Gesù Bambino
di Giovanni Pistoia
Una lunga scia bianca appare dalle montagne innevate e avanza in un cielo senza colore, mentre il sole, un timidissimo sole, si è già nascosto chi sa dove. Un aereo, quasi un giocattolo piccolissimo e luminosissimo, un punto rosso diretto oltre il mare fa sentire un lontano rombo di motore. La città sembra già pronta ad addormentarsi, un freddo polare chiude porte e finestre. Le automobili sgusciano via con i vetri appannati e i fari accesi. Sulla piazzetta, circondata da una grande quantità di palazzi dallo stesso colore e dalla stessa geometria, si erge ancora il grande albero di Natale, voluto dagli abitanti del quartiere, un quartiere grande come una città. È ancora vestito a festa. Piccole e grandi sfere luminose brillano, mentre luci intermittenti ne esaltano i fantasiosi colori. I pochi fiocchi di neve cristallizzati dal freddo rendono l’albero ancora più magico. Non vi sono bambini: il gelo li costringe a casa. Domani, domani certamente si faranno vedere ancora, prima che il calendario annunci che le lunghe feste natalizie sono finite e che bisogna riprendere la strada della scuola. Pedoni in giro se ne vedono pochi. Visi nascosti a ripararsi dal freddo, passi veloci e dritti verso le abitazioni.
Una signora bassa e grassottella, il volto chiuso dentro uno scialle bianco, s’avventura verso il lato sud della piazzetta. Un piccolo bastone le è indispensabile per rendere più sicuro il suo piede un po’ incerto. Nell’altra mano una grossa busta nera, che dovrà pesare un bel po’ dal momento che è evidente la fatica che le costa portarsela dietro. La signora è conosciuta nel palazzo dove abita. La chiamano nonnina Mena per via della sua età non più tanto giovane, vive da sola ed è un orologio che cammina. Sempre la stessa ora, quando va in chiesa la mattina; sempre la stessa ora quando esce da casa per gli acquisti del giorno, quando va a far visita alla nipote che abita lì vicino, quando va al club delle donne, che alcune di loro hanno messo su per stare insieme. Sempre la stessa ora, sul far della sera, quando esce di casa per il deposito del sacchetto dei rifiuti. Le stagioni non contano né ha importanza il clima: freddo o caldo, pioggia o neve, lei, imperterrita, all’ora prestabilita compie i suoi riti quotidiani. Le amiche la prendono un po’ in giro perché dicono che è lei a regolare i tempi del quartiere e non i rintocchi della chiesa, in fondo al viale. E così anche questa sera, all’ora prefissata, i bianchi capelli raccolti dietro la nuca, il rotondo volto coperto, la mano stretta sull’impugnatura dell’amico bastone, il solito sacchetto nero ben legato, è pronta a compiere il suo dovere di cittadina. Un problema si pone, però, quando arriva davanti al cassonetto più alto di lei e con un pesante coperchio basculante. Comincia davanti quel cassonetto una sfida infernale: riuscire ad aprire il coperchio, mandare giù la busta e richiudere il contenitore. E tutto ciò mantenendo l’equilibrio, per non finire giù, vicino all’asfalto consumato dalle auto. A volte capita che qualche pedone di buon cuore, vedendola così affaccendata, l’aiuti ricevendone mille ringraziamenti.
C’ un freddo cane questa sera e nonna Mena ha voglia di far presto. Con il bastone tenta di mandare giù il coperchio e lo stridere delle auto che le passano vicino non coprono un miagolare insistente, che viene dal cassonetto. “Ci voleva pure questo - pensa, forse, nonna Mena - un gatto nel contenitore.” Ha un po’ di paura. È comprensibile. E se il gatto le salta addosso appena il contenitore si apre? “Oh, Signore!” esclama la nonnina. Si guarda attorno ma non vede nessuno. Apre lentamente il coperchio e il miagolare ora si fa lamento… gemito, pianto, respiro. Si, respiro. A nonna Mena le cade il bastone dal panico. Si trattiene alla maniglia fredda del contenitore, mentre quel pianto è davvero un pianto, un rantolo…Dio, che cosa è? La povera signora comincia a disperarsi. Un pensiero agghiacciante, terrificante le passa per la testa, le forze rischiano di abbandonarla. Ora sente un caldo che le soffoca la gola, vorrebbe gridare ma non una parola le esce da quella bocca secca. Si guarda attorno, implora verso le finestre chiuse dei palazzi illuminati, cerca di farsi notare dalle auto dai vetri appannati. Si libera il volto dallo scialle, i capelli le scivolano sul viso che si scompone nel dolore. Lo sguardo atterrito e supplichevole viene rapito dai colori dell’albero di Natale e per un attimo sembra perdere i sensi.
