domenica 17 gennaio 2021

E continuiamo a chiederci: «Chi sono io?» di Giovanni Pistoia

 



Come è noto, Gianni Rodari morì nell’aprile del 1980. Morte improvvisa che lasciò orfani molti lettori e costrinse, in un certo modo, critici e studiosi vari a interessarsi con più accuratezza della sua opera. Era inevitabile: bisognava fare i conti con la sua vasta produzione. Rodari aveva scritto tanto su giornali e riviste, pezzi per lo più poco noti affidati alla stampa quotidiana che, come si sa, proprio perché quotidiana ha breve vita. E così da parte di alcuni studiosi si avviò una serie di pubblicazioni postume, soprattutto di testi tolti dalla polvere di riviste e quotidiani, oppure proposti a distanza di anni dalla loro prima pubblicazione, con scrupolose note critiche. Tra i maggiori esperti, che avvertirono l’esigenza di far conoscere di più Rodari e di sottoporre tutta la sua opera a una valutazione analitica, perché lo scrittore avesse il giusto rilievo nella letteratura, e non solo di quella dell’infanzia e dell’adolescenza, si segnalarono subito Marcello Argille e Carmine De Luca. Furono coloro che più di altri negli anni Ottanta e Novanta curarono libri di Rodari che contribuirono, in maniera decisiva, alla conoscenza approfondita della sua opera.

 Già nel 1981, per conto degli editori Riuniti, uscì il volume «Piccoli vagabondi», con commenti e note critiche di Lucio Lombardo Radice e Marcello Argilli. Negli anni successivi il testo avrà altre edizioni. Sempre nello stesso anno, e sempre per conto degli Editori Riuniti, si pubblicò «Esercizi della fantasia», a cura di Filippo Nibbi con preazione di Tullio De Mauro. Sarà ristampato ancora nel 2006 e nel 2016 da Einaudi, con prefazione di Mario Di Rienzo. Sempre nel 1981, Marcello Argilli, avvalendosi delle illustrazioni di Emanuele Luzzati, e per conto degli Editori Riuniti, curò la pubblicazione di «Filastrocche lunghe e corte»; altre edizioni negli anni successivi. A cura di Argilli, illustrazioni di Luzzati, uscì «Atalanta», sempre Editori Riuniti; altre edizioni negli anni successivi. Nel 1982 è Carmine De Luca che curò il volume «Il cane di Magonza», con prefazione di De Mauro. Il testo avrà altra edizione nel 2017 per conto di Einaudi con prefazione di Di Rienzo. Negli anni a seguire appariranno altri volumi postumi.

 Nel 1987, per gli Editori Riuniti, Carmine De Luca curò il volume «Chi sono io? I primi giochi di fantasia». Il volumetto sarà illustrato da Rosalba Catamo. Rivedrà la luce nel 2015 per conto di Einaudi. È una raccolta di scritti non tutti noti: filastrocche, racconti brevi, poesie. Hanno grandi capacità di sintesi e idonei per dare spazio alla fantasia. Un invito alla invenzione, alla creatività, a giocare con le parole. Non a caso il lavoro ha trovato grande accoglienza tra gli insegnanti, che lo hanno utilizzato, e lo fanno ancora, come sussidio didattico. Le varie storie sono invitanti per fare insieme, maestri e scolari, percorsi operativi affascinanti. Gli allievi possono esercitarsi a proseguire e sviluppare ulteriormente le storie, i racconti, le avventure, sull’esempio di quanto scritto da Rodari, scritti che si presentano, quindi, aperti a ogni finale. I testi con i quali De Luca costruisce questo libro erano apparsi decenni prima. De Luca sapeva fin troppo bene come recuperare perle, che lo scrittore di Omegna aveva sparso nel corso degli anni un po’ ovunque. Aspettavano solo di essere pescate e adeguatamente e intelligentemente illustrate.

 Quali sono gli scritti che Carmine De Luca ha ritenuto opportuno inserire in questo volume per comporre un libro di piacevole lettura e, nello stesso tempo, per dare alla scuola uno strumento utile per far giocare i bambini, i quali, incuriositi, possono essere i protagonisti di nuovi e più sorprendenti primi giochi di fantasia?

I testi Una casa tanto piccola, Storia dello zio Barba, La pianta delle pantofole, Il naso della festa, Il campanello per i ladri, Passatempi nella giungla, La casa del sig. Venceslao, Un battello capriccioso, La pianta Paolino, L’omino dei sogni: tutti apparsi nel lontano 1949 nella edizione milanese de «l’Unità». La casa di sor Zucchina, Un millepiedi dal calzolaio, Storia del pesce-martello, appaiono negli anni Cinquanta; La malattia di Tino e Pinocchio il furbo, negli anni Settanta, Ciao Miao e Parole nuove, nel 1981; Filastrocca dell’A B C è contenuta nel libro curato nel 1984 da Marcello Argilli «Il libro dei perché», pubblicato dagli Editori Riuniti.

 L’omino dei sogni è uno dei raccontini presenti nel volumetto «Chi sono Io?». Ecco il testo di Rodari:

 ***

 Mentre io dormo, c’è un omino piccolo piccolo che viene sul mio cuscino e mi dice: «Ma guarda! Stai volando attaccato ad un ombrello».

Io gli credo subito e passo in mezzo alle nuvole tiepide e bagnate, vedo in basso ai miei piedi i laghi e i fiumi, salto da una collina a un’altra. Poi l’omino mi dice: «Mettiti in salvo, ecco i briganti». Ed io davvero vedo i briganti: sono due, con la maschera sugli occhi, mi vogliono sparare con il trombone. Io vorrei fuggire, sono tanto spaventato, ma non riesco a muovere un dito. L’omino si diverte a farmi credere quello che vuole: «Guarda che ti cresce una rosa sulla mano», mi dice, e io vedo davvero una rosa che mi spunta fra l’indice e il medio.

