Voci tra le mimose
di Giovanni Pistoia
Se ne sta seduta su un robusto ramo di mimosa, avvolta in un giallo profumatissimo, con lo sguardo curioso, baciata timidamente dal sole. Natale è appena dietro l’angolo, eppure il cielo è limpido. Un tepore, che sa di primavera, percorre campi e alture. Le gemme si dischiudono tra il verde di alberi, appena sfiorati dal soffio del vento.
Un treno sibila su binari deserti, mentre due muratori sospendono, per un attimo, l’ennesima colata di cemento sull’ultima costruzione senz’anima.
Lei se ne sta, quasi nascosta, sull’albero di mimosa del suo cortile, a fissare le case e i palazzi aggrappati alla collina, o distesi nella pianura.
“Che fai tutta sola?” Una voce attraversa il piccolo giardino, e distrae la bambina dai suoi pensieri. Lei si guarda attorno, non vede nessuno. “Perché non rispondi? Come ti chiami?”
Ancora quella voce misteriosa, e il cuore della ragazzina comincia a battere un po’ più forte: “Chi è? Chi chiami? Qui non c’è nessuno!”
Uno stormo di uccelli sorvola l’albero, e la bambina lo segue con lo sguardo. Non vorrebbe più pensare a quella strana voce, che, invece, impertinente, s’impone: “Parlo proprio con te, bambina che stai sull’albero. Perché non vuoi parlare con me? Perché non vuoi dirmi il tuo nome? Provo a indovinare… Stella.”
A questo punto la piccola abitante della mimosa non ha più dubbi. Cercano proprio lei, e lei non si perde d’animo: “Mi chiamo Stella, è vero. Ma tu perché non ti fai vedere? Perché non dici il tuo nome, signore?”
“Ma io sono davanti a te, tu mi stai guardando da quando ti sei distesa su quel tronco. Tu conosci anche il mio nome.”
Stella si gira su se stessa. Cerca tra i ramoscelli. Nulla. Osserva la parte più alta dell’albero e intravede un angolo di cielo che sembra divertirsi. Nel giardino e nel cortile di casa non c’è nessuno. Sulla strada i ragazzini danzano su un pallone, mentre le automobili si rincorrono. Come sempre. Stella resta per lunghi minuti nell’attesa di riascoltare la voce.
Il suo sguardo ritorna sulle case sparse, sul lungo binario solitario. Sulle strade polverose e caotiche. Si sofferma sui tanti edifici, che la circondano. Altezze diverse, colori diversi, a volte semplicemente incolori. Contempla la collina e ancora più su, la montagna. Fabbricati e fabbricati. E, quindi, tante famiglie e tanti bambini.
Dall’albero, Stella cerca con lo sguardo la scuola elementare, lasciata da poco. Non la trova. Eppure era lì.
“Perché è scomparsa la mia scuola?”, s’interroga un po’ irritata la bambina.
“Perché, ritorna a farsi sentire la voce del mistero, intorno alla tua scuola sono stati costruiti nuovi alti edifici e tu, da qui, non puoi più vederla.”
“Ma lì c’è un bel campo di margherite gialle, dove giocano i bambini di quel quartiere”, replica, d’istinto, Stella.
“C’era un bel campo di margherite e lì giocavano, una volta, i ragazzi ma ora non più”, precisa la voce.
“Io e Loredana, che ora è partita per una città lontana, da quest’albero, vedevamo le finestre della scuola con tanti disegni.”
Dopo un attimo di pausa: “Ma tu come fai a sapere quello che io sto pensando? E perché non ti fai vedere, e non mi dice il tuo nome? Ti sembra di comportarti bene, così?”
Un leggero sorriso vola sulle ali degli uccelli, una folata di vento scompiglia le fronde. “Hai ragione. Io ti osservo, perché tu lo stai facendo con me. Io cerco di rispondere perché tu mi poni delle domande. Mi presento: io sono il tuo paese.”
“Il mio paese?” obietta stupita la bambina.
“Si, io sono la voce del tuo paese. Devo dirti il nome del tuo paese?”
