Riuscire a scrivere un libro così intenso e vibrato, sul Dolore, sì, con la maiuscola, più atroce che possa capitare a un uomo, senza mai neppure sfiorare la retorica del patetico, è direi quasi miracoloso.
Enzo Bonafine è un avvocato di grande
valore, stimato e ben voluto, e poiché le pagine di “Perduto per sempre” sono
la storia della malattia del suo bambino, poteva farsi prendere la mano e gridare
a squarciagola. Invece racconta, con tono diaristico, quello che accadde a
Giuseppe, il figlio di sette anni, dal momento in cui avvertì il primo fastidio
“al braccino destro”.
E’ la Bestia che comincia il suo gioco
subdolo e torbido; che semina violenza, strazio e angoscia, tanta da far sì che
“in quel preciso istante una parte di me e della mia vita muore per sempre,
divenendo solo memoria, chiusa nei magazzini del cuore”, come confessa
l’Autore, nel momento in cui l’infermiera “gli porge il biglietto che dalla
lotteria della vita è stato estratto”.
Comincia la pena delle visite, dei
viaggi, dei ricoveri, delle trasfusioni, delle attese spasmodiche, delle
speranze altalenanti che danno la possibilità a Enzo Bonafine di fare
constatazioni che non avrebbe mai creduto di fare, sulla struttura degli
ospedali, sul loro funzionamento, sulle vanità dei medici, sui comportamenti di
uno stato sempre assente soprattutto quando il cittadino è nel guado profondo e
cerca rimedi che sarebbero possibili almeno per alleviare tormenti e
lacerazioni che invece sembra siano organizzati di proposito tanto sono
ricorrenti nella indifferenza più totale.
“Mai una volta” che Giuseppe “abbia
fatto capricci”, eppure viene quasi seviziato nel via vai frenetico di analisi
e contro analisi fatte e ripetute però in una sorta di indifferenza che è quasi
un preavviso di morte.
A un certo punto la tragedia si compie e
una frase sconsolata timbra a secco la fine: “Iniziamo a convivere con il Dolore”.
Raramente degli avvenimenti veri,
vissuti in prima persona, sono stati raccontati con tanta misura e tanta
compartecipazione senza tuttavia lasciarsi trascinare nell’abisso che a volte
ha portato alla demenza, al rinserrarsi in un angolo buio e aspettare che il
Nulla deformi la realtà e la cancelli.
Enzo e Franca resistono, anche perché
hanno Alessio, il fratello di Giuseppe, e devono apparentemente annichilire il
Dolore per l’Amore, per evitare che la Bestia diventi padrona assoluta di tutto
e rida nella scempiaggine del suo trionfo.
Io ho letto questo libro però anche come
un romanzo, il mio vizio professionale è rimasto vigile e di conseguenza ho
constatato la bellezza espressiva di Bonafine, il suo saper narrare le vicende con
una obiettività sbalorditiva, legandole anche a ciò che accade negli ospedali
in genere, a ciò che accade, purtroppo ai mille e mille ragazzi che compiono
questo viaggio all’inferno, per parafrasare il titolo d’un libro di Louis
Ferdinand Celine. Credo senza nessuna intenzione di farlo, ma dal corso degli
eventi affiora una denuncia per quel che accade quotidianamente un po’ in tutta
l’Italia per quanto riguarda il mondo della medicina. Enzo non infierisce, ci
sono dei momenti in cui vorrebbe prendere a calci tutto e tutti, ma si
trattiene e accetta di giocare perfino la carta del santone nella speranza che
qualcosa accada per uscire dal fuoco imperversante in cui è stato scaraventato
Giuseppe.
Ma da qualche parte tutto è stato
deciso. Non mi va di dire che Dio l’abbia predisposto, altrimenti rifarei quel
che feci al ritorno dal Sud Africa dopo avere visto morire, nella indifferenza
totale, molti bambini. Una volta tornato a Roma sono andato a San Pietro in
un’ora lontano dalla messa e ho cominciato a gridare contro Dio. Fui buttato
fuori in malo modo dalle guardie svizzere.
“E tu, Dio vigliacco e crudele, che hai
rubato ogni cosa alla mia esistenza, adesso occupati di mio figlio e dagli
quella felicità che aveva e gli hai rubato”.
Ho notato che anche Enzo raccoglie nel suo
Dolore quello degli altri bambini che se ne sono andati e il suo lamento è
quello di un padre che ha perduto le ali, di un uomo che estende la sua umanità
nell’abbraccio immenso delle perdite per sempre anche degli altri.
Il ritorno a casa.
Non commento. Ho pianto. Mi sono sentito
desolato, come se avessero rubato Giuseppe anche a me. Una di quelle sensazioni
misteriche che nessuno mai riuscirà a spiegare! Ma Enzo me lo ha spinto nel
cuore, l’ha fatto vivere con me nei giorni della sua spiensieratezza, me lo ha
fatto amare.
I cento settanta tre versi che chiudono
il volume sono di una bellezza sconcertante nella quale la sordità del Dolore
si fa sentire senza rimedio. Soltanto alcuni:
“La vedo la Morte: è qui, innanzi
e tutto intorno a noi;
è nei tuoi occhi di animale ferito,
nel tuo corpo umiliato.
Ma il nostro Amore e la nostra
Disperazione sono vivi
e non temono la Morte, il nulla eterno.
Il nostro canto risuonerà sempre.
Oltre la Morte”.
Sarebbe bello se tutti i primari degli
ospedali leggessero questo libro vivo, parlassero con Giuseppe. Forse molte
cose cambierebbero nei vari reparti e forse un poco di quella Indifferenza
sgarbata e arrogante si scioglierebbe per fare posto all’Amore. Non costa
niente amare, bisogna aprire il cuore e sorridere e non dimenticare che noi
siamo fatti degli altri.