Galoppa, Strong, e non fermarti mai
di Giovanni Pistoia
Galoppa galoppa galoppa cavallo bizzoso,
rotea al vento la tua bella criniera lunga e nera.
Galoppa galoppa galoppa cavallo senza padrone,
mostra, vanitoso, il tuo bel manto lucido e rossastro.
Galoppa galoppa galoppa cavallo senza età,
mentre insegui l’acuto fischio della vecchia vaporiera.
Galoppa, Strong, galoppa, in libertà,
e non fermarti mai.
Gli ampi capannoni ora sono quasi inutilizzati. Ferme le grosse macchine imballatrici, i nastri trasportatori. La sirena della grande fabbrica, nel cuore di un campo vastissimo, non chiama più a raccolta donne e uomini per il lavoro. È sceso il silenzio sulla campagna. La polvere, che s’alzava furiosa dalle zolle rimosse dai trattori e impregnava i raccoglitori delle radici di liquirizia, si è dissipata da un bel po’. I lavoratori hanno cessato di farsi vedere, rassegnati, ormai, ad un improbabile riavvio delle attività. L’amministratore ritorna sempre più di rado nel suo ufficio – una graziosa costruzione circondata da grappoli di glicine – per tenere aggiornate le sue carte, nell’attesa di ordini superiori. Il custode-operaio trasforma lentamente le sue vecchie mansioni e veste i panni del contadino per sbarcare il lunario: un po’ d’ortaggi, l’allevamento di qualche pollo, un paio di maiali, la raccolta della legna per l’inverno sempre più freddo e povero. Un ragazzino dai calzoni corti e una maglietta a righe segue il padre, novello contadino, e lo aiuta come può. Il severo direttore della fabbrica, colui che sovrintende ed è responsabile delle buone condizioni dei macchinari, con l’immancabile bastone, sempre più raramente, fa visita alle sue creature di una vita. Entra pensieroso e attento nell’ampia officina, che non odora più di fuliggine, e osserva scrupolosamente che tutti gli attrezzi siano al loro posto. Non crede più alla ripresa delle attività e, comunque, tutto deve essere in ordine, sempre. Il ragazzino dai pantaloncini corti è dietro di lui. Quell’uomo gli appare alto e asciutto, burbero, esigente e di poche parole. Dopo aver fatto il suo giro d’ispezione, rivolge lo sguardo al ragazzo e con due dita della mano gli pizzica con delicatezza il viso. È il suo modo per salutare, per dire che tutto va bene, e va via, bastone ben stretto in pugno, non prima di aver dato uno sguardo riflessivo su tutti gli impianti.
Quel vasto piano, ora, è un campo coltivato a frumento, nell’attesa che, con la chiusura della fabbrica, si ponga fine anche alla gestione di quel vasto terreno. In quell’immensa campagna dorata domina, incontrastato, un bel cavallo dal pelo rossiccio, sempre pulito. Criniera e coda nera. Mangia biada pregiata, erba fresca, beve acqua limpidissima in un catino tutto suo. Guai a cambiargli il suo catino o portargli dell’acqua un po’ torbida, butta giù tutto con il muso e ti guarda come per dire: “Ma non vedi che non è il mio catino! Ma non vedi che l’acqua non è limpida!”. Ti lascia di stucco, se ne va verso il suo confidente contadino e con pochi segnali riesce a comunicare il suo dissenso. E l’alleato contadino provvede. E riprende, poi, il suo eterno bighellonare e galoppare per i viottoli della campagna.
Era il cavallo prediletto di un austero lord inglese. Lo ha sempre trattato come un piccolo principe. Il cavallo appena sentiva il suo nome correva verso il suo lord a lambirgli le mani con le narici. Poi, un giorno, il signore inglese ritornò nel suo paese e lasciò il cavallo nelle mani fidate del suo vecchio amico contadino e di suo figlio ragazzino. Strong, cavallo elegante e sempre senza sella, capì. E il giorno dell’addio non corse per i campi, non abbandonò il suo signore inglese se non per tributargli l’ultimo nitrito. Poi si incollò alle costole del bracciante. E non lo lasciò più.
