti dallo spazio artificiale del computer.
*Nota. L’articolo “A colpi di monete” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta. Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.
Cliccare l’immagine per ingrandirla.
Carmine De Luca*
I giochi possono classificarsi utilmente secondo la stagione nella quale vengono praticati. Ma le stagioni dei giochi, a ben vedere, sono due, non quattro: si distinguono i giochi estivi, giochi all’aperto, e i giochi invernali o giochi domestici, tra quattro pareti. La primavera è assorbita dall’estate; l’autunno continua, in parte, l’estate, per il resto è risucchiato dall’inverno. A settembre ottobre, soprattutto dalle parti nostre, si protraggono i giochi estivi. Da novembre si è ormai in inverno.
Il discrimine fra le due stagioni era segnato, ai miei otto-dieci anni, nei primi anni cinquanta, dall’abitudine, non so quanto diffusa ma di ineffabile piacere, di portare o non portare le scarpe. Le scarpe, con i primi veri caldi – a giugno, a luglio – si toglievano e si rimettevano a settembre. Si usciva di casa doverosamente con le scarpe ai piedi, ma appena fuori dal tiro dei familiari ci si metteva scalzi. Gli inevitabili incidenti provocati da dolori e sanguinolenti incontri con schegge di vetro o con chiodi o con l’ortica erano compensati dalle delizie elargite dal sempre gradevole contato dei piedi con l’erba fresca, con il pastoso fango, con la sabbia tiepida.
Sapevo bene allora che andare in giro scalzi era inequivocabilmente segno di miseria, era indizio certo di bassa collocazione sociale. È per questo che i piedi scalzi osavano soltanto deserti campi, sentieri fuori dall’abitato, mai vie cittadine, per quanto queste fossero poco frequentate.
Nella stagione dei piedi scalzi si giocava a battimuro.
A battimuro si era autorizzati a giocare dai 12-13 anni in su. Autorizzati da chi e da che cosa? Dalle tacite norme che si formano e si istituzionalizzano col tempo nel collettivo di ragazzi. Per giocare a battimuro occorre disporre di una maturata coordinazione di movimenti (è abbastanza complessa la torsione del busto per la battuta), di una buona percezione delle distanze, di un sufficiente controllo della forza che va impressa alla moneta battuta al muro. E non è pensabile che prima dei dodici anni si sia capaci di tanto.
Si accedeva al gruppo di piccoli giocatori prima di tutto se si poteva contare sulla disponibilità di una congrua quantità di monete. Che venivano rintracciate con ansiose ricerche nei fondi di cassetti, in polverosi recipienti d’ogni genere dimenticati o abbandonati nelle zone meno in vista di casa (erano – che so – vasi che una volta avevano dignitosamente ospitato fiori e che, a seguito di chissà quali eventi, dispensati dalle originarie funzioni, erano adibiti a pigri contenitori di ogni cianfrusaglia).
Le monete disponibili, tra gli anni quaranta e cinquanta, erano diverse, tutte fuori corso, residui del sistema monetario dell’Italia dei Savoia e del fascismo. Sul davanti recavano tutto il profilo, volto a destra o a sinistra, di Vittorio Emanuele III (“Re e Imperatore”, era scritto lungo il bordo).
Sul retro avevano soggetti differenti.
Le due lire in acmonital (acronimo per “acciaio monetario italiano” che ad inizio della seconda guerra mondiale aveva sostituito il nichelio a causa dell’alto costo di questo metallo) recavano l’immagine dell’aquila imperiale con ali spiegate e nel basso lo stemma sabaudo. I 50 centesimi in nichelio avevano l’allegoria dell’Italia, con fiaccola nella sinistra, su carro trainato da quattro leoni; sui 20 centesimi in nichelio era indicato il valore della moneta inscritto in un esagono; i 20 centesimi in nichelio avevano la testa nuda dell’Italia rivolta a destra, con alla sinistra il fascio littorio; i 10 centesimi in rame un’ape su un fiore; i 5 centesimi in rame una spiga di grano.
La qualità del metallo determinava i risultati del gioco, l’agilità della traiettoria dal muro alla meta. Con i soldi di acmonital e di nichelio si avevano esiti esaltanti. Era più agevole afferrare tra le dita le due lire o i 50 centesimi. Rimbalzavano meglio, avevano una più efficace capacità balistica. A saperne regolare la battuta sembrava magica la loro abilità a accostarsi alla moneta dell’avversario.
Se scendevi in campo attrezzato di monetine di rame eri destinato a sicura sonora disfatta. Perdevi tutto. Dieci e cinque centesimi erano irreparabilmente divorate dalle monete più grosse.
Ogni tempo ha avuto le sue monete preferite per il battimuro. Fra fine Ottocento e inizio del secolo si giocava con i dieci centesimi di rame. Vasco Pratolini nelle Cronache di poveri amanti scrive di ragazzini che, ad inizio di secolo, “giocavano a battimuro coi diecioni di Re Umberto”.
Le regole del battimuro sono semplici. Si segna una riga per terra (la meta) ad una certa distanza dalla parete di un edificio. Bisogna avvicinarsi a essa con la moneta che colpisce il muro. Oppure accostarsi di una certa unità di misura – un palmo, poniamo, o lunghezza di un bastoncino oppure di uno spago – alla moneta che l’avversario ha precedentemente battuto. Questo secondo modo di regolare il gioco è materia dei versi del lucano Leonardo Sinisgalli:
I fanciulli battono le monete rosse
contro il muro. (Cadono distanti
Per terra con dolce rumore.) Gridano
a squarciagola in un fuoco di guerra.
Si scambiano motti superbi
e dolcissime ingiurie. La sera
incendia le fronti, infuria i capelli.
Sulle selci calda è come sangue.
Il piazzale torna calmo.
Una moneta battuta si posa
vicino all’altra alla misura di un palmo.
Il fanciullo preme sulla terra
la sua mano vittoriosa.
Se si voleva vincere occorreva avere pieno controllo delle componenti del gioco, soprattutto della traiettoria della moneta (angolata e con “effetto” oppure diritta o di piatto) e del tipo muro.
Per un lungo periodo si preferì adottare per i nostri giochi la porzione di muro tra il portale della chiesa di S. Antonio e l’ingresso dell’istituto Garopoli. Aveva un intonaco omogeneamente robusto e pieno. D’altronde quel luogo presentava la difficoltà di un acciottolato irregolare sul quale le monete rimbalzavano senza che se ne potesse prevedere il punto d’arrivo.
Capitava che si giocasse mentre in chiesa si svolgevano rituali funebri con lacrime più o meno sincere che potevano celare furenti liti su eredità da suddividere, oppure mentre si celebravano nozze: a volte matrimoni riparatori, con pance gravide nascoste da ampi abiti bianchi, matrimoni che esibivano felicità apparenti e forzate dopo spietate contese per doti sempre più consistenti pretese – come usa da noi – dalla famiglia di lui.
Insomma, tutto come oggi. Nulla è cambiato, se non che le monete non si battono più. I nostri ragazzi fanno giochi virtuali. Surrogati di battimuro sono offerti dallo spazio artificiale del computer.
*Nota. L’articolo “A colpi di monete” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta. Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.
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Hai una esperienza in merito a questo o ad altri giochi da raccontare? Se vuoi, scrivimi: giovannipistoia@libero.it
(12 maggio 2008)
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