Ogni volta che vado a letto mi dico: «Questa volta non gli voglio credere». Poi, appena chiudo gli occhi, l’omino mi dice: «Guarda una balena». E io subito, credulone, vedo una balena che nuota nel bicchiere d’acqua che ho sul comodino. Succede anche a voi?

 ***

 Ora che i bambini hanno letto il racconto -o è stato loro letto- possono continuare, e rispondere alla domanda di Rodari: «Succede anche a voi?». Scrive il curatore: «Vuoi provare anche tu a raccontare i tuoi sogni? Non importa se sono veri o finti». E in tante scuole elementari i ragazzi hanno risposto con entusiasmo. Di questa storia vi è anche una versione in filastrocca:

 ***

 L’omino dei sogni

che buffo tipetto!

Mentre tu dormi

senza sospetto

ti si mette accanto al letto

e ti sussurra una parola:

«Vola!»

E tu non domandi nemmeno

«con che?»

Uno due tre:

sei nell’arcobaleno,

aggrappato ad un ombrello,

e scivoli bel bello

dal verde al rosso al giallo,

e a cavallo

del blu

scendi giù, giù, giù…

Ecco il mare:

finirai con l’affogare!

Ma l’omino è lì apposta,

all’orecchio ti si accosta,

e ti sussurra: «Presto!

Ecco i banditi! Scappa lesto lesto!»

O cielo, i banditi,

di nero vestiti,

con la maschera sul viso

e un satanico sorriso

tra quei baffoni…

Ti puntano i tromboni

e pum!

fanno pum! pum! pum!

Tu scappi, sei ferito

al naso oppure al dito,

e già ti manca il cuore,

sei preso, che orrore!

Macché!

Non succederà nulla perché

l’omino dei sogni

ti salva con una parola.

Ecco, ti trovi a scuola

e non sai la lezione.

Una nuova emozione!

Eppure l’hai studiata

alla perfezione!

Possibile che già l’abbia scordata?

È colpa dell’ometto

bizzarro e malignetto

che mentre dormi si arrampica

sul tuo letto

e si diverte a farti sognare,

volare, scappare, disperare…

fin che la mamma viene

a scrollarti per bene,

a svegliarti, ch’è tardi…

E tu si svegli, guardi

dappertutto, però

l’omino dei sogni non lo vedi:

forse di giorno sta sotto il comò!

***

 

Anche la filastrocca, per Rodari, era un divertimento attraverso la quale apprendere e imparare giocando. Insomma, una cosa seria. Questa filastrocca, che ha come titolo L’omino dei sogni, è stata varie volte pubblicata; ora è riportata anche nel volume: Gianni Rodari, «Opere», Mondadori 2020, nella collana I Meridiani.

 Ritorniamo ancora al nostro volumetto. Il libro si apre con un brano inedito nel 1987, Chi sono io?  Il curatore ci informa che fu disegnato e scritto da Gianni Rodari già nel 1973. Carmine De Luca lo utilizzerà anche come titolo per il libro, come in un certo senso aveva suggerito un po’ profeticamente Rodari qualche anno prima. Su questa storia e sul suo significato, Rodari aveva, infatti, già commentato nel suo importante «Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie», come è ampiamente noto, frutto della sua esperienza con insegnanti e scolari, bibliotecari e operatori culturali, nonché dei suoi molteplici studi e letture. Il libro uscì per la prima volta nel 1973 per conto dell’editore Einaudi. Nel capitoletto intitolato La matematica delle storie, Rodari si sofferma sulla novella del Brutto anatroccolo di Andersen, cioè del cigno capitato per errore in un branco di anatre. E qui, aggiunge: «Un’altra storia da raccontare al bambino, in quest’ordine di idee, è quella che io intitolerei «Il gioco del chi sono io». Un bambino domanda alla madre: - Chi sono io? – Sei mio figlio, - risponde la madre. Alla stessa domanda, persone diverse daranno risposte diverse: «tu sei mio nipote», dirà il nonno; «mio fratello», dirà il fratello; «un pedone», «un ciclista», dirà il vigile; «il mio amico», dirà l’amico… L’esplorazione degli insiemi di cui fa parte è per il bambino un’avventura eccitante. Egli scopre di essere figlio, nipote, fratello, amico, pedone, ciclista, lettore, scolaro, calciatore: scopre, cioè, i suoi molteplici legami col mondo. L’operazione fondamentale che egli compie è di ordine logico. L’emozione ne costituisce un rafforzamento». Alla fine, come il lettore potrà verificare accostandosi a quelle pagine, il bambino Totò scoprirà di essere importante perché è tante cose insieme. Scoprirà di essere anche dormiglione ma non cade nel tranello: «Voglio alzarmi subito per diventare tante cose ancora».

 Carmine non dormì sonni tranquilli sapendo che doveva scoprire, da buon segugio, varie altre delizie di Rodari da divulgare e commentare. Purtroppo anche la sua vita fu breve, morì a cinquantaquattro anni. Lo tradì il cuore.

 

giovannipistoia@libero.it

venerdì 8 gennaio 2021

Il cavallo saggio (che uccideva i microbi) di Giovanni Pistoia



 C’era una volta un cavallo molto saggio, aiutava le vecchine ad attraversare la strada nei giorni di pioggia. Per loro gettava ponti di barche sulle pozzanghere. Però le vecchine un po’ per goffaggine o impazienza cadevano dai ponti (poveretti!). La piena le trascinava dal Ticino al Po, dal Po all’Adriatico, che si riempiva di vecchiette. Ce ne erano migliaia da Cervia a Cesenatico, se ne stavano nell’acqua fino al piloro facendo la calza (facendo la calza?!) e borbottando continuamente, tanto che sembravano delle sirene di mercatili.

