domenica 21 ottobre 2007

Racconti brevi/Eri il mio bambino più bello

Eri il mio bambino più bello
di Giovanni Pistoia


Eri il mio bambino più bello. Sei stato l’ultimo regalo di tuo padre, prima che andasse via. Un giorno la fitta nebbia gli annullò la vista e finì fuori strada, con il suo vecchio camion da lavoro, al ritorno da uno dei suoi tanti viaggi. Eri l’ultimo di quattro figli e toccava a me, e solo a me, tirare la carretta.
Ti ho portato in grembo per nove mesi e, a pensarci bene, anche qualche giorno in più. Tuo padre mi portò d’urgenza in ospedale perché non ti decidevi a venire fuori (ah, se fossi morto quel giorno!). Poi nascesti, avevi tanti bei capelli castani, che ti cascavano sulle orecchie e sulla fronte. Eri davvero bello. Ti ho cullato come un piccolo angelo, ti ho dato il mio latte, che non ti è mancato mai. I tuoi fratelli e le tue due sorelle ti volevano un bene pazzo. Crescevi robusto e allegro. Eri la mascotte della famiglia. Quel giorno che tuo padre ti lasciò, tu capisti, subito, che non sarebbe ritornato più. Da quel giorno, ci stringemmo ancora di più attorno a te. Eri la mia luce, la speranza, la vita, che doveva essere vissuta, pur con il dolore nel cuore.

Ti accompagnavo di buon mattino nel vecchio palazzo dove c’erano le scuole elementari e me ne andavo, quando non trovavo lavoro, a raccogliere capperi, che vendevo agli angoli delle strade. Spesso me ne andavo a cogliere cicoria. Ve ne era tanta, all’epoca. Mi bastava un coltello e ne rastrellavo a volontà. Avevo una mia clientela: sapevo che alcune famiglie la comperavano con piacere. Ne portavo, però, un bel po’ al nostro medico, gratuitamente. Lui non voleva accettarla, oppure insisteva per pagarmela ma io non potevo. Il nostro medico era sempre a disposizione, riusciva sempre a procurarci le medicine necessarie. La cicoria che donavo alla sua famiglia era quella che davo più volentieri. Alcune volte sei venuto pure tu a farmi compagnia. Preferivi, però, cercare gli asparagi, tra i rovi, sulle pendici della collinetta e io non volevo perché la tua mano ne usciva sempre graffiata.

Il tempo passò velocemente e un giorno ti scoprii ben cresciuto, mentre ti osservavo insieme ai tuoi amici. Crescevi affascinante, robusto e vivace. Non stavi molto sui libri: eri, comunque, un bravo ragazzo. Ero orgoglioso di te.
Un giorno venni a sapere che tu non andavi a scuola. Mi cadde il mondo addosso. Non potevo crederci! Il mio ragazzo buono non poteva fare questo a sua madre! E, invece, seppi che a scuola andavi poco, ti comportavi male e non studiavi. E fu l’inizio di una lunga angoscia, l’avvio del mio tormento. Il mio calvario iniziò così.
Cominciarono a venire i carabinieri a cercarti sempre più spesso. Eri sempre più implicato in cose poche pulite. Cominciò la nostra casa a riempirsi di carte di tribunali con accuse pesanti. Ti difesi sempre. Dovevano esserci degli errori, forse qualche tuo amico ti voleva mettere nei guai; tu non potevi essere il responsabile di tante nefandezze. Un giorno, era un lunedì di marzo, bussarono i carabinieri, e questa volta erano venuti ad arrestarti. Eravamo noi due soli, a casa. Quando aprii la porta, eri vicino a me. Nel vedere i carabinieri continuasti a sorseggiare il caffè, mentre loro si strinsero attorno a te. Ti misero le manette ai polsi e ti accusarono di omicidio. Il mio bambino, un assassino! Caddi per terra, e svenni. Quando mi ripresi, ero circondato dalle donne del palazzo. Tu eri stato portato via. Ti continuai a difendere con tutta la forza che avevo in corpo. E, invece, piano piano, dovetti cominciare a fare i conti con la realtà.
Eri cresciuto tanto da non accorgermi che il mio bambino di una volta era già tanto lontano. Con angoscia devastante, capii che eri entrato in un giro grande e brutto e, secondo alcuni, eri addirittura uno dei capi. Ordinavi ruberie, estorsioni, omicidi e, a volte, oltre che mandante ne eri esecutore. Entravi e uscivi dal carcere e ogni volta che potevi rientravi a casa. Inutile chiederti qualcosa. Mi guardavi per dirmi che la parola è d’oro, e va usata raramente, mentre il silenzio è vita. Parole incomprensibili, non osavo replicare.

Con il trascorrere degli anni, rimasi sempre più sola. Le tue sorelle, dalla vergogna, lasciarono la città e partirono per una località lontana, mentre i tuoi fratelli, per guadagnarsi onestamente il pane, andarono ancora più lontano. Anche di te cominciai ad avere scarse notizie. Ti trasferivano da un carcere all’altro, sempre più lontano, e io non ebbi più la possibilità di incontrati. Un giorno, di notte, qualcuno bussò forte alla porta di casa. Erano i carabinieri. Mi chiesero di te e perlustrarono in ogni angolo e io a dire che non ti vedevo da tempo, che non sapevo dove eri. Se ne andarono silenziosamente, senza dir nulla. Eri fuggito, forse. Qualcuno disse che eri diventato uccel di bosco. Di te non si seppe più niente per tanto tempo, fino a quando in un processo qualcuno cominciò a dire che tu non c’eri più. Eri scomparso, vittima di quegli stessi tuoi amici di una volta. Lupara bianca, così chiamarono la tua morte. Ma era nera, come un gatto nero in una notte nera. Per giorni restai di ghiaccio, speravo che non fosse vero. Mi convinsi presto del contrario.

Da quei giorni il tempo è scivolato via. Tu non ci sei più e sembra accertato, ormai, che il tuo corpo è stato lasciato cadere, un giorno d’inverno, nel freddo di un mare, che urlava schiaffeggiato dal vento. Non ti è bastato il silenzio e l’uso accorto della parola per salvarti. Anche tu, negli ultimi tempi, avevi capito che non c’era scampo per te. Forse, hai cercato anche di farmelo intendere con quel tuo linguaggio cifrato. Forse, volevi prepararmi a questo triste addio.

Dalla mia stanza, ho stracciato tutte le tue foto. Ho conservato solo quelle da bambino. Una in particolare: quella che stringe una mimosa, che mi accarezza il volto. Eri il mio bambino più bello, eri il mio paradiso. Sei il mio inferno. Mi sono chiesto tante volte dove ho sbagliato per farti diventare quello che sei stato. Mi domando, e non so rispondermi. Un giorno, forse, cercavi un mio abbraccio, che non c’è stato. Forse, cercavi un sorriso, un sorriso, che non ti è stato dato. Un sorriso, forse…

Lo senti, lo senti questo vento che ti schiaffeggia senza pietà? Lo senti, lo senti questo vento, che urla come un cane bastonato? Vorrei che soffiasse più forte, ancora più forte, da portarmi via dalla faccia della terra. Vorrei che mi pestasse a morte, senza pietà, vorrei che di questo mio ventre non restasse l’ombra del niente. Questo ventre, lo vedi questo ventre, ora asciutto e avvizzito, ha dato la vita e il seme della morte. Ogni sguardo della gente, che mi passa vicino, è una fucilata al cuore, un atto d’accusa, una vergogna che non si cancellerà mai. Porto dentro questo cuore, che batte e batte e non vuole lasciarmi mai, i miei lutti e i lutti e i dolori di tanta gente. La mamma di un delinquente, figlio mio, è la mamma più sventurata che ci sia. È croce, croce pesante. È dolore, dolore sconfinato.


(21 ottobre 2007)

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