domenica 21 ottobre 2007

Racconti brevi/Ciao, piccolo, divertiti

Ciao, piccolo, divertiti
di Giovanni Pistoia


Sul terrazzo di casa, il ragazzo gioca con un piccolo pallone colorato. Le prime luci dell’alba si distendono, sonnacchiose, tra i tetti delle case, filtrano tra gli alberi, svegliano gli uccelli canterini. Un sottilissimo raggio di sole, il più vispo, sembra voler giocherellare con il ragazzino: gli sfiora i capelli, lo pizzica sul collo, lo bacia sulla fronte. Il piccolo cerca di ripararsi il volto con le mani, e tenta di guardare altrove. Ma quel fascio di luce lo cerca. E il piccolo sorride, e sembra dire tra sé: “Ma questo cerca proprio me… dai… non mi solleticare… mi bruciano gli occhi…”.

Il ragazzino entra in casa, si munisce di un berretto con una lunga visiera. Riappare nel grande balcone, e cerca quel raggio: “Voglio vedere se adesso non mi fai giocare… ”, pensa, e osserva, però, il cielo sempre più luminoso. Il raggio riappare sul suo volto, che, in fondo, accetta ben volentieri il pizzicotto di quel primo sole del mattino. “Birbante, cerchi proprio me! Ma io ho il mio cappello, non mi lascio disturbare da te. Voglio vedere cosa fai adesso!”

Sergio riprende in mano il pallone arancione e un soffio di vento lo porta via. Il ragazzo lo rincorre, lo riprende, e intanto il cappello, mosso dal vento, rotola sul terrazzo. Quando sta per riacciuffarlo ecco, ancora, un colpo di vento capriccioso lo sposta più avanti; il ragazzino sgambetta, tenta di riprenderlo. È felice per quegli inconvenienti: si diverte tra un raggio di sole sbarazzino e un venticello malandrino.

Nel giardino di casa è apparsa una pianta con vari colori: fiori violetti, gialli, bianchi. Sergio non aveva mai fatto caso a quegli arbusti, e prima di allora quei fiori vivaci e profumati non c’erano o, forse, non avevano mai richiamato la sua attenzione. Sotto gli alberi del piccolo parco di casa, ricorda il bambino, cresceva dell’erba verde, fitta, soffice. Mai un fiore. Eppure ora vi è una esplosione di colori. Perfino una rosa con uno stelo lungo, spinoso si erge elegante in un angolo del giardino. Il suo colore è indefinibile. Sembra cambiare ogni volta che Sergio l’osserva. È rossa. No: è gialla con delle macchie rossastre. Il ragazzo sorride incuriosito.

Si stropiccia gli occhi, guarda il cielo, segue le rondini, che percorrono traiettorie ben definite e, poi, giù d’improvviso a fissare la rosa che… non c’è più. “Non è possibile, pensa il ragazzo, era lì un minuto fa.”
Osserva con più attenzione, e la vede nascosta dietro il tronco di un pino, un tronco robusto abbracciato da un lungo rampicante dalle foglie verdi, un verde sfavillante. “Qui vogliono prendermi tutti in giro. È vero che sono solo un ragazzetto, non sono poi tanto scemo.”
Raccoglie alcune margherite per portarle a casa, sa che alla mamma piacciono tanto, e prima di rientrare, dà l’ultimo sguardo, un po’ furtivamente, alla rosa, che gioca a nascondino, e che ora sembra addirittura sorridergli, mentre i suoi petali hanno cambiato nuovamente colore. Sergio rimane perplesso, insiste nel guardarla, sorride compiaciuto di quelle visioni un po’ stravaganti, e se ne ritorna a casa.

Sulla città è scesa una fitta neve. Le automobili sono ferme, non possono muoversi nelle strade innevate. Con le aule scolastiche rimaste vuote, le strade senza traffico, i ragazzi si rincorrono tra la neve morbida. I tetti imbiancati sono un prodigio. Da tempo la neve non scendeva così abbondante. L’allegria è, per questo motivo, ancora più grande.