“Certamente no, risponde infastidita Stella, vuoi che io non sappia come si chiami il mio paese?” “Allora perché vuoi sapere il mio nome, se lo conosci?”
Alla ragazzina qualcosa non è proprio del tutto chiaro: “Ma i paesi non hanno voce.”
“Questo non è vero, risponde malinconicamente, non è vero. Io ho un corpo con le varie parti, un po’ come il tuo. Tu lo stai osservando: le abitazioni, i palazzi, vecchi e nuovi, le chiese, i monumenti, le strade, i vicoli, i quartieri, le colline e le montagne, i ruscelli, i fiori e i profumi. Le voci, che comunicano, i cittadini, che camminano e lavorano, i bambini, che giocano… ”
“Ma la voce, interrompe la curiosona, la voce, da dove viene?”
“La mia voce non può essere udita da tutti. La sentono coloro i quali mi vogliono bene. Tutti quelli, insomma, che notano la mia presenza, intuiscono quando sono triste, o felice. Quando qualcuno mi fa un regalo e quando qualche altro mi ferisce.”
“Io la sento la tua voce, allora, perché ti voglio bene?”
“È proprio così. Non è forse vero che tu ami il tuo paese?”
“Certo, amo il mio paese.”
“E cosa ti piace di più?”
“La sera, quando tramonta il sole e scende il buio. Guardo sempre verso la collina. E vedo tante case illuminate e la collina si riempie di luci di tanti colori. Mia madre dice che è un presepe silenzioso, che tace per non disturbare. Io sono d’accordo. È proprio così.”
“E che cosa, invece, non ti piace?”
“Uffa! Tante cose non mi piacciono. Perché, per esempio, non posso più vedere la mia scuola, e perché hanno tolto il campo delle margherite? Io sono fortunata, perché abito in una casa, che ha graziose aiuole e un bel cortile dove spesso gioco con gli amici del condominio, e anche con gli altri che vengono a trovarmi per fare i compiti insieme. Ma nessuno, proprio nessuno dei miei compagni, ha un cortile. Tutte le case sono sulle strade, nessuno può giocare tra le automobili.”
“Lo so, lo so, conferma la voce, so che molti tuoi compagni si annoiano a casa, e vedono la televisione, oppure rimangono davanti a un computer per ore. Non è bello così… ”
“È vero, ma tu puoi fare qualcosa, sei o non sei il paese?”
“Io non posso fare niente. Quando i bambini restano in casa, perché non hanno dove andare a giocare con tranquillità, mi sento cattivo. Mi sento un paese brutto. Quando imprigionano in una scuola i bambini, avverto tanto dolore, perché vengo ferito. Quando le strade non sono pulite, e quando i miei abitanti dimostrano di non volermi bene, io sto male, perché mi sento un paese sporco, e un po’ colpevole. Tutti dicono di voler il mio bene, però non è così. Non sanno che se sto male io, stanno male tutti gli abitanti, a cominciare dai più piccoli. Tu puoi fare qualcosa.”
Stella pensa e ripensa e, poi, tutto d’un fiato: “Cosa posso fare io. Sono solo una bambina.”
“Parlane a scuola con gli insegnanti, a casa con i genitori. Con gli amici raccontate le cose brutte che vedete. Dite come vorreste che fosse il vostro paese. Ditelo, se volete, anche con i disegni, oltre che con le parole.”
Stella avverte un po’ di confusione. Andrà a casa e parlerà di questa storia. “Ma chi mi crederà?”
“Ti crederà, chiarisce la voce, chi mi vorrà bene. Chi ti deriderà, dimostra che non è tanto stimolato dal mio futuro.”
“Tu mi leggi nel pensiero”, sorride compiaciuta Stella.
“Verrò a trovarti presto. Dimmi, dov’è la tua casa?”
“Io non possiedo una casa per ospitarti. Tutti i paesi e le città, tutte le comunità ne hanno una: io aspetto ancora la mia.”
“Allora vivi in una tenda?”
“Un po’ è così. Oggi qui, domani là.”
“Parlerò con i compagni della mia classe e con i professori: disegneremo una grande Casa con un bel parco, piante, fiori e mimose, tutto per il mio paese. Loredana sarà contenta.”
di Giovanni Pistoia
Se ne sta seduta su un robusto ramo di mimosa, avvolta in un giallo profumatissimo, con lo sguardo curioso, baciata timidamente dal sole. Natale è appena dietro l’angolo, eppure il cielo è limpido. Un tepore, che sa di primavera, percorre campi e alture. Le gemme si dischiudono tra il verde di alberi, appena sfiorati dal soffio del vento.
Un treno sibila su binari deserti, mentre due muratori sospendono, per un attimo, l’ennesima colata di cemento sull’ultima costruzione senz’anima.
Lei se ne sta, quasi nascosta, sull’albero di mimosa del suo cortile, a fissare le case e i palazzi aggrappati alla collina, o distesi nella pianura.
“Che fai tutta sola?” Una voce attraversa il piccolo giardino, e distrae la bambina dai suoi pensieri. Lei si guarda attorno, non vede nessuno. “Perché non rispondi? Come ti chiami?”
Ancora quella voce misteriosa, e il cuore della ragazzina comincia a battere un po’ più forte: “Chi è? Chi chiami? Qui non c’è nessuno!”
Uno stormo di uccelli sorvola l’albero, e la bambina lo segue con lo sguardo. Non vorrebbe più pensare a quella strana voce, che, invece, impertinente, s’impone: “Parlo proprio con te, bambina che stai sull’albero. Perché non vuoi parlare con me? Perché non vuoi dirmi il tuo nome? Provo a indovinare… Stella.”
A questo punto la piccola abitante della mimosa non ha più dubbi. Cercano proprio lei, e lei non si perde d’animo: “Mi chiamo Stella, è vero. Ma tu perché non ti fai vedere? Perché non dici il tuo nome, signore?”
“Ma io sono davanti a te, tu mi stai guardando da quando ti sei distesa su quel tronco. Tu conosci anche il mio nome.”
Stella si gira su se stessa. Cerca tra i ramoscelli. Nulla. Osserva la parte più alta dell’albero e intravede un angolo di cielo che sembra divertirsi. Nel giardino e nel cortile di casa non c’è nessuno. Sulla strada i ragazzini danzano su un pallone, mentre le automobili si rincorrono. Come sempre. Stella resta per lunghi minuti nell’attesa di riascoltare la voce.
Il suo sguardo ritorna sulle case sparse, sul lungo binario solitario. Sulle strade polverose e caotiche. Si sofferma sui tanti edifici, che la circondano. Altezze diverse, colori diversi, a volte semplicemente incolori. Contempla la collina e ancora più su, la montagna. Fabbricati e fabbricati. E, quindi, tante famiglie e tanti bambini.
Dall’albero, Stella cerca con lo sguardo la scuola elementare, lasciata da poco. Non la trova. Eppure era lì.
“Perché è scomparsa la mia scuola?”, s’interroga un po’ irritata la bambina.
“Perché, ritorna a farsi sentire la voce del mistero, intorno alla tua scuola sono stati costruiti nuovi alti edifici e tu, da qui, non puoi più vederla.”
“Ma lì c’è un bel campo di margherite gialle, dove giocano i bambini di quel quartiere”, replica, d’istinto, Stella.
“C’era un bel campo di margherite e lì giocavano, una volta, i ragazzi ma ora non più”, precisa la voce.
“Io e Loredana, che ora è partita per una città lontana, da quest’albero, vedevamo le finestre della scuola con tanti disegni.”
Dopo un attimo di pausa: “Ma tu come fai a sapere quello che io sto pensando? E perché non ti fai vedere, e non mi dice il tuo nome? Ti sembra di comportarti bene, così?”
Un leggero sorriso vola sulle ali degli uccelli, una folata di vento scompiglia le fronde. “Hai ragione. Io ti osservo, perché tu lo stai facendo con me. Io cerco di rispondere perché tu mi poni delle domande. Mi presento: io sono il tuo paese.”
“Il mio paese?” obietta stupita la bambina.
“Si, io sono la voce del tuo paese. Devo dirti il nome del tuo paese?”
“Certamente no, risponde infastidita Stella, vuoi che io non sappia come si chiami il mio paese?” “Allora perché vuoi sapere il mio nome, se lo conosci?”
Alla ragazzina qualcosa non è proprio del tutto chiaro: “Ma i paesi non hanno voce.”
“Questo non è vero, risponde malinconicamente, non è vero. Io ho un corpo con le varie parti, un po’ come il tuo. Tu lo stai osservando: le abitazioni, i palazzi, vecchi e nuovi, le chiese, i monumenti, le strade, i vicoli, i quartieri, le colline e le montagne, i ruscelli, i fiori e i profumi. Le voci, che comunicano, i cittadini, che camminano e lavorano, i bambini, che giocano… ”
“Ma la voce, interrompe la curiosona, la voce, da dove viene?”
“La mia voce non può essere udita da tutti. La sentono coloro i quali mi vogliono bene. Tutti quelli, insomma, che notano la mia presenza, intuiscono quando sono triste, o felice. Quando qualcuno mi fa un regalo e quando qualche altro mi ferisce.”
“Io la sento la tua voce, allora, perché ti voglio bene?”
“È proprio così. Non è forse vero che tu ami il tuo paese?”
“Certo, amo il mio paese.”
“E cosa ti piace di più?”
“La sera, quando tramonta il sole e scende il buio. Guardo sempre verso la collina. E vedo tante case illuminate e la collina si riempie di luci di tanti colori. Mia madre dice che è un presepe silenzioso, che tace per non disturbare. Io sono d’accordo. È proprio così.”
“E che cosa, invece, non ti piace?”
“Uffa! Tante cose non mi piacciono. Perché, per esempio, non posso più vedere la mia scuola, e perché hanno tolto il campo delle margherite? Io sono fortunata, perché abito in una casa, che ha graziose aiuole e un bel cortile dove spesso gioco con gli amici del condominio, e anche con gli altri che vengono a trovarmi per fare i compiti insieme. Ma nessuno, proprio nessuno dei miei compagni, ha un cortile. Tutte le case sono sulle strade, nessuno può giocare tra le automobili.”
“Lo so, lo so, conferma la voce, so che molti tuoi compagni si annoiano a casa, e vedono la televisione, oppure rimangono davanti a un computer per ore. Non è bello così… ”
“È vero, ma tu puoi fare qualcosa, sei o non sei il paese?”
“Io non posso fare niente. Quando i bambini restano in casa, perché non hanno dove andare a giocare con tranquillità, mi sento cattivo. Mi sento un paese brutto. Quando imprigionano in una scuola i bambini, avverto tanto dolore, perché vengo ferito. Quando le strade non sono pulite, e quando i miei abitanti dimostrano di non volermi bene, io sto male, perché mi sento un paese sporco, e un po’ colpevole. Tutti dicono di voler il mio bene, però non è così. Non sanno che se sto male io, stanno male tutti gli abitanti, a cominciare dai più piccoli. Tu puoi fare qualcosa.”
Stella pensa e ripensa e, poi, tutto d’un fiato: “Cosa posso fare io. Sono solo una bambina.”
“Parlane a scuola con gli insegnanti, a casa con i genitori. Con gli amici raccontate le cose brutte che vedete. Dite come vorreste che fosse il vostro paese. Ditelo, se volete, anche con i disegni, oltre che con le parole.”
Stella avverte un po’ di confusione. Andrà a casa e parlerà di questa storia. “Ma chi mi crederà?”
“Ti crederà, chiarisce la voce, chi mi vorrà bene. Chi ti deriderà, dimostra che non è tanto stimolato dal mio futuro.”
“Tu mi leggi nel pensiero”, sorride compiaciuta Stella.
“Verrò a trovarti presto. Dimmi, dov’è la tua casa?”
“Io non possiedo una casa per ospitarti. Tutti i paesi e le città, tutte le comunità ne hanno una: io aspetto ancora la mia.”
“Allora vivi in una tenda?”
“Un po’ è così. Oggi qui, domani là.”
“Parlerò con i compagni della mia classe e con i professori: disegneremo una grande Casa con un bel parco, piante, fiori e mimose, tutto per il mio paese. Loredana sarà contenta.”
(21 ottobre 2007)
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