     Che storia strambatala! un po’ bizzarra e un po’ anche drammatica. Ma proseguiamo. La gente è chiusa nelle case per ripararsi dal malocchio, e sentiva sirene. E diceva che verrà la carestia e i nostri bambini piangeranno e ci chiederanno pane, e la colpa sarà di tutte quelle vecchie che ostruiscono con le loro sottogonne la foce del Po. La situazione era davvero critica. Bisognava provvedere. Ma che storia bislacca! Leggiamo il seguito. Dicevamo: la gente non ne poteva più. E così si rivolse a un certo cavallo saggio, che stava da quelle parti. Un cavallo saggio? E cosa faceva per essere definito saggio? Fumava la pipa! Ma questa è una stramberia?! Non solo fumava la pipa ma uccideva i microbi -ah, ecco!- e aveva un sistema tutto suo per liberare i bambini dai vermi, oltre al fatto che aiutava i vecchietti. Forte di questa riconosciuta autorità, la gente chiese al cavallo saggio di intervenire, di risolvere il dramma.

Il cavallo, che era saggio e non stupido, capì. Comprese che era tempo di prendere provvedimenti e si accinse alla bisogna con le migliori intenzioni. Ma cosa avvenne? Che i provvedimenti non si lasciarono prendere. Saltarono sul tetto della casa del parroco e invocarono il diritto d’asilo, e da lassù bersagliarono i passanti con tegole marce e nidi di rondine. La gente si assembrava sempre più sul sagrato, e chi patteggiava per il cavallo saggio e chi si schierava a favore dei provvedimenti. Ma ben presto i cittadini cominciarono a schierarsi contro di loro. Così cominciò la caccia ai provvedimenti che più nessuno ormai osava difendere; erano in realtà provvedimenti molto impopolari. I provvedimenti non si lasciavano prendere, il cavallo saggio non riusciva più a salvare le vecchiette e a uccidere i microbi; la confusione era sempre più triste. Il cavallo saggio non resse la tensione e si ammalò gravemente.

Il suo grido di dolore fu ascoltato dal fratello minore che, pur essendo lontano in altri luoghi, capì cosa stesse succedendo e di quali famarci il saggio fratello avesse bisogno. Si sarebbe sicuramente salvato, e con rinnovate energie ritornato alle sue utili occupazioni. Ma bisognava recapitargli con urgenza il farmaco. I cittadini informati si dettero subito da fare. Un ciclista si offrì di portare le pastiglie, inforcò la biciletta a vela e il vento lo spinse veloce. Tutti gli altri a fargli largo con impegno degno di onesta causa comprendendo l’importanza degli avvenimenti, e servendosi degli strumenti che si trovavano a portata di mano in quel tempo, spianarono montagne, gettarono ponti sui fiumi, insomma fecero di tutto e di più per facilitare il compito del ciclista. Il risultato di questo magnifico sforzo collettivo, come dire nessuno si salva da solo, fu che il farmaco arrivò in tempo e il cavallo saggio, recuperate le forze, catturò i provvedimenti, li costrinse a bere le pozzanghere e così le vecchiette poterono attraversare la strada all’asciutto e non intasare più la foce del Po. Ma, soprattutto, il saggio cavallo poté continuare a uccidere i microbi. Li uccideva uno alla volta, schiacciandoli tra i due zoccoli; morendo essi pronunciavano frasi storiche ma sconnesse e facevano addirittura testamento a favore della città.

 Che storia curiosa, stravagante, burlesca, surreale! Voi dite? Pure a me sembra così, però tanto surreale non mi pare. Non vi ricorda, questa storiella nata chi sa dove e quando, qualche cosa di reale che accade nei nostri giorni, dove un virus impazza, la gente muore, tanti vecchietti da soli negli ospedali, e tanta confusione c’è in questo mondo, che fatica a rispondere collettivamente alle sfide che la contagiosa malattia impone?

 Qualche lettore certamente avrà capito che questa raccontino, esposto da me in modo così oltraggioso, è ricavato nientepocodimenoche da una famosa quanto brillante, divertente, graffiante poesia di Gianni Rodari, al quale chiedo molto umilmente scusa per aver così bistrattato il suo saggio testo. Per farmi perdonate, i lettori troveranno al termine di questo avventato scritto, la poesia originale di Rodari, che ha come titolo Il cavallo saggio. Titolo anche di una importante raccolta di testi di Rodari curata da Carmine De Luca nel 1990.

 Carmine De Luca, sensibile conoscitore degli scritti di Gianni Rodari, appena dopo la morte prematura dello scrittore, avviò una rigorosa ricerca critica dei suoi testi, soprattutto di quei lavori un po’ sconosciuti e pubblicati su quotidiani e riviste. Ne comprendeva, De Luca, l’importanza, e insieme con alcuni amici (il primo in assoluto Tullio De Mauro), iniziò una scrupolosa opera di divulgazione e valorizzazione di Rodari, i cui testi lo studioso sottopose ad approfondite analisi ben presto apprezzate da un pubblico sempre più vasto e accorto. Conosceva il valore dei testi che Rodari aveva pubblicato sulla rivista satirica «Il Caffè», diretta da Giambattista Vicari, e decise così che era giunto il tempo di toglierli da quella gabbia, pur prestigiosa, e far loro prendere il volo. E fu così che curò il volume dal titolo «Il cavallo saggio», e come sottotitolo «Poesie epigrafi esercizi», pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1990. De Luca arricchì la raccolta con la prefazione di Edoardo Sanguineti, uno di quegli studiosi che non disdegnò la produzione rodariana ma seppe inserirla, così come meritava, nella storia della letteratura a tutto campo. Rilevando, altresì, che sarebbe stato un errore continuare a distinguere nettamente un Rodari poeta per i grandi da quello per i piccini. Anche certi testi destinati più a un pubblico di adulti, come quelli contenuti nella raccolta in esame, conservano lo stile scanzonato e lieve di quelli per un pubblico infantile.