Quel pianto è pianto, è pianto sommesso, debole; un pianto che si spegne, soffocato. Nonna Mena ha la forza di riprendersi il bastone e comincia a farlo rotolare sulla sua testa, a lanciare segnali alle auto in corsa, cerca di avvicinarsi, pericolosamente, sempre più alla strada. Prega. Invoca. Supplica. Qualcuno la nota e alza la mano infastidito. Un gruppo di giovani attraversa la piazza con dei motorini e lei alza, con la forza della disperazione, le mani e agita il bastone. Niente.
Il pianto è sempre più lento. Ora nonna Mena si porta quasi in mezzo alla strada, un pulmino la evita e tira diritto. Poi una macchina, finalmente, si accosta e si ferma. Una donna alta e giovane in divisa la prende con forza dalla strada e la riporta al sicuro. Nonna Mena le sviene quasi addosso ma riesce a far capire alla vigilessa di guardare nel cassonetto. La donna capisce, il collega sente il gemito ancora flebile. Intuisce. Le lunghe mani della vigilessa, con l’aiuto del collega, riescono a toccare qualcosa, a prelevare un borsone. Dentro, piccolo e sporco, un neonato con il capo chino, gli occhi chiusi, un cespuglio di capelli. Un batuffolo, un piccolo orsacchiotto nudo.
Nonna Mena timidamente sfiora con la sua mano tremante quella tenerissima creatura e, poi, piange. Piange. Seduta nella macchina dei vigili si stringe la testa nelle mani e prega, prega. In silenzio.
La piazzetta è un pullulare di auto della polizia, mentre qualche curioso comincia a fermarsi. Arriva anche l’autoambulanza a forte velocità e a sirene spiegate. Un medico si appresta a visitare quel pupo non voluto. Nonna Mena si aggrappa, ora, al lungo braccio della vigilessa, che le accarezza la testa. Non riesce proprio a trattenere le lacrime. Singhiozza come una ragazzina alla quale hanno portato via l’orsacchiotto preferito. Nonna Mena guarda l’ambulanza, mentre il medico ne esce scuotendo la testa. È tutto finito, ora.
I fari accesi delle macchine fanno breccia nel buio della sera. Sulla piazzetta il grande albero di Natale continua a giocare con i suoi mille colori e a illuminare i palazzi. Nel cielo la lunga scia bianca si è dissolta, quel piccolo giocattolo rosso è lontano.
Sono in tanti, ora, attorno alla nonnina a consolarla, come se quel bambino fosse stato suo, tutto suo. Lei, a fatica, alza la testa e cerca, cerca gli occhi di una mamma, che non c’è. Riescono a sentirla sussurrare sottovoce: “…è morto… è morto… è morto Gesù Bambino.”
Una lunga scia bianca appare dalle montagne innevate e avanza in un cielo senza colore, mentre il sole, un timidissimo sole, si è già nascosto chi sa dove. Un aereo, quasi un giocattolo piccolissimo e luminosissimo, un punto rosso diretto oltre il mare fa sentire un lontano rombo di motore. La città sembra già pronta ad addormentarsi, un freddo polare chiude porte e finestre. Le automobili sgusciano via con i vetri appannati e i fari accesi. Sulla piazzetta, circondata da una grande quantità di palazzi dallo stesso colore e dalla stessa geometria, si erge ancora il grande albero di Natale, voluto dagli abitanti del quartiere, un quartiere grande come una città. È ancora vestito a festa. Piccole e grandi sfere luminose brillano, mentre luci intermittenti ne esaltano i fantasiosi colori. I pochi fiocchi di neve cristallizzati dal freddo rendono l’albero ancora più magico. Non vi sono bambini: il gelo li costringe a casa. Domani, domani certamente si faranno vedere ancora, prima che il calendario annunci che le lunghe feste natalizie sono finite e che bisogna riprendere la strada della scuola. Pedoni in giro se ne vedono pochi. Visi nascosti a ripararsi dal freddo, passi veloci e dritti verso le abitazioni.
Una signora bassa e grassottella, il volto chiuso dentro uno scialle bianco, s’avventura verso il lato sud della piazzetta. Un piccolo bastone le è indispensabile per rendere più sicuro il suo piede un po’ incerto. Nell’altra mano una grossa busta nera, che dovrà pesare un bel po’ dal momento che è evidente la fatica che le costa portarsela dietro. La signora è conosciuta nel palazzo dove abita. La chiamano nonnina Mena per via della sua età non più tanto giovane, vive da sola ed è un orologio che cammina. Sempre la stessa ora, quando va in chiesa la mattina; sempre la stessa ora quando esce da casa per gli acquisti del giorno, quando va a far visita alla nipote che abita lì vicino, quando va al club delle donne, che alcune di loro hanno messo su per stare insieme. Sempre la stessa ora, sul far della sera, quando esce di casa per il deposito del sacchetto dei rifiuti. Le stagioni non contano né ha importanza il clima: freddo o caldo, pioggia o neve, lei, imperterrita, all’ora prestabilita compie i suoi riti quotidiani. Le amiche la prendono un po’ in giro perché dicono che è lei a regolare i tempi del quartiere e non i rintocchi della chiesa, in fondo al viale. E così anche questa sera, all’ora prefissata, i bianchi capelli raccolti dietro la nuca, il rotondo volto coperto, la mano stretta sull’impugnatura dell’amico bastone, il solito sacchetto nero ben legato, è pronta a compiere il suo dovere di cittadina. Un problema si pone, però, quando arriva davanti al cassonetto più alto di lei e con un pesante coperchio basculante. Comincia davanti quel cassonetto una sfida infernale: riuscire ad aprire il coperchio, mandare giù la busta e richiudere il contenitore. E tutto ciò mantenendo l’equilibrio, per non finire giù, vicino all’asfalto consumato dalle auto. A volte capita che qualche pedone di buon cuore, vedendola così affaccendata, l’aiuti ricevendone mille ringraziamenti.
