In un paese…
di Giovanni Pistoia
C’è una incapacità politica. C’è qualcosa che ostacola il progresso civile, economico e culturale di quel paese. C’è un disagio profondo, in quel paese. Perché? Quali sono i motivi che ne bloccano lo sviluppo? Ma, soprattutto, perché gli abitanti, pur consapevoli di quelle tristi condizioni, non fanno seguire una reazione, costruttiva, per superare lo stato di appiattimento e di negatività? Insomma, c’è arretratezza e, contemporaneamente, torpore. C’è grigiore, e non s’intravede un raggio di sole. Perché può accadere tutto ciò?
C’è una incapacità politica. C’è qualcosa che ostacola il progresso civile, economico e culturale di quel paese. C’è un disagio profondo, in quel paese. Perché? Quali sono i motivi che ne bloccano lo sviluppo? Ma, soprattutto, perché gli abitanti, pur consapevoli di quelle tristi condizioni, non fanno seguire una reazione, costruttiva, per superare lo stato di appiattimento e di negatività? Insomma, c’è arretratezza e, contemporaneamente, torpore. C’è grigiore, e non s’intravede un raggio di sole. Perché può accadere tutto ciò?
Un’ipotesi potrebbe essere questa: non esiste un vero e proprio interesse per il bene della comunità nella quale si vive. Non esiste la capacità di agire collettivamente per realizzare una società sviluppata e civile. L’abitante di quel paese pensa solo a trarre profitti per se stesso e per la sua famiglia. Ognuno fa così perché tutti si comportano in questo modo.
In una società così combinata nessuno cercherà l’interesse della comunità. Però. Però se interessarsi delle cose pubbliche può portare un vantaggio a se stesso o alla propria famiglia, allora è anche possibile occuparsene. Se qualcuno desidera, invece, impegnarsi seriamente e disinteressatamente della pubblica amministrazione è da considerare “anormale e perfino sconveniente”. Così come non è conveniente per il cittadino di quel paese vigilare sui funzionari pubblici. “Ci pensi chi ha questo compito”, potrebbe essere il suo ragionamento. E, in fondo, chi ricopre cariche pubbliche, non sentendosi “servitore” della comunità, cerca solo di mantenersi il posto, traendone più vantaggi possibili.
In una società così combinata “si agirà in violazione della legge ogni qual volta non vi sia ragione di temere una punizione”. Non solo: chi riveste “una carica pubblica, accetterà buste e favori”. E se dovesse comportarsi onestamente, in quel contesto individualista e truffaldino, nessuno lo crederebbe. Infatti, in una simile società, se qualcuno effettivamente operi per il pubblico interesse, non troverà molti consensi: si penserà che dietro c’è sempre un inganno, un imbroglio.
La somma degli egoismi non fa una comunità. Il senso civico è scarso. L’amore per il proprio paese, nei fatti, inesistente. Organizzarsi per l’esclusivo bene di tutti è difficile. E i raggi del sole fanno fatica e penetrare il grigiore, in quel paese…
Queste alcune delle tesi elaborate, nel 1958, dallo studioso americano Edward C. Banfield nel condurre un’inchiesta in un paese della Lucania, Chiaromonte (Montenegro nella ricerca), preso a simbolo di una qualsiasi realtà del meridione italiano. È possibile rileggere quel saggio “Le basi morali di una società arretrata”, nella riedizione (2006) de il Mulino (www.mulino.it).
Nonostante le riserve scientifiche sulla ricerca non poche delle tesi esposte risultano attuali e motivo di riflessioni. L’efficacia di quelle analisi, nonostante il tempo trascorso, sta, forse, nel costringerci a guardare attorno a noi e a riproporre l’interrogativo di Banfield: “Quale è la ragione dell’incapacità politica del paese?”
(22 ottobre 2007)
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