 Nel prezioso volumetto De Luca raccoglie, dunque, i testi apparsi sulla rivista «Il Caffè». Il libro si presenta diviso in due parti, Poesia lepidaria e Materia prima. Nella prima parte si trovano i versi che Rodari pubblicò in due occasioni. Le prime quattro poesie lepidarie (Lapide seconda, Lapide tredicesima, Lapide quattordicesima, Lapide quindicesima) e Metamorfosi apparvero nel numero 3 del 1961. Le otto lapidi successive nel numero 2 del 1962. La seconda parte comprende tre gruppi di componimenti. Le prime venti poesie furono ospitate nel n. 2 del 1968 della rivista «Il Caffè», sotto il titolo Materia prima, (titolo che De Luca conserverà fedelmente nella raccolta); il secondo gruppo, formato da sette componimenti, uscì nel n. 161 del marzo 1980, sempre sul «Caffè». Chiudono il libro due poesie occasionali, Io e… Pasque e La licenza poetica, apparse per la prima volta nel n. 2 del 1984 del mensile «Riforma della scuola». La prima poesia che apre la sezione Materia prima è, appunto, Il cavallo saggio, testo richiamato per avviare questa chiacchierata.

Questo importante volumetto ha fatto conoscere, e non poco, anche alcuni aspetti poco noti di Rodari: lo scrittore satirico e irriverente, paradossale e surreale. Quel testo del 1990 non è più in commercio. Ma nel 2011 l’Editore Einaudi riprese quel lavoro curato da Carmine e lo ripropose mantenendo anche la prefazione di Sanguineti. Una ulteriore occasione per far conoscere anche a nuovi lettori quel filone satirico e grottesco degli scritti di Rodari; filone che, in verità, non era mai sfuggito a De Luca, e che aveva tenuto a mettere in rilievo ancor prima, nel lontano 1982. Conviene, quindi, fare un piccolo passo indietro.

 Nel 1982 De Luca curò per gli Editori Riuniti il volume «Il cane di Magonza», una raccolta di testi giornalistici di Rodari, che «rivelano un Rodari narratore e poeta tout-court, senza etichette riduttive o emarginanti», come ebbe a scrivere nella introduzione a quel libro. Tra i testi De Luca pubblicò Lapide seconda, Lapide tredicesima, Lapide quattordicesima, Lapide quindicesima e Metamorfosi. Accompagnò la diffusione di quegli scritti con una nota critica molto istruttiva. Dirà De Luca: «Con questa Poesia lepidaria il filone satirico, già più volte segnalato, esce dalla terza pagina dei quotidiani («l’Unità» e «Paese Sera») e fa la sua apparizione in una sede certamente più adeguata: sulle pagine della rivista «Il Caffè»… dove si trova in compagnia di Borges, A. Bertolucci, L. Longanesi, ecc.»

«Rodari satirico», continua De Luca, «presenta il suo biglietto da visita fin dall’inizio con il gioco di parole «lepido/lapide»: il primo termine produce il titolo Poesia lepidaria, il secondo dà il titolo a quattro dei cinque componimenti (Lapide seconda, Lapide tredicesima, Lapide quattordicesima, Lapide quindicesima). Ma la coppia può suggerire anche alcune riflessioni: sono lepidezze sulla morte; sono lepidezze sul morto linguaggio delle lapidi; ecc.».

De Luca ci informa che in una sola occasione due di questi componimenti (Lapide quattordicesima e Lapide quindicesima) «sono stati riproposti e considerati per quello che in effetti sono». Cesare Vivaldi, in effetti, le inserisce nell’antologia «Poesia satirica d’oggi» (Guanda, Parma 1964). Scrive ancora De Luca: «Nell’introduzione al volume Vivaldi colloca questa attività di Rodari all’interno di un filone satirico e grottesco della nostra poesia al cui capo sta Palazzeschi. E questa «linea palazzeschiana» dove Rodari sta in ottima compagnia insieme con Nelo Risi, Sanguineti, Fratini, Vollaro, ecc., è caratterizzata – secondo quando dice Sanguineti citato in Vivaldi – dal fatto che «il margine d’ironia sia ritornato ad essere […] come già lo fu, nel nostro secolo, in altre decisive e critiche svolte, condizione indispensabile per sfuggire ad un gioco precostituito di forme e motivi».

Nelle «lapidi» è da notare, insieme al divertito gioco degli incastri di troppo usati stereotipi linguistici, più in generale la dissacrante trasgressione del rigido codice linguistico commemorativo (quello delle lapidi ufficiali), che, eredità di un’Italia patriotticamente savoiarda e fascista, ha attraversato i tempi conservando forme lessicali e sintattiche di assoluta fissità e conformismo.

Nell’altro scherzo umoristico-ironico, Metamorfosi, risultano prevalenti gli accenti di satira politica».