C’ un freddo cane questa sera e nonna Mena ha voglia di far presto. Con il bastone tenta di mandare giù il coperchio e lo stridere delle auto che le passano vicino non coprono un miagolare insistente, che viene dal cassonetto. “Ci voleva pure questo - pensa, forse, nonna Mena - un gatto nel contenitore.” Ha un po’ di paura. È comprensibile. E se il gatto le salta addosso appena il contenitore si apre? “Oh, Signore!” esclama la nonnina. Si guarda attorno ma non vede nessuno. Apre lentamente il coperchio e il miagolare ora si fa lamento… gemito, pianto, respiro. Si, respiro. A nonna Mena le cade il bastone dal panico. Si trattiene alla maniglia fredda del contenitore, mentre quel pianto è davvero un pianto, un rantolo…Dio, che cosa è? La povera signora comincia a disperarsi. Un pensiero agghiacciante, terrificante le passa per la testa, le forze rischiano di abbandonarla. Ora sente un caldo che le soffoca la gola, vorrebbe gridare ma non una parola le esce da quella bocca secca. Si guarda attorno, implora verso le finestre chiuse dei palazzi illuminati, cerca di farsi notare dalle auto dai vetri appannati. Si libera il volto dallo scialle, i capelli le scivolano sul viso che si scompone nel dolore. Lo sguardo atterrito e supplichevole viene rapito dai colori dell’albero di Natale e per un attimo sembra perdere i sensi.
Quel pianto è pianto, è pianto sommesso, debole; un pianto che si spegne, soffocato. Nonna Mena ha la forza di riprendersi il bastone e comincia a farlo rotolare sulla sua testa, a lanciare segnali alle auto in corsa, cerca di avvicinarsi, pericolosamente, sempre più alla strada. Prega. Invoca. Supplica. Qualcuno la nota e alza la mano infastidito. Un gruppo di giovani attraversa la piazza con dei motorini e lei alza, con la forza della disperazione, le mani e agita il bastone. Niente.
Il pianto è sempre più lento. Ora nonna Mena si porta quasi in mezzo alla strada, un pulmino la evita e tira diritto. Poi una macchina, finalmente, si accosta e si ferma. Una donna alta e giovane in divisa la prende con forza dalla strada e la riporta al sicuro. Nonna Mena le sviene quasi addosso ma riesce a far capire alla vigilessa di guardare nel cassonetto. La donna capisce, il collega sente il gemito ancora flebile. Intuisce. Le lunghe mani della vigilessa, con l’aiuto del collega, riescono a toccare qualcosa, a prelevare un borsone. Dentro, piccolo e sporco, un neonato con il capo chino, gli occhi chiusi, un cespuglio di capelli. Un batuffolo, un piccolo orsacchiotto nudo.
Nonna Mena timidamente sfiora con la sua mano tremante quella tenerissima creatura e, poi, piange. Piange. Seduta nella macchina dei vigili si stringe la testa nelle mani e prega, prega. In silenzio.
La piazzetta è un pullulare di auto della polizia, mentre qualche curioso comincia a fermarsi. Arriva anche l’autoambulanza a forte velocità e a sirene spiegate. Un medico si appresta a visitare quel pupo non voluto. Nonna Mena si aggrappa, ora, al lungo braccio della vigilessa, che le accarezza la testa. Non riesce proprio a trattenere le lacrime. Singhiozza come una ragazzina alla quale hanno portato via l’orsacchiotto preferito. Nonna Mena guarda l’ambulanza, mentre il medico ne esce scuotendo la testa. È tutto finito, ora.
I fari accesi delle macchine fanno breccia nel buio della sera. Sulla piazzetta il grande albero di Natale continua a giocare con i suoi mille colori e a illuminare i palazzi. Nel cielo la lunga scia bianca si è dissolta, quel piccolo giocattolo rosso è lontano.
Sono in tanti, ora, attorno alla nonnina a consolarla, come se quel bambino fosse stato suo, tutto suo. Lei, a fatica, alza la testa e cerca, cerca gli occhi di una mamma, che non c’è. Riescono a sentirla sussurrare sottovoce: “…è morto… è morto… è morto Gesù Bambino.”
(21 ottobre 2007)
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