Al contadino, sul far della sera, basta poco per far rientrare il cavallo nella stalla: “Stroooong!”, chiama. Segue un cenno della testa, come per dire: “Andiamo, è ora di rientrare”. E Strong, ubbidiente, scruta la campagna, dondola la testa e s’avvia, con il muso attaccato alle spalle del suo compagno, verso la stalla, pulita, ricca di paglia e fieno, quello buono, di primo taglio. E prima che la stalla venga chiusa, il saluto della buona notte. “Buona notte, Strong”. E Strong risponde allargando i grandi occhi, agitando la coda, la folta criniera e battendo lo zoccolo sul lastricato.
Sotto la grande quercia, il contadino e alcuni suoi amici hanno terminato la raccolta di attrezzi. Hanno iniziato a lavorare di buon mattino, quasi con il buio, per dare una sistemata alla recinzione del grande campo. Il cavallo stancamente s’aggira per i campi, per perdersi dietro un folto cespuglio. Il ragazzo lo vede, dopo poco, adagiarsi sul manto erboso, vicino ad un ruscello, con il capo reclinato. È la prima volta che quel cavallo, vigoroso e sprizzante energia, appare senza forza al ragazzo, che corre a invocare la presenza del padre. Con la camicia arrotolata sulle braccia, i larghi pantaloni su scarpe fabbricate su misura per i suoi piedi resi deformi dalla sabbia e dal sole dell’Africa, il contadino s’avvia frettolosamente verso il cavallo disteso sul prato delle sue scorrerie. Il profumo della camomilla si espande nell’area al tramonto di un giorno qualsiasi. Il sibilo della vaporiera scivola sulle orecchie del cavallo, che resta inerte sul terreno. Il contadino si china sulla testa del cavallo e lo abbraccia: “Strong, Strong… Strong”. Il ragazzino, calzoncini corti e maglietta colorata a righe orizzontali, sfiora con le dita la larga pancia del cavallo. Il grande passo sicuro, l’incedere elegante, la criniera regale, il grande galoppo, il morbido passo sul far della sera… nulla di tutto ciò. Il ragazzo guarda, ansioso, il padre, che ha gli occhi di pianto: “Strong… Strong!”, chiamano insieme. Il cavallo intuisce le presenze amiche. Alza il collo in un ultimo sforzo. Apre i grandi occhi neri e fissa il contadino, che gli accarezza la lunga testa. “Strong, che hai? Strong”. Strong mostra i denti e nitrisce, un nitrito debole. Un addio. Lo sguardo del padre incrocia quello del figlio per un solo, lunghissimo, attimo, il tempo necessario perché il ragazzino impari, crudelmente, che la vita scivola via.
E il ragazzo scappa. Corre, corre con tutto il fiato in corpo e si butta con la testa tra le gambe della vecchia nonna, seduta, immobile da più tempo, su una poltrona. “Nonna, nonna è morto Strong… è morto Strong… capisci… nonna!” La nonna, muta, accarezza la testa del ragazzino. “Nonna, non vedrò più Strong correre!”. “Non sarà così – ha la forza di dire la nonna – tu vedrai sempre correre Strong. Fino a che resterà nel tuo cuore e vivrà nel tuo ricordo, lo vedrai sempre. Lo vedrai correre, galoppare, come sempre.”
Galoppa galoppa galoppa cavallo bizzoso,
rotea al vento la tua bella criniera lunga e nera.
Galoppa galoppa galoppa cavallo senza padrone,
mostra, vanitoso, il tuo bel manto lucido e rossastro.
Galoppa galoppa galoppa cavallo senza età,
mentre insegui l’acuto fischio della vecchia vaporiera.
Galoppa, Strong, galoppa, in libertà,
e non fermarti mai.