Nella stessa raccolta, De Luca inserisce le venti poesie che vanno sotto il titolo Materia prima. Nel commento, come al solito breve ma acuto, De Luca scrive: «Che dire di queste poesie? Ancora una volta evidente è il gioco delle parole. Un gioco che libera la fantasia e rende più comprensibile il mondo e le sue storture. In alcuni di questi componimenti la satira si fa amara. Dettata da una forte amarezza è, ad esempio, Un sogno: sono aggredite le abilità camaleontiche messe in atto dalla diffusa pratica dell’arrivismo sociale. La forza trasgressiva dei versi sta anche nel ribaltamento totale dello stereotipo poetico che annette ai sogni soltanto qualità idilliche. Qui la dignità del sogno è progressivamente svenduta fino alla resa finale e allo spregevole ghigno conclusivo: l’abietta volontà di toccare i «parapetti della vita» produce incubi e fascismi. In Fucilazione, al contrario, al sapore amaro della violenza non cedono l’ottimismo e la speranza; la «dolcezza che non si può perdere» è la soluzione di ogni «smorfia di felicità»: all’infanzia è affidato il messaggio salvifico per l’umanità».

 È facile notare come Carmine De Luca associa il nome di Rodari ad autori non considerati proprio appartenenti alla letteratura di serie b o, comunque, dell’infanzia, ma alla letteratura senza sbarramenti. Non solo: già nella introduzione al «Il cane di Magonza», De Luca, parlando della costante sperimentale della scrittura, «porta a collegare, in ambito europeo, Rodari oltre che alla letteratura umoristica, di marca surrealistica e non (Carroll e Lautréamont, Lear e Palazzeschi, Cros e Zavattini), ad autori sperimentali per eccellenza come R. Queneau (il quale, ad averne l’occasione, avrebbe certamente nominato Rodari membro onorario del suo Opificio di letteratura potenziale)».

De Luca, in sostanza, ha riconosciuto, in tempi lontani, in Rodari uno scrittore notevole del Novecento. Un tempo nel quale Rodari era visto, da un certo mondo accademico -non tutto, è noto- e non solo, sicuramente come bravissimo e famoso scrittore ma per bambini, quindi letteratura per l’infanzia, considerata come è noto, letteratura di seria b. Sul posto di Rodari nella letteratura del Novecento, e per citare solo studi più recenti, rinvio a «Non solo filastrocche» di Mariarosa Rossitto (Bulzoni, 2011), a «Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari» di Vanessa Roghi (Laterza, 2020) e al saggio di Daniela Marcheschi Gianni Rodari: parole, giochi e scritture per grandi e piccoli, che appare come introduzione al testo da lei stesso curato «Gianni Rodari - Opere» (Mondadori, Collana I Meridiani, 2020).

 Ultima annotazione: «Il cavallo saggio – Poesie epigrafi esercizi» curato da De Luca con la prefazione di Edoardo Sanguineti Dialettica della fantasia del 2011 è, per fortuna, ancora in commercio. L’invito è, pertanto, di prendere in mano quel volumetto, sorseggiare l’umorismo dissacratorio di Gianni Rodari e leggere con attenzione lo scritto di Sanguineti. E ora per farmi perdonare di aver strapazzata la bella poesia Il Cavallo saggio, ne riporto il testo originale:

 

C’era una volta un cavallo molto saggio.

Fumava la pipa, uccideva i microbi, aiutava le vecchine

ad attraversare la strada nei giorni di pioggia.

Per loro gettava ponti di barche sulle pozzanghere,

le sue intenzioni erano lodevoli, nondimeno

talune vecchine per goffaggine o impazienza

cadevano dai ponto, la piena le trascinava

dal Ticino al Po, dal Po all’Adriatico

che così veniva lentamente riempiendosi di vecchine,

ce n’erano migliaia da Cervia a Cesenatico,

se ne stavano nell’acqua fino al piloro

facendo la calza e borbottando continuamente

in tono nasale come le sirene dei mercantili

che partono da Porto Corsini per Patrasso.

Le gente, chiusa nelle case per ripararsi dal malocchio,

sentiva le sirene e diceva: Sentite le sirene,

sentite come si sentono le sirene quando piove

e tutti questi bastimenti ne approfittano

per fuggire in Grecia con le stive piene

di cervello fritto e di funghi arrostiti sulla brace.

Verrà la carestia, i nostri bambini piangeranno,

chi chiederanno pane e dovremo dare loro code di gatto,

colpa di quelle maledette vecchiacce

che ostruiscono la foce del Po con le loro sottogonne.

Bisogna mandare una petizione al cavallo saggio

che fuma la pipa e uccide i microbi.

Un vecchio pescatore che in gioventù sapeva scrivere

mandò al cavallo un uovo sodo, due mele cotogne

e una fiasca di sangue di bue romagnolo.

Il cavallo ricevette il messaggio e lo interpretò rettamente:

l’uovo sodo significava pace e benedizione,

le due mele, che non ti manchi avena né bastone,

il sangue di bue romagnolo

significava: Che tu possa sputare il pancreas,

che cosa ti viene in mente di rifilarci quelle vecchie balorde,

con le loro chiacchiere hanno avvelenato il mare

da una sponda all’altra,

fanno tanta pipì che i pescherecci sbandano a babordo,

abbiamo già perduto sette mozzi nel fiore degli anni

    e tutti di nome Gioachino,

provvedi, saggio cavallo, che la pipa ti strozzi,

abbi compassione dell’Adriatico, figlio di una fogna.

Il cavallo comprese che era tempo di prendere provvedimenti

e si accinse alla bisogna con le migliori intenzioni,

ma i provvedimenti non si lasciarono prendere,

saltarono sul tetto della casa del parroco

invocando il diritto d’asilo

e di lassù bersagliavano i passati

con tegole marce e nidi di rondine.