Sergio se ne sta in casa. Dai vetri appannati della sua stanzetta, fissa, pensieroso, l’ondeggiare del nevischio, che plana placidamente sui tetti, sugli alberi, sulle automobili, sui ragazzi, che fanno a gara a farsi accarezzare dai fiocchi. Il ragazzo non sente il gioire festoso dei compagni. Il suo sguardo è assente, perduto, lontano. Trascorre la giornata in casa. Taciturno. Come il manto di neve che rifiuta di guardare. Neanche i familiari riescono a introdursi nei suoi silenzi, e a restituirgli il sorriso sul volto. Si ritrova, stanco, sul letto. Si addormenta, mentre il paese si è vestito di bianco, e sembra un grosso villaggio appeso alle pendici di un’alta montagna in pieno inverno, in compagnia della luna.

“Ciao, piccolo! Perché non sei andato oggi a giocare con i tuoi amici? A te piace la neve, lo so. Ti è sempre piaciuta. E, allora? C’entro io con questo tuo rifiuto? Forse è colpa mia? Forse non riesci a perdonarmi di averti lasciato, all’improvviso, mentre giocavamo, così come spesso facevamo, tra i campi innevati sulla nostra montagna preferita?
Non volevo, credimi, non volevo. Non chiedermi, piccolo, cosa è successo quel giorno. Non lo so. So quello che sai tu. Sono disceso come un missile sulla pista, mentre osservavi il tuo papà, che come un campione sciava, dominava le nevi… poi…poi… non sono più ritornato. La neve mi ha portato via. Credimi, non è stata per colpa mia… io non volevo farti del male. Non volevo lasciarti solo. Però è accaduto. Non chiedermi perché. Io non volevo, credimi, non volevo, non volevo.

Ma io, piccolo, non ti ho lasciato mai. Non pensare che io ti sto apparendo, ora, dopo tanto tempo, solo in questo sogno. Non è così. Tu mi vedi ogni giorno, e ogni giorno io ti vedo. Tu pensi che io stia scherzando? No. Non scherzo. È tutto vero. Tu mi vedi, e parli, e giochi, e ridi con me. So già quello che stai rimuginando in quella testolina: che sono il solito mattacchione, pronto a fare il burlone, anche adesso che non ci sono più. In parte è vero: mi piace continuare a scherzare. Perché non dovrei? Anche se un’aquila delle nevi mi ha portato nel suo nido lontano, dove risiedono i perché dei bambini, che non trovano risposte, io voglio continuare a giocare con te.

Io sono il primo raggio di sole, che ti bacia la mattina sulla fronte; sono il venticello, che ti strappa il berretto, mentre giochi sul terrazzo. Sono il fiore piccolo piccolo, che si pavoneggia tra le erbette del giardino di casa; sono la rosa, che gioca a nascondino. Sono quella nuvoletta lumaca, che non riesce a stare al passo con le altre, che hanno fretta di scavalcare i monti. Sono il fiore più bello della primavera, che cresce nel parco della città; sono il primo sorriso, che incontri, quando vai a scuola, ogni mattina; sono l’onda più dolce, che ti accarezza, e ti rinfresca d’estate.

Piccolo, ero tra i fiocchi di neve, questa mattina, e ti ho cercato. Domani ritornerò. Per farmi riconoscere… ma tu mi riconoscerai subito, lo so… sarò tra i fiocchi quello più splendente, e il primo, che ti bagnerà la zucca oppure ti solleticherà la punta del naso… Domani, anzi, fra poco. È già mattina, sai, un sottile fascio di sole bussa… lo senti?... alla finestra della tua stanzetta. Alzati, corri, apri la finestra. Respira aria fresca. Indossa gli scarponi, quelli pesanti, che tu ben conosci, e non dimenticare i guanti, perché oggi ci sarà tanta di quella neve per le strade, e potrai costruire tanti di quei pupazzi… e anche provare a sciare, se vorrai. Alzati… corri… chiama i tuoi compagni… e non cercare di prendermi, tanto non ci riuscirai… e non giocare troppo a nascondino con me, perché tu lo sai, ti trovo sempre. Ricordati che sono nato prima di te. Ciao, piccolo, corri, e divertiti!”


(21 ottobre 2007)

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