(21 ottobre 2007)
Galoppa galoppa galoppa cavallo bizzoso,
rotea al vento la tua bella criniera lunga e nera.
Galoppa galoppa galoppa cavallo senza padrone,
mostra, vanitoso, il tuo bel manto lucido e rossastro.
Galoppa galoppa galoppa cavallo senza età,
mentre insegui l’acuto fischio della vecchia vaporiera.
Galoppa, Strong, galoppa, in libertà,
e non fermarti mai.
Gli ampi capannoni ora sono quasi inutilizzati. Ferme le grosse macchine imballatrici, i nastri trasportatori. La sirena della grande fabbrica, nel cuore di un campo vastissimo, non chiama più a raccolta donne e uomini per il lavoro. È sceso il silenzio sulla campagna. La polvere, che s’alzava furiosa dalle zolle rimosse dai trattori e impregnava i raccoglitori delle radici di liquirizia, si è dissipata da un bel po’. I lavoratori hanno cessato di farsi vedere, rassegnati, ormai, ad un improbabile riavvio delle attività. L’amministratore ritorna sempre più di rado nel suo ufficio – una graziosa costruzione circondata da grappoli di glicine – per tenere aggiornate le sue carte, nell’attesa di ordini superiori. Il custode-operaio trasforma lentamente le sue vecchie mansioni e veste i panni del contadino per sbarcare il lunario: un po’ d’ortaggi, l’allevamento di qualche pollo, un paio di maiali, la raccolta della legna per l’inverno sempre più freddo e povero. Un ragazzino dai calzoni corti e una maglietta a righe segue il padre, novello contadino, e lo aiuta come può. Il severo direttore della fabbrica, colui che sovrintende ed è responsabile delle buone condizioni dei macchinari, con l’immancabile bastone, sempre più raramente, fa visita alle sue creature di una vita. Entra pensieroso e attento nell’ampia officina, che non odora più di fuliggine, e osserva scrupolosamente che tutti gli attrezzi siano al loro posto. Non crede più alla ripresa delle attività e, comunque, tutto deve essere in ordine, sempre. Il ragazzino dai pantaloncini corti è dietro di lui. Quell’uomo gli appare alto e asciutto, burbero, esigente e di poche parole. Dopo aver fatto il suo giro d’ispezione, rivolge lo sguardo al ragazzo e con due dita della mano gli pizzica con delicatezza il viso. È il suo modo per salutare, per dire che tutto va bene, e va via, bastone ben stretto in pugno, non prima di aver dato uno sguardo riflessivo su tutti gli impianti.
Quel vasto piano, ora, è un campo coltivato a frumento, nell’attesa che, con la chiusura della fabbrica, si ponga fine anche alla gestione di quel vasto terreno. In quell’immensa campagna dorata domina, incontrastato, un bel cavallo dal pelo rossiccio, sempre pulito. Criniera e coda nera. Mangia biada pregiata, erba fresca, beve acqua limpidissima in un catino tutto suo. Guai a cambiargli il suo catino o portargli dell’acqua un po’ torbida, butta giù tutto con il muso e ti guarda come per dire: “Ma non vedi che non è il mio catino! Ma non vedi che l’acqua non è limpida!”. Ti lascia di stucco, se ne va verso il suo confidente contadino e con pochi segnali riesce a comunicare il suo dissenso. E l’alleato contadino provvede. E riprende, poi, il suo eterno bighellonare e galoppare per i viottoli della campagna.
Era il cavallo prediletto di un austero lord inglese. Lo ha sempre trattato come un piccolo principe. Il cavallo appena sentiva il suo nome correva verso il suo lord a lambirgli le mani con le narici. Poi, un giorno, il signore inglese ritornò nel suo paese e lasciò il cavallo nelle mani fidate del suo vecchio amico contadino e di suo figlio ragazzino. Strong, cavallo elegante e sempre senza sella, capì. E il giorno dell’addio non corse per i campi, non abbandonò il suo signore inglese se non per tributargli l’ultimo nitrito. Poi si incollò alle costole del bracciante. E non lo lasciò più.
Al contadino, sul far della sera, basta poco per far rientrare il cavallo nella stalla: “Stroooong!”, chiama. Segue un cenno della testa, come per dire: “Andiamo, è ora di rientrare”. E Strong, ubbidiente, scruta la campagna, dondola la testa e s’avvia, con il muso attaccato alle spalle del suo compagno, verso la stalla, pulita, ricca di paglia e fieno, quello buono, di primo taglio. E prima che la stalla venga chiusa, il saluto della buona notte. “Buona notte, Strong”. E Strong risponde allargando i grandi occhi, agitando la coda, la folta criniera e battendo lo zoccolo sul lastricato.
Sotto la grande quercia, il contadino e alcuni suoi amici hanno terminato la raccolta di attrezzi. Hanno iniziato a lavorare di buon mattino, quasi con il buio, per dare una sistemata alla recinzione del grande campo. Il cavallo stancamente s’aggira per i campi, per perdersi dietro un folto cespuglio. Il ragazzo lo vede, dopo poco, adagiarsi sul manto erboso, vicino ad un ruscello, con il capo reclinato. È la prima volta che quel cavallo, vigoroso e sprizzante energia, appare senza forza al ragazzo, che corre a invocare la presenza del padre. Con la camicia arrotolata sulle braccia, i larghi pantaloni su scarpe fabbricate su misura per i suoi piedi resi deformi dalla sabbia e dal sole dell’Africa, il contadino s’avvia frettolosamente verso il cavallo disteso sul prato delle sue scorrerie. Il profumo della camomilla si espande nell’area al tramonto di un giorno qualsiasi. Il sibilo della vaporiera scivola sulle orecchie del cavallo, che resta inerte sul terreno. Il contadino si china sulla testa del cavallo e lo abbraccia: “Strong, Strong… Strong”. Il ragazzino, calzoncini corti e maglietta colorata a righe orizzontali, sfiora con le dita la larga pancia del cavallo. Il grande passo sicuro, l’incedere elegante, la criniera regale, il grande galoppo, il morbido passo sul far della sera… nulla di tutto ciò. Il ragazzo guarda, ansioso, il padre, che ha gli occhi di pianto: “Strong… Strong!”, chiamano insieme. Il cavallo intuisce le presenze amiche. Alza il collo in un ultimo sforzo. Apre i grandi occhi neri e fissa il contadino, che gli accarezza la lunga testa. “Strong, che hai? Strong”. Strong mostra i denti e nitrisce, un nitrito debole. Un addio. Lo sguardo del padre incrocia quello del figlio per un solo, lunghissimo, attimo, il tempo necessario perché il ragazzino impari, crudelmente, che la vita scivola via.
E il ragazzo scappa. Corre, corre con tutto il fiato in corpo e si butta con la testa tra le gambe della vecchia nonna, seduta, immobile da più tempo, su una poltrona. “Nonna, nonna è morto Strong… è morto Strong… capisci… nonna!” La nonna, muta, accarezza la testa del ragazzino. “Nonna, non vedrò più Strong correre!”. “Non sarà così – ha la forza di dire la nonna – tu vedrai sempre correre Strong. Fino a che resterà nel tuo cuore e vivrà nel tuo ricordo, lo vedrai sempre. Lo vedrai correre, galoppare, come sempre.”
Galoppa galoppa galoppa cavallo bizzoso,
rotea al vento la tua bella criniera lunga e nera.
Galoppa galoppa galoppa cavallo senza padrone,
mostra, vanitoso, il tuo bel manto lucido e rossastro.
Galoppa galoppa galoppa cavallo senza età,
mentre insegui l’acuto fischio della vecchia vaporiera.
Galoppa, Strong, galoppa, in libertà,
e non fermarti mai.
(21 ottobre 2007)
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