Gran folla si adunò sul sagrato,

taluni parteggiando per il cavallo saggio,

altri pronunciandosi a favore dei provvedimenti,

e dicevano: Basta con queste persecuzioni,

sono venticinque anni che questo cavallo li tormenta.

I provvedimenti si sporgevano dal tetto

approvando con grandi cenni del capo,

spalancavano la bocca per mostrare le gengive prive di denti:

Ecco che cosa ci ha fatto il cavallo a colpi di zoccoli,

e a quanti di noi ha rubato l’ernia con l’inganno?

Siamo figli di mamma, orfani di padre,

noi stessi siamo padri di poveri orfanelli,

e che la smetta di fumare quella pipa pestilenziale

caricandola con lombrichi seccati al sole!

Giusto in quel momento dal fornello della pipa

si sporse un lombrico puntando l’indice minaccioso,

mentre con l’altra mano si pettinava la barba.

Menzogna, disse il lombrico, non siamo stati seccati

né al sole né alla luna, ché il saggio cavallo

ci fuma vivi allo scopo di liberare i bambini dai vermi,

egli è un benefattore dell’infanzia,

voi siete dei bastardi! Cittadini,

acchiappateli, ci hanno seccati abbastanza,

se vale la pena di sprecare per loro una metafora…

Così cominciò la caccia ai provvedimenti

che più nessuno oramai osava difendere,

erano in realtà provvedimenti molto impopolari…

Il sindaco mise sulla loro testa una taglia

di dodici quintilioni di centimetri quadrati.

Essi fuggivano di tetto in tetto demolendo i comignoli,

inseguiti dal cavallo saggio e da diecimila boyscouts.

Le vecchine, in assenza del cavallo,

prive di ponti e incapaci di costruirsi delle zattere,

non più osavano attraversare le pozzanghere,

bensì si assiepavano sulla sponda,

ben presto non ci fu più posto per altre sul marciapiede,

le seconde arrivate montarono sulle teste delle prime,

le terze si arrampicarono sulle teste delle seconde,

si formò una montagna di vecchine alta circa diciotto metri,

molte furono schiacciate dalla calca

e per lo spavento partorirono dei piccoli analfabeti

che infestarono i dintorni con urla selvagge.

 Dall’alto di una torre merlata il cavallo saggio

osservava il panorama succhiando stancamente la pipa

e una grande tristezza penetrò nel suo cuore,

di orecchietta in ventricolo si installò nell’aorta

provocandogli un attacco di angina pectoris.

Il cavallo saggio stramazzò su se stesso

lanciando nitriti d’emergenza

che furono uditi a Grande Distanza, in provincia di Lecce,

dove abitava suo fratello, minore a lui d’anni ma non di saggezza.

I cittadini di Grande Distanza, atterriti,

si nascondevano in numerose ceste di fichi secchi

ma il cavallo fratello li rassicurò:

Non sussiste minaccia di movimenti sismici,

né si è destata la piovra dai mille tentacoli

che ogni anno richiede il sacrificio di un consigliere comunale,

è mio fratello che mi chiama, fiutando odor di morte,

portategli queste pastiglie, ditegli che ne prenda

due ogni morte di vescovo con un sorso d’acqua minerale,

subito si sentirà meglio, perfettamente in forma

e tornerà alle sue utili occupazioni.

Un ciclista si offrì di portare le pastiglie.

Egli inforca la bicicletta a vela

e il vento lo spinge alla velocità di novecento nodi.

Pedala con le mani e con i piedi, con le unghie e con i denti,

ma soprattutto col sudore della fronte,

mentre il campanello collegato con le pedivelle

a mezzo di un filo elastico di colore azzurrognolo

trilla automaticamente per chiedere strada.

Tutti fanno largo con impegno degno di onesta causa,

comprendendo l’importanza degli avvenimenti

e servendosi degli strumenti che si trovano a portata di mano,

zappe, vanghe, bulldozer, ramaioli, picconi,

spianano le montagne al passaggio del ciclista,

gettano ponti sui fiumi e fiumi sotto i ponti,

torrenti dentro i fiumi, ruscelli dentro i torrenti.

Risultato di questo magnifico sforzo collettivo

in pochi anni il ciclista reca le pastiglie a destinazione,

il vescovo sente che è giunta la sua ultima ora

e muore raccomandando al popolo di seguire i buoni esempi del cavallo.

Il cavallo sta sempre sulla cima della torre merlata,

arrotolato su se stesso, soffrendo di angina pectoris,

appena le campane annunciano la morte del vescovo

inghiotte le pastiglie con un sorso d’acqua minerale,

la tristezza abbandona bestemmiando l’aorta

e per vie traverse si getta alla boscaglia.

Il cavallo saggio ritrova le sue formidabili energie,

cattura i provvedimenti, li costringe a bere le pozzanghere,

le vecchine attraversano la strada all’asciutto,

i piccoli sono condannati all’ergastolo,

la foce del Po si sgombra, le sue acque trionfali

spazzano l’Adriatico con tutti i suoi delfini.

Dopo questa terribile avventura il cavallo saggio

continuò a fumare la pipa e a uccidere microbi,

li uccideva uno alla volta, schiacciandoli tra due zoccoli,

morendo essi pronunciavano frasi storiche ma sconnesse

e facevano testamento a favore della città.

 

 

 

 


domenica 3 gennaio 2021

La Befana delle fiabe non abita qui di Giovanni Pistoia

[a proposito dell’ultima edizione de «La Freccia Azzurra», Einaudi Ragazzi 2020, illustrazioni di Camilla Pintonato, Introduzione di Neri Marcorè]

 



Le edizioni del romanzo «La Freccia Azzurra» di Gianni Rodari sono numerosissime. È davvero difficile tenerne il conto. Ma tirando giù dagli scaffali le gelose copie e annotando, con la maggiore cura possibile, quello che ricercatori e studiosi sono riusciti a ricostruire, è possibile dire qualcosa. Riannodando i fili delle varie stampe, possiamo anche noi seguire il lungo viaggio di quel trenino elettrico partito un giorno lontano, quando nelle case degli italiani cominciava a far capolino quell’aggeggio chiamato televisore. Chi scrive aveva appena cinque anni. (Al lettore questo particolare non interessa, ma ormai l’ho scritto!)

 La prima edizione ha come titolo «Il viaggio della Freccia Azzurra»: è il 1954. Le illustrazioni sono di Numi Boselli, la copertina di Vinicio Berti. A pubblicarlo è il Centro Diffusione Stampa di Firenze. Questo titolo sarà abbandonato, e le edizioni che verranno avranno quello a noi molto noto: «La Freccia Azzurra». È il 1964 quando si ha la seconda edizione, modificata dall’autore rispetto a quella di dieci anni prima, per merito degli Editori Riuniti; le illustrazioni sono di Maria Enrica Agostinelli. Dopo altri dieci anni, nel 1974, una nuova edizione, sempre per conto degli Editori Riuniti e con le illustrazioni di Agostinelli. A ogni decennale una nuova; infatti, è nel 1984 (ricordo appena che Rodari è morto quattro anni prima) che riappare il romanzo, sempre per gli Editori Riuniti, e con le illustrazioni di M.E. Agostinelli. L’anno dopo, nel 1985, il libro è pubblicato dalla Editrice Piccoli. Nel 1987 nuovamente per gli Editori Riuniti, sempre illustrato da Agostinelli. Nel 1988 esce una nuova edizione, curata da Vilma Giuffrida, illustrazioni dell’Agostinelli, nella collana La bibliotechina dell’Einaudi scuola.

Finito di stampare nel dicembre del 1990, per conto degli Editori Riuniti, si pubblica una nuova edizione curata da Carmine De Luca; le illustrazioni sono di Gianni Peg e Lorena Munforti; la grafica è di Christine Sitte e Luciano Vagaggini con il coordinamento tecnico di Claudio Saba. Una edizione che mi sta molto a cuore, perché donatami personalmente dal curatore con gli occhietti che gli brillavano per la contentezza del lavoro svolto. Nel 1992 il romanzo appare in un testo antologico di oltre seicento pagine, per conto degli Editori Riuniti, nella collana I Grandissimi, insieme a «Le avventure di Cipollino», «Piccoli vagabondi», «Gelsomino nel paese dei bugiardi», «Atalanta», «Il giudice a dondolo»; la prefazione è di Alberto Asor Rosa, il volume è curato da Carmine De Luca, che firma anche la Nota ai testi, la Biografia, la Bibliografia delle opere in volume di Rodari e una Bibliografia critica. Nel 1996, troviamo il romanzo pubblicato insieme a «Le avventure di Cipollino» e «Gelsomino nel paese dei bugiardi» con le illustrazioni di Alessandra Scandella dall’Editalia nella collana La mia prima biblioteca. Nel 2000 riappare per gli Editori Riuniti, con le illustrazioni di Simona Mulazzani.

Come si può notare il trenino non avverte stanchezza ma accelera. L’avvicinarsi del centenario della nascita dello scrittore, avvenuta a Omegna nel 1920, rinnova l’attenzione verso le sue opere. Nel 2010 ritorna, per conto delle edizioni Einaudi, con le illustrazioni di Nicoletta Costa. Due anni dopo, illustrato sempre da N. Costa, è pubblicato nella nuova collana de Il Sole 24 Ore dal titolo La biblioteca della fantasia di Gianni Rodari. Sempre nel 2012 con le illustrazioni di N. Costa appare nella Collezione Gianni Rodari di RCS di Milano. Nel 2018 è pubblicato da GEDI Gruppo Editoriale, Le grandi collezioni, con le illustrazioni di Costa.

 E scusandomi se ho omesso qualche stazione editoriale, si segnala l’edizione elegante con copertina rigida e sovraccoperta coloratissima del 2020, Einaudi Ragazzi, con introduzione di Neri Marcorè e illustrazioni di Camilla Pintonato. Un lungo viaggio, dunque, che dura da circa settanta anni e destinato a continuare ancora sostando in qualche stazione per ripartire più pimpante che mai. Oggi non abbiamo solo la tivù, coloratissima (il bianco e nero un ricordo per qualcuno) con tanti programmi, numerosi canali televisivi, ma abbiamo computer, tablet, smartphone, Face Book, WhatsApp, Instagram, LinkedIn, Twitter, YouTube, Pinterest, Tik Tok, Google e tanta tanta altra roba. Rodari si sarebbe divertito. Tutto è cambiato! eppure i suoi testi ci parlano ancora. Ma si sa i classici non hanno età.

 Quante cose sono cambiate in questi anni! Sui binari, luoghi della mia infanzia, transitavano treni a vapore. Ricordo tanto fumo nero e la locomotiva nera nera che trascinava i vagoni a fatica: ciuf… ciuf… e i macchinisti dal volto nero nero come il carbone. Erano treni con vagoni pieni di merci, auto, legna, barbabietola. Ho imparato a contare inseguendo con lo sguardo i vagoni. Nella stazione ferroviaria c’era un via vai di ferrovieri e operai, in gran parte facchini, per il carico e scarico delle merci. Tutto è mutato! La mia stazione ora, con l’evoluzione, è vuota: rari i treni, rari i passeggeri, unico il binario, nessun operaio, nessun ferroviere, non più capostazione con cappello rosso e fischietto in bocca; nel casello non c’è più il casellante. Si attende ancora il trenino, quello ad alta velocità, ma la linea non è ancora elettrificata; intanto non abbiamo più i treni che inghiottivano carbone, il ciuf ciuf che pur trasportava persone e merci. Ah Rodari, Rodari, il prossimo romanzo, quando sarà, ambientalo in questi posti; ti prometto che ti farò da cicerone, il resto lo racconterai tu. Parlerai, ovviamente, ai bambini e ai ragazzi, ben sapendo, furbacchione! che le orecchie degli adulti ascolteranno, anche se faranno finta di nulla. «Come al solito», dirai. Lo so, come al solito. Ma tu meni meni! menavi con le parole ieri, e continui a menare anche oggi. Anche se oggi di orecchi acerbi non so quanti ce ne siano in giro! Racconterai anche con la fiaba e la filastrocca quello che una raccolta di saggi non sa dire.

 Ma permettetemi di parlare un po’ di questa nuova edizione de «La Freccia Azzurra». L’ho vista in libreria, bel formato grande, colorato. Pastosi e originali i disegni di Camilla Pintonato, colta e interessante l’introduzione di Neri Marcorè, curata la grafica. Marcorè (fantastiche le sue letture di alcuni testi di Rodari), nella sua breve ma ricca introduzione, soffermandosi su cosa sia davvero cambiato da quando lui da ragazzino leggeva la lunga fiaba, così si esprime: «Insomma, sono cambiate le etichette, razionalizzate le categorie. Ma credo ci sia qualcosa che è rimasto uguale, ed è ciò che ci anima, sempre allo stesso modo, da grandi e da piccini: quello che per Aristotele e Platone era all’origine della filosofia, il thaumazon, e che per ogni bambino è… lo stupore. Sono gli occhi di Francesco davanti alla vetrina dei giocattoli della Befana». E aggiunge: «Credo sia per questo che, dall’alto della mia statura definitiva, non mi assale quella nota malinconica per le cose andate, non sento che la vita mi ha rovinato e che vorrei tornare piccino ma, anzi, sento che la Freccia Azzurra ha un potere magico: quello di creare relazioni». E, in verità, di relazioni, incontri, intrecci, il romanzo ne ha creati a iosa in questo lungo fantastico viaggio tra gli anni, le generazioni, i luoghi, le lingue, i costumi, le culture.

La storia raccontata è, ovviamente, quella di sempre: chi la conosce non ha alcun interesse di leggerne una sintesi qui; per chi, invece, si accinge a conoscerla è bene che non anticipi nulla. Che senso ha svelare i misteri di un’avventura? Perché cinicamente privare il lettore del fascino della lettura?

 È appena il caso di dire che si tratta della storia di una Befana particolare, una specie di commerciante che dona giocattoli a pagamento. I bambini scelgono il giocattolo, i genitori pagano e la Befana esegue la consegna a domicilio nella notte segnata dal calendario per questi servizi. Non può regalare nulla questa Befana aristocratica dimezzata: i conti, a fine anno, devono quadrare. E per la ditta deve esserci un utile, non si lavora per nulla. Insomma, questa Befana rodariana cancella l’immagine di quella vecchietta buona che pensa a tutti i bambini del mondo. «E che cosa credono, che forse la mia padrona sia davvero così avara come sembra? Non può regalare nulla perché deve campare anche lei. Se fosse ricca ricca come la Befana delle fiabe ne avrebbe per tutti, e anche senza quattrini. Ma lei non è la Befana delle fiabe; è la Befana vera. E la Befana vera deve servire i clienti che pagano», così l’aiutante in campo della Befana ben descrive e giustifica il comportamento un po’ manageriale della sua padrona. Ci sono i clienti che pagano da soddisfare.

 E se le cose stanno così, che accade per chi non si può permettere di comprare i giocattoli? I bambini poveri di genitori poveri resteranno senza giocattoli. Facile, no? E questo Rodari non può accettarlo. E non possono tollerarlo neanche i giocattoli, che da cose inanimate prendono vita.  Da qui una bella storia che avrà mille risvolti. Sia pure con passo lieve vi si raccontano, ma come sottofondo, senza prediche e retorica a buon mercato, ingiustizie, individualismi; insomma, di quella realtà non proprio bella. Ma anche di una comunità, sia pure particolare, che insieme vuole affrontare i problemi e risolverli, di amicizie e solidarietà. Senza, però, che nessuno salga in cattedra, perché ha da insegnare qualcosa. («Chissà perché quelli che hanno il cuore buono davvero si sforzano sempre di non farlo sapere agli altri»). È, soprattutto, una storia di povertà; la miseria di tanti bambini è la miseria di tante famiglie alloggiate in tuguri, come ce ne erano tanti nell’Italia degli anni Cinquanta. Anche se Rodari quando parla di bambini pensa ai bambini del mondo, non di questa o quella patria, di questa o quella bandiera. Potrà essere cambiato tanto in questi settanta anni, certo è che c’è sempre bisogno di un mondo più umano, meno mercificato, meno egoista. C’è sempre più bisogno di comunità che eliminino le ingiustizie evidenti, la fame, la povertà. Sì, la povertà. E se la fiaba sa raccontare il mondo ben venga la fiaba, sia pure vestita d’abiti moderni.

 Ma allora chi leggerà questa fiaba di Rodari conoscerà una Befana cattiva? Ma no, no; ha certamente i suoi problemi quotidiani, ma stiano tranquilli i bambini, perché la Befana è sempre la Befana, e i giocattoli avranno sempre bisogno dei bambini come i bambini di tanti amici con